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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:22

All'ombra di un grande albero il principe El Hassan bin Talal attende paziente le tante domande di Oasis. Nel grande e sobrio giardino arriva il suono indistinto della città che ci circonda: Amman, vivace capitale di un mondo arabo che si muove, che progetta, che non si accontenta. Il principe è un uomo di vastissimi interessi e di fittissime relazioni. Una delle rare persone che tengono sempre aperte le porte del loro pensiero. Nell'introduzione al suo libro Cristianesimo nel mondo arabo, lei scrive: «Questo volume esprime l'apprezzamento di un leader arabo musulmano per i cristiani arabi». Più avanti rende omaggio ai cristiani. Questo potrebbe sembrare strano ai lettori occidentali abituati come sono alla coincidenza tra il mondo arabo e l'Islam. Come mai ritiene che i cristiani siano così importanti per il mondo arabo? Tornerei indietro al progredire della storia. Lasci che chiarisca molto bene che in termini di riconoscimento delle verità superiori e ultime, 3000 anni prima delle religioni monoteiste troviamo le parabole in scrittura cuneiforme, forse non con gli stessi nomi, ma essenzialmente abbiamo Giobbe, abbiamo Giona, abbiamo anche la Genesi. Ovviamente è nella natura delle religioni non concentrarsi su queste realtà che predatano le rivelazioni che hanno portato al monoteismo, ma anche ad Ercolano troviamo Filodemo di Godara, che si trova in cima a questa strada, che ha sviluppato l'epicureismo, che come sappiamo si concentrava sul riconoscimento interiore dell'essere ultimo. Quindi mi piacerebbe dire che la gente di questa parte del mondo, all'interno del contesto bizantino, si aprì naturalmente al cristianesimo e alla rivelazione cristiana. Chi era cristiano prima dell'Islam rimase cristiano dopo l'avvento dell'Islam. E quando diciamo arabo, incidentalmente, una delle ragioni per cui ho scritto il libro è che volevo cancellare lo stereotipo che "arabo significa esclusivamente musulmano". Quindi se guardiamo alle tribù cristiane che sono rimaste cristiane, abbiamo gli Hassan, i Lachem e molte altre. Queste tribù ci sono ancora nel contesto del nostro mondo arabo orientale nel momento attuale. In effetti, se vogliamo rendere il dovuto riconoscimento, vale la pena di notare che il primo incontro tra musulmani e cristiani, ovvero il patto di Aylah del VII secolo tra il Profeta e il Vescovo dell'attuale Aqaba (come vede, la chiesa sorgeva lì), riconosceva i diritti di culto e non interferiva con i luoghi di importanza religiosa per i cristiani. E questo naturalmente era lo spirito e la lettera che venivano osservati a Gerusalemme. Quindi direi che da prima dell'avvento dell'Islam al giorno d'oggi gli arabi cristiani hanno giocato un ruolo fondamentale nella società. Credo che la cosa importante nel mondo arabo orientale, rispetto al mondo arabo occidentale (Marocco, Algeria la loro è stata un'esperienza di dominazione imperialistica, durante i secoli XIX e XX, e di creazione di realtà di lingua francese o spagnola, o anche realtà italiane nel caso della Libia), sia che i musulmani non si convertirono al Cristianesimo: c'erano già cristiani in quei luoghi, per cui lo spirito del Cristianesimo fa ampiamente parte del nostro presente. È triste in questo contesto, quando parliamo di riconoscimenti, vedere che l'emigrazione più consistente dalla Terra Santa è quella dei cristiani. E penso che sia triste anche il fatto che gli incentivi offerti dai paesi europei, dai paesi dell'emisfero occidentale, sono per la maggior parte per l'emigrazione di cristiani: stanno effettivamente contribuendo all'impoverimento dello spirito della cultura cristiana. Credo che questo riconoscimento andrebbe fatto in modo molto specifico nel contesto del Congresso Mondiale di Studi sul Medio Oriente che il nostro Istituto Reale per gli Studi Interreligiosi ospiterà l'anno prossimo, durante il quale spero si sviluppino certe collaborazioni. Per esempio, una società di testi letterari occidentali potrebbe incoraggiare la creazione di una società per i testi letterari orientali. Come si possono aiutare i cristiani a rimanere