Benedetto XVI: «A quanti hanno responsabilità politiche e militari, per l’immediato avvio di un dialogo, che si sospenda l’uso delle armi» (Angelus, 20 marzo 2011)

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:56

«Che la pace ritorni al più presto per quelle popolazioni e si fermino tragedie ulteriori - dice a Il Sussidiario il cardinale Angelo Scola - significa ridire con forza che ogni morto è di troppo. La pace però non è un automatismo utopistico, occorre costruirla ogni giorno nella realtà». «Noi europei - spiega ancora Scola - siamo vittime di una forte presunzione. Pensiamo di saper valutare e risolvere i problemi senza prendere in considerazione la testimonianza di chi vive in queste situazioni». A cominciare dai cristiani di quelle terre. E non esistono solo le pur importantissime istanze di partecipazione e di democrazia, ma anche le trasformazioni dell’islam. Una sfida nel quale si giocano i contorni spirituali dell’identità europea, e in particolare dell’Italia, cerniera tra nord e sud del mondo. «Chiedo a Dio che un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull’intera regione nord africana», aveva già detto Benedetto XVI all’Angelus di domenica 20 marzo. Che senso può avere parlare di pace quando la politica rivendica un’azione diretta a salvare le popolazioni dalla tirannia? Parlare di pace in queste circostanze significa ovviamente esigere che la violenza delle armi, anche in questo caso, finisca e ceda il posto alla trattativa. Che la pace ritorni al più presto per quelle popolazioni e si fermino tragedie ulteriori, significa ridire con forza che ogni morto è di troppo. La pace però non è un automatismo utopistico, occorre costruirla ogni giorno nella realtà. Per questo, per ottenere la pace, la preghiera si pone, contro ogni scetticismo, come strumento efficace. A ben vedere nemmeno le leve della realpolitik sembrano in grado di rispondere bene ai comandi. Questo da cosa dipende? Da una carenza di «strategia» o da un deficit culturale o di lungimiranza di altro tipo? Io non sono un esperto, quello che posso rilevare è che spesso noi europei siamo vittime di una forte presunzione. Pensiamo di saper valutare e risolvere i problemi senza prendere i considerazione la testimonianza di chi vive in queste situazioni. Questo ci impedisce sovente di considerare tutti i fattori in campo. Molti collaboratori di Oasis che vivono sul posto ci invitano in questi giorni a porre precisi distinguo: la situazione del Nord Africa è diversa da quella del Medio Oriente, anche se le due aree sono in ebollizione. Quello che sta accadendo è un fenomeno in larga parte inatteso o non previsto in questi termini, ma ha connotati assai diversi da Paese a Paese: la Libia non è l’Egitto, conosciamo molto poco della Libia, così com’è radicalmente diverso quanto è accaduto a Tunisi. E ancora diverso è ciò che sta avvenendo in Siria. E nello specifico, della Libia, Eminenza, cosa pensa? Per l’attuale guerra in Libia vorrei ricordare il parere del card. Angelo Bagnasco, espressione di tutti noi vescovi italiani. Mi sembra un giudizio realistico: non si può stare fermi quando sono a rischio molte vite e la società civile. Ciò che diventa complesso da capire è poi in che cosa debba consistere questo intervento. Allora diviene irrinunciabile ascoltare molto attentamente la voce di persone come il vescovo di Tripoli che è lì da anni e conosce la situazione dall’interno. Se ci allontaniamo per un attimo dalle vicende che riguardano la crisi libica, vediamo che tutto il Mediterraneo - a partire dagli attentati contro i cristiani della fine dell’anno scorso, poi con la crisi egiziana, etc. - vive una fase di instabilità senza precedenti. Che cosa sta cambiando? Io credo che, come sempre nelle vicende umane, è solo nel tempo che un processo, per giunta così esplosivo e complesso, può essere compreso. Dobbiamo avere la pazienza di lasciare che tutti i fattori vengano a galla. Certamente non si può sottovalutare l’energica domanda di libertà, di dignità di vita, di democrazia, di lavoro che emerge da questi movimenti, ma ci sono altri aspetti che ancora non riusciamo a vedere e dovremo, invece, con molta cura cercare di capire. Per esempio: quale evoluzione potranno avere i diversi Islam a partire da questi fatti? Nello stesso tempo avanza quel processo che io chiamo “meticciato di civiltà e culture”: un processo storico, che tiene dentro una parte