e riconoscere le loro radici qui? La Chiesa è molto preoccupata per l'emigrazione della popolazione cristiana, delle famiglie cristiane, dei giovani. Personalmente ritengo che la questione dell'autorità morale nelle città sante potrebbe essere discussa nel contesto di quello che ha realizzato il Vaticano nel corso dei secoli. Avete una città santa in effetti avete uno stato indipendente ma non sto entrando in questioni politiche quando dico che la sovranità è di Dio. Gerusalemme, Betlemme, Nazaret, e se è per questo Najaf e la Mecca il concetto occidentale è sempre la separazione di Chiesa e Stato. Vorrei piuttosto vedere un'elevazione della Chiesa, o se è per questo della sinagoga e della moschea, in termini di valori, sopra la politica, sopra la politica degli affari correnti, in quel senso e con tutto il rispetto per i palestinesi e gli israeliani che stanno trattando il futuro della pace e il futuro dello Stato palestinese, che vuole vivere in pace con la sua capitale Gerusalemme, così come il concetto di Gerusalemme come capitale è molto caro a Israele. Ciò che è importante per il resto di noi, per i musulmani, i cristiani, gli Ebrei, a livello internazionale, è porre la domanda: quando l'autorità morale ispirerà quelle istituzioni che trovano così difficile lavorare nelle circostanze attuali? E qui mi riferisco alle strutture educative. Si parla molto dell'insegnamento per analogia, di ricostruzione spirituale e sviluppo, di ricostruzione psicologica e sviluppo. Cosa possono fare le chiese, le moschee e le sinagoghe per sviluppare un codice di condotta, un codice di valori condivisi? E parlando di valori condivisi, se ci fossimo tutti attenuti ai Dieci Comandamenti non avremmo sofferto così tanto! Ma per tornare ai valori condivisi, mi chiedo se non sia arrivato il momento di costituire queste città sante con le parole e i fatti. In quanto a questo, sono lietissimo di vedere che l'Associazione dei Musulmani Asiatici in Cambogia e Thailandia sta lavorando con la Conferenza Episcopale cattolica. Questo è altruismo. Non è affatto filantropia; è spirito di carità (alms, non arms, armi ne abbiamo avuto abbastanza di queste) che lavora in aree che promuovono la dignità umana. Similmente in Africa, nella Conferenza Mondiale per le Religioni e la Pace, stiamo lavorando con comunità cristiane, comunità musulmane, per promuovere bambini africani pieni di speranza e felici. A questo punto credo che l'ispirazione per tutto questo dovrebbe venire anche dalla Terra Santa. Ancora una volta potremmo parlare dei Caminos de la Paz, e i Caminos de la Felicidad. Perché il Mediterraneo Iberico America Latino Encuentro non può essere promosso riconoscendo i cammini della fede da Aix e Compostela da e per Gerusalemme? È stato scritto molto su questo argomento ma mi rendo conto che a Gerusalemme, Betlemme, Nazaret e Hebron il contesto è in gran parte quello di comunità vittimizzate; priorità politiche e priorità demografiche che dedicano poca attenzione ad essere un'ispirazione per il mondo. Io credo che quella ispirazione vada trovata di nuovo in situ. È questo, naturalmente, che aveva fatto nascere il fervido desiderio, che purtroppo non si è realizzato per via della guerra in Iraq, nello scomparso e molto rimpianto Papa Giovanni Paolo II, di fare un pellegrinaggio alla Terra Santa includendo una visita a Ur dei Caldei, oltre che a S. Caterina e Gerusalemme. Credo sia importante promuovere in questa parte del mondo quelli che io chiamo nomi generici, ma il nazionalismo ha fatto troppi danni. Il nazionalismo è stato descritto una volta dallo scrittore inglese Aldous Huxley come «una comune incomprensione della storia e un comune odio per i tuoi nemici». Per questo penso che ora dobbiamo riconoscere che dovremmo trascendere il nazionalismo con ciò che è sovranazionale; dovremmo comprendere i valori fondamentali, e in questo contesto quando diciamo Terra Santa credo che dovremmo intendere quello che diciamo. Alla fine del suo libro lei scrive: «I cristiani arabi non sono certamente esclusi dalla società araba islamica». Non crede che l'attuale campagna fondamentalista islamica sia una minaccia a questa convinzione? Vorrei solo dire che gli Islamisti, che è il modo in cui la gente si riferisce ai fondamentalisti, come osserva il recente rapporto del Gruppo Internazionale Crisi, si dividono in almeno tre categorie, e lei e i suoi lettori potete sviluppare nella vostra mente l'immagine corrispondente di queste tre categorie. Abbiamo chi fa proselitismo, a cui si oppongono specularmente i cristiani che evangelizzano dalla parte opposta. Li ho visti entrambi in Africa che quasi si spartivano il terreno, il che è una sfortuna perché, come ho detto, personalmente credo nell'importanza di promuovere la dignità umana. Abbiamo poi, naturalmente, gli anarchici. Chi fa proselitismo è la prima categoria, sono coloro che vogliono convertire, poi nella seconda categoria ci sono gli anarchici, i cosiddetti gruppi islamici che credono nell'accusare altri di apostasia, e su quella base non accettano l'ordine costituito, così che credono solo nell'uccidere le autorità. E in questo senso ritengo abbiate avuto esperienze simili non li definireste cristiani ma avete avuto le Brigate Rosse, Baader Meinhof e quella organizzazione giapponese che ha usato il gas nervino e così via. Queste persone sono nichilisti. Voglio dire che sì, vengono chiamati "islamisti", è capitato che questo sia il marchio, ma non vedo nessuna connessione tra loro e la religione basata sulla fede. Poi abbiamo gli attivisti politici e quelli che sono diventati o che stanno diventando partiti politici. Voglio dire, abbiamo attivisti politici musulmani al potere oggi in Turchia, per esempio. Nel 1989 abbiamo avuto le elezioni in questo paese, e i fratelli musulmani hanno fatto un considerevole passo in avanti. Ma il processo democratico è ciclico le persone salgono al potere e poi lo perdono per votazione e credo che ci sia il desiderio o la speranza che venga il giorno in cui come voi avete i Cristiani Democratici noi avremo i Musulmani Democratici. Personalmente credo nello Stato civile: "laico" suona un po' strano qui. Se dici "laico" la gente pensa subito che stai dicendo "agnostico". Per cui preferisco parlare di stato civile. Credo che il fondamentalismo sia veramente un motivo di preoccupazione, non solo per i cristiani ma anche per i musulmani, e in questo senso credo che quanto più ci sarà un'assenza di piena partecipazione culturale alla vita pubblica, tanto più sarà probabile che queste preoccupazioni e paure si trasformino in un'opposizione diretta e in una balcanizzazione, in frammentazioni etniche e settarie in molte forme. Vorrei suggerire che forse i cristiani, i musulmani e gli ebrei dovrebbero prendere seriamente in considerazione la promozione del centrismo, così che quella che io chiamerei la maggioranza ridotta al silenzio, non la maggioranza silenziosa, ma la maggioranza ridotta al silenzio, venga mobilitata. Siamo sempre impegnati contro qualcosa, contro l'antisemitismo, contro l'islamofobia, contro il razzismo. Non è ora di impegnarsi per qualcosa? È per questo motivo che abbiamo costituito un Parlamento delle Culture, che è stato originariamente promosso per via di un'idea emersa durante conversazioni avute con lo scomparso Yehudi Menuhin, per esempio, o con Walter Sisulu in Sudafrica. Dicevano tutti che abbiamo lavorato contro la discriminazione, ma perché non lavorare per qualcosa? Ora stiamo cercando di costituire un Centro di Studi Umanistici Mediterranei, una sinergia tra i media e il mondo accademico, che potrebbe studiare i contenuti delle differenti realtà sociali delle diverse parti della regione piuttosto che cercare solo il sensazionalistico, dando così in un certo senso spazio gratuito sulla stampa e pubblicità gratuita agli orrori della morte e distruzione. Farò un esempio. Durante la Guerra del Golfo ospitavo dei giornalisti a casa mia durante il Natale e avevamo un albero di Natale. E loro hanno detto: «Oh che atmosfera normale c'è ad Amman avete gli alberi di Natale in diverse case». E io ho detto: «Perché non scrivete una storia su questo?» E loro hanno risposto che non sarebbe mai stata pubblicata qualcosa che sottolinea la normalità non viene mai menzionata. Questa è una tragedia. Intendo dire che semplicemente non ci stiamo umanizzando a