di violenza, una parte di imprevedibile ed anche di speranza, che non chiede il permesso di accadere, ma che noi possiamo almeno tentare di accompagnare, di governare. Quanto la preoccupa la situazione dei cristiani in Medio Oriente? Si può ancora parlare - data la loro esiguità di presenza - di un loro particolare «compito» a fronte di queste circostanze? La situazione dei nostri fratelli cristiani in Medio ed Estremo Oriente è assai dolorosa. Non possiamo permetterci di restare passivi, di non ascoltare la loro voce e il loro grido di aiuto. La Chiesa veneziana, nel percorso della Visita pastorale che ha investito tutta la diocesi, ha potuto collaborare con due persone straordinarie come il vescovo Luigi Padovese, assassinato in Turchia, e Shahbaz Bhatti, il ministro cristiano vittima di un recente attentato in Pakistan. La loro testimonianza ci costringe ad agire per la libertà minacciata della Chiesa in certi paesi a maggioranza musulmana. Il loro martirio ci documenta cosa significa vivere autenticamente da cristiani, cioè vivere del desiderio di seguire Gesù, di trovare un posto - come scrisse Bhatti nel suo testamento spirituale - ai piedi della sua croce per partecipare della sua risurrezione. Tutti o quasi sono d’accordo nel riconoscere che una grande emergenza umanitaria è alle porte. Che cosa devono fare la politica e la società per essere all’altezza del compito? Un conto è l’impeto di accoglienza, che dev’essere immediata verso chi si trova in una situazione di difficoltà così pesante. Un conto è la politica che deve essere ordinata ed organica anche in un caso di grave emergenza come questo. Il problema è assumersi tutti una corresponsabilità, tutta l’Europa è chiamata a giocarsi in questa situazione. Il nostro Paese deve predisporsi ad affrontare con realismo il fatto che si stanno presentando alle nostre porte decine di migliaia di persone. Certo, occorre tenere desto e lungimirante lo sguardo: le tragedie che segnano il Nord Africa e più in generale l’inizio del terzo millennio sono una provocazione formidabile della Provvidenza a pensare l’uomo del futuro. Che uomo vogliamo essere? Un io-in-relazione? Oppure un uomo che, certo, può avere a disposizione mezzi tecnoscientifici strabilianti, ma tende a fossilizzarsi in un’identità individuale e quindi ad involversi?   Secondo lei questa crisi in atto sta anche «misurando» l’unità europea? Questo travaglio sta mostrando che l’Europa non può essere tenuta insieme solo dal cemento dell’euro, ma necessita di un’identità chiara, di una politica estera ed economica solida e di ampio respiro. Ma ciò sarà impossibile, lo ripeto, senza che uomini e popoli europei rispondano ad un grande quesito: “Chi vuol essere l’uomo del terzo millennio?” Forse la tragedia dell’arrivo di moltissimi uomini e donne dall’Africa, se saremo tutti più generosi, potrà provocatoriamente rappresentare un collante per la costruzione di un’Europa pacifica perché capace di aprirsi, con intelligente disponibilità, a chi è nel bisogno. Un’Europa che diventi espressione tangibile di quella condivisione tra i popoli indispensabile per il presente e il futuro e che noi, europei un po’ impagliati e seduti, ancora non siamo stati capaci di rendere progetto stabile di vita buona. Lei, fin dall’inizio del suo mandato, ha centrato la sua missione di pastore sull’essere la Chiesa di Venezia ponte di dialogo tra oriente e occidente. Esiste una missione particolare che essa può svolgere in questo preciso momento storico? Proprio in questo tempo, in cui in tutto il Nordest ci stiamo preparando ad accogliere l’ormai imminente visita del Santo Padre ad Aquileia e Venezia, stiamo aprendo gli occhi su una nuova sfida che attende Venezia e il Nordest intero: ritrovare l’originaria funzione di cerniera tra popoli e culture, ma non più solo tra l’Est e l’Ovest, ma anche tra il Nord e il Sud del mondo. Guardando alla carta geografica dell’area, balza all’occhio come l’Adriatico sia il vertice del Mediterraneo che qui, nelle nostre terre, entra nel cuore della vecchia Europa. Le circostanze ci stanno invitando a interrogarci su quale potrà essere questo necessario, “nuovo” Nordest, che come ai tempi dello splendore di Aquileia, da cui nacquero ben 57 Chiese, potrà ricomprendere Croazia, Slovenia, Austria, Baviera, parte dell’Ungheria. In una parola le regioni dell’Alpe Adria.   * Intervista a cura di Federico Ferraù Fonte: angeloscola.it