vicenda; infatti stiamo cadendo nella trappola posta dalla polarità degli estremisti, qui, negli Stati Uniti e altrove. Non crede che ora il fondamentalismo islamico sia più un pericolo per l'Islam di quanto lo sia per le società cristiane il fondamentalismo cristiano? Voglio dire che c'è qualcosa di più pericoloso qui, in questa regione. Sì, io la metto così. Gli americani si fanno questa domanda, «Perché ci odiano?», e io vorrei da parte mia chiedere agli arabi e ai musulmani «Perché ci odiano?». Allo stesso tempo devo chiedere: «Perché ci odiamo?». E la risposta a questo è che anche se ci si riferisce a noi come Islam, intendendo dal Marocco all'Indonesia e tutti gli immigrati musulmani, non siamo omogenei. Siamo altamente eterogenei e questa eterogeneità significa che come risultato di azioni unilaterali, particolarmente dopo l'undici settembre, abbiamo una priorità in agenda, che è la sicurezza: una sicurezza dura in termini di armi e del confronto con i terroristi e così via. Ma non abbiamo ancora sviluppato un approccio multilaterale per affrontare l'altra serie di priorità e azioni multilaterali tra gli Stati: l'economia sociale, l'economia politica, la cultura e le discipline umanistiche. Vorrei che venissero poste condizioni preliminari di base all'assistenza internazionale a regioni come la nostra, condizioni preliminari basate sulla domanda: «State effettivamente affrontando le cause di fondo dell'estremismo?» Forse ieri queste erano il fascismo o il comunismo; nel linguaggio di oggi è conosciuto come "fondamentalismo". Uno dei nostri esperti è l'autore di questa domanda: «Riguardo alla condizione dei cristiani all'interno dell'Islam, molti autori giustamente sottolineano il fatto che le condizioni originali per il Popolo del Libro secondo i dettami del Corano erano molto migliori che nei periodi seguenti. Lei crede che i sistemi legali andrebbero riveduti?» Sono pienamente d'accordo. Credo che l'intero concetto di diritto canonico nei paesi dove esiste una cultura cristiana dovrebbe essere rivisto dalla comunità cristiana stessa. Ma non credo veramente che possiate avere entrambe le cose. Intendo che non potete continuare a dire che siete privati di diritti in termini di tradizione culturale, per esempio, finché continuate a lasciare il peso (riguardo ai diritti delle donne o altre questioni) sul sistema legale del paese ospitante, che nel caso di un paese come il mio si basa su due sistemi: il diritto civile sul Codice Napoleonico francese, e la shari'a, che in realtà non è responsabile per il diritto penale ma per il diritto di famiglia e che è stata accettata per decenni dalla comunità cristiana in mancanza di un loro secondo me legittimo interesse nel mobilitare i tribunali ecclesiastici. Le farò un esempio di una delle questioni che si presentavano continuamente per anni i cristiani hanno chiesto che venisse riconosciuta nelle scuole pubbliche l'istruzione cristiana. Questo ora si è realizzato. Quando si tratta del servizio militare, mi ricordo un caso particolare in cui un Arcivescovo, l'Arcivescovo Jadur, visitò uno studente che studiava per diventare religioso, un seminarista, che chiese di essere esentato dal servizio militare. L'arcivescovo Jadur disse: «Io ho prestato servizio civile in Belgio, il mio paese d'origine. Lo Stato sta offrendo a lui, un seminarista, un ruolo non combattente nei servizi medici. Così può fare il suo tirocinio medico, servire lo Stato, e continuare gli studi. Ma non create uno scisma tra la dedizione al proprio paese e gli studi personali religiosi altrimenti aprirete le porte ad altri, per esempio agli estremisti islamici, che diranno "E allora noi?"». Quindi credo che si possa ricercare un modus vivendi, ma si sarebbe dovuto affrontare prima attraverso una discussione più costruttiva sulla cittadinanza, in un contesto pluralista, in cui esempi dal mondo dovrebbero servire la memoria istituzionale di coloro che affronteranno queste questioni, ancora in termini di codici di condotta per l'industria e il commercio. Rivedere la moralità è una responsabilità comune per i cristiani, i musulmani, gli ebrei e le persone di altre confessioni, o dei non credenti se è per questo. Come ha detto Gandhi, nel mondo c'è abbastanza per i bisogni dell'uomo, ma non per i suoi sogni. Quindi come dovremmo affrontare questa questione della legalità dovremmo accettare il fatto che viviamo governati da una legge per i ricchi e un'altra per i poveri? Le voglio chiedere qualcosa riguardo alla fede islamica. Come cristiano sono veramente toccato, colpito, dal senso di mistero, il senso del divino, che vediamo presente in modo così profondo e intimo nella fede musulmana. Ma Dio sembra così lontano dal mondo. In che modo un musulmano fa esperienza dell'amicizia tra lui e Dio? Ad Abramo è stato dato l'onore di essere l'amico del misericordioso, l'amico di Dio, cosa abbastanza interessante perché è considerato dai musulmani, cristiani ed ebrei come in un certo senso il precursore spirituale del monoteismo. Voglio dire, sì, ci sono alcuni che ritengono che Abramo sia come la posso mettere centrato nella fede ebraica, ma credo sia generalmente accettato nel contesto di una continuità delle fedi, e in questo senso penso che ognuno dei successivi profeti da Noè ai giorni nostri noi riconosciamo Noè come profeta sia interessante per via di questo aspetto umano, questo amore e questa amicizia. Vorrei far notare che per quanto riguarda la percezione di Gesù da parte dei musulmani, vi è questa percezione di un essere umano, di una religione dell'amore, che è la stella guida, se permettete, del Cristianesimo. Per quanto riguarda il Giudaismo credo che probabilmente la stella guida sia la legge. E credo che per quanto riguarda l'Islam abbiamo questa stella guida della religione della giustizia nel senso del riconoscimento dei diritti dell'altro. E in ognuno di questi casi, che sia Mosè, Gesù o Maometto, si ha questo senso del riconoscimento, come ha detto lei, del mistero, della mistica, di una guida esemplare e ispirata. Ma allo stesso tempo c'è questa affinità senza la quale culture in un mondo così eterogeneo non sarebbero state attratte verso, non avrebbero gravitato verso, questo concetto dell'unicità di Dio per così tanto tempo. Quando si parla di Sufismo uno pensa agli eremiti. Sono attratto dall'idea che per secoli nel nord del Libano, per esempio, eremiti e sufi hanno cantato insieme le lodi di Dio. E in termini di percezione, i sufi riconoscono l'importanza delle qualità umane per la loro salvezza probabilmente più di altri. Spero solo che la rigidità nella diversità in termini di rito, e questo naturalmente lo dico con grande rispetto, non interferirà con la nostra abilità nel comunicare tra di noi come esseri umani, e così, per usare le sue parole, con l'amicizia congiunta di Dio e dell'uomo. Il Regno di Giordania è rinomato per la sua tolleranza e la convivenza tra musulmani e cristiani che vivono qui. Lei pensa che questo paese sia un'eccezione? Credo vi sia qualcosa di speciale riguardo a questo paese, ma non credo sia un'eccezione. In Indonesia nei decenni passati, o in Siria, per esempio, le persone dicevano la stessa cosa i cristiani e i musulmani vivono nel rispetto reciproco... ...Anche in Iraq... Sì, certo, anche in Iraq, prima di questi terribili eventi. Per questo credo che quando abbiamo una società religiosa matura, sicura e fiduciosa riguardo alle sue origini e radici, abbiamo quel livello di rispetto per l'altro. L'etica giordana, come la vorrei chiamare, è stata in verità una parte dell'eredità del regno nel contesto della monarchia giordana, che naturalmente per quanto riguarda la genealogia appartiene alla famiglia del Profeta. In quel senso credo che la Giordania sia consapevole delle sue responsabilità verso l'Islam centrista e verso la moderazione in tutte le cose, ma soprattutto in termini dei diritti dei suoi cittadini, sia cristiani che musulmani. Questo mi porta alla domanda sui cambiamenti nel mondo arabo che abbiamo riscontrato nei mesi recenti diciamo in Siria, Libano, Iraq e così via. Da una parte abbiamo alcuni paesi in cui vediamo questi cambiamenti, forse non sono così chiari, non lo so. Dall'altra, ci sono paesi in cui non è successo nulla o sembra non succeda nulla. Qual è la sua opinione? La questione della libertà, anche di parola, in una società, non si può ottenere solo con le votazioni. Anche se abbiamo avuto elezioni a Gaza, o a Bassora, e la preparazione di elezioni in Libano e in Egitto, il fatto è che la gente in fondo sta dicendo che anche se quello democratico è un processo in cui sono parzialmente coinvolti, non può più aspettare. E per quanto riguarda gli arabi della diaspora, in Europa e negli Stati Uniti e altrove e gli arabi che vivono nella regione, credo vi sia una grande frustrazione per l'assenza di una società meritocratica. C'è il sentimento diffuso che non esiste la pari opportunità, o certamente non esiste ad un livello adeguato, e che il pluralismo non viene rispettato. Ricordo di aver visitato i laureati della Scuola di Management di Fontainebleu e ho chiesto: «Quanti di voi giovani uomini e donne dotati torneranno nel mondo arabo?» e mi hanno risposto: «Nessuno di noi. Perché dovremmo tornare? Non abbiamo opportunità di lavoro. Non conosciamo nessuno che conosca qualcuno. Non vogliamo entrare in questo gioco politico». Per cui penso che ci sia un genuino desiderio di emancipazione in una larga parte della comunità che verrà espresso o all'interno del contesto del sistema democratico, o, purtroppo, se il sistema democratico non vi risponderà, a spese dello Stato. Lei ha detto: «In questa regione non abbiamo una democrazia in stile Westminster». Lei crede che questo tipo di democrazia non sarà il futuro di questa regione? Potrebbe essere così. Se si legge la storia dell'Inghilterra del XIX secolo, per esempio, parlando di Westminster, vi erano politici corrotti, la promozione di programmi politici, c'era un qualche dialogo politico. Questo sistema caratterizzava la Gran Bretagna del XIX secolo e caratterizza parte del nostro mondo in via di sviluppo incluso il mondo arabo. Per cui per passare da questo retroterra al sistema cantonale svizzero, per esempio, o al Bundesstaat tedesco, o al sistema federale degli Stati Uniti, occorre il riconoscimento dell'importanza della partecipazione di tutti, indipendentemente dal contesto di provenienza etnico, religioso o culturale, per una nuova cultura di costruzione dello Stato, e questo è per definizione le democrazia come processo. Ma io credo che questa idea di democrazia come condizione indispensabile, nei termini enunciati specialmente in Occidente dai critici della nostra parte di mondo, travisi la questione. Nella Russia del XIX secolo c'era un libero movimento degli ufficiali e partiti politici. Sharansky ci dice che il problema di fondo degli arabi è la mancanza di democrazia. Sicuramente è un esperto, visto il suo passato nei gulag dell'Unione Sovietica, sulla mancanza di democrazia e di diritti civili in Russia e probabilmente nel blocco orientale, ma credo che uno dei problemi qui è che non c'è nessun movimento a livello popolare della società civile nel mondo arabo o in molti paesi musulmani. E quando questo movimento popolare viene istituzionalizzato, sia che porti a Westminster che a un sistema cantonale, o a un sistema confederato volontariamente, allora è veramente una scelta del popolo. Ma credo che vada presa la decisione cosciente di delegare le responsabilità. Quelli al potere in molti di questi paesi sono preoccupati di una perdita di sovranità e di potere, e questo processo evolutivo è impregnato da una sensazione che l'autorità centrale verrà indebolita. Spero che si renderanno conto, prima piuttosto che poi, che solo attraverso l'evoluzione del decentramento possono evitare la rivoluzione. Lei prevede che possa realizzarsi una democrazia in stile Westminster, per usare le sue parole? Molti leader arabi ritengono che il popolo non è preparato per andare a votare. Se mi sta chiedendo se c'è una contraddizione tra l'Islam e la democrazia rispondo di no. Se mi sta chiedendo se abbiamo tante ragazze istruite nei paesi musulmani quante ve ne sono in quei paesi europei che sono diventati parte dell'Europa mi sto riferendo ai paesi dell'Est le risponderei ancora di no. A quelli che dicono che gli arabi non sono preparati, vorrei chiedere: «Perché no?». Se è una questione di dottrina, non credo ci sia nulla nell'Islam che dica che non siamo preparati a partecipare nelle società più competitive del mondo. E abbiamo persone di successo che partecipano come individui e comunità musulmane nei paesi occidentali. Ma se sta dicendo che non siamo preparati perché non abbiamo offerto pari opportunità, allora le ricorderei che solo nel mondo arabo ci sono più di 70 milioni può ottenere la cifra esatta di analfabeti. Non sto parlando solo di persone analfabete per quanto riguarda la lettura e la scrittura; sto parlando anche di analfabetismo legale. Non conoscono le loro responsabilità come cittadini. E in un certo senso quei leaders che dicono che i musulmani non sono preparati alla partecipazione dimostrano un grado di analfabetismo legale, analfabetismo costituzionale, o anche cecità intenzionale. Non c'è nessuno più cieco di chi non vuol vedere. Nel mondo occidentale molti pensano che l'Islam non sappia separare la politica dalla fede, non sappia separare la religione e gli affari pubblici. Naturalmente lei conosce questa obiezione: forse questa è una delle distorsioni della fede islamica che sottolinea così spesso. Sì, ma vorrei fare una distinzione tra la religione come civiltà, la religione come cultura, e la religione come fede. Molto tempo fa ho frequentato il Centro per gli Studi della Civiltà Islamica, dove, per esempio, svilupparono un dibattito dettagliato sulla partecipazione, l'inclusione, l'organizzazione della società civile, le fondazioni e le sovvenzioni. Nelle capitali come Damasco e Il Cairo ci sono sovvenzioni per tutto, dalla protezione dei bambini alla protezione dei gatti randagi. Quando si parla di cultura islamica ci si riferisce al progresso dei testi orientali, per esempio, che vorrei vedere tradotti per sviluppare una maggiore comprensione. Ma non stiamo parlando di fede: c'è una concretizzazione di quella fede per quanto riguarda lo spirito della legge, per esempio, cosa che abbiamo discusso prima: la legge ecclesiastica e la shari'a. Un esperto di anti-terrorismo russo, riferendosi ai musulmani nella vecchia Unione Sovietica, una volta mi ha detto: «dobbiamo fermare il diffondersi della shari'a». Io gli ho risposto «ma non stiamo fermando una malattia contagiosa stiamo fermando un sistema legale o arginando un sistema legale», che secondo me può essere rivisto dagli studiosi musulmani. Il mio problema con l'assenza di uno studio accademico musulmano sta nel fatto che nelle città religiose, Mecca, Najaf e Medina, per esempio, la religione si è concentrata sul rituale, sul culto, sul sacrificio simbolico e così via, e non ha ridato vita alla tradizione della consultazione. Questo spirito di consultazione in un contesto religioso è essenziale. Le offrirò un aneddoto illuminante. Dopo l'11 settembre ci chiedevano continuamente, «perché i musulmani non l'hanno condannato?» e noi abbiamo enumerato 20, 30, o 40 persone che hanno fatto proprio questo. Dopo tutto, un quinto delle persone uccise l'11 settembre erano musulmane. Poi ci sono alcuni musulmani che dicono: «Se il Mufti di questo o il Mufti di quello lo condannano, cosa importa se sono dichiarati apostati dagli estremisti?». La questione è: chi sta guidando l'Islam? Sono gli estremisti con i loro progetti politici o un corpo centrista di pensatori musulmani che stanno affrontando di comune accordo queste questioni? Sembra ragionevole che una conferenza alla Mecca, per esempio, durante il Hajj (pellegrinaggio) assuma un atteggiamento responsabile verso l'intera questione degli attentati suicidi e l'uccisione di persone innocenti. Noi non perdoniamo il suicidio e non perdoniamo l'uccisione di innocenti. Non solo questo. Credo che su molte questioni, dalla ricerca sulle cellule staminali agli attentati suicidi, dovrebbe essere riconosciuta l'importanza di un'autorità centrale, che sia alla Mecca, a Najaf, o presso al-Azhar per esempio. Se tutte le decisioni vengono politicizzate, allora chiaramente non stiamo né servendo la religione né affrontando lo sviluppo del sistema politico. L'Islam non ha una Chiesa sola; non ha un'autorità suprema. È questo il punto. La situazione è come quando Kissinger chiese qual era l'indirizzo dell'Europa. La gente sta semplificando la questione e chiede qual è l'indirizzo dell'Islam. Ma io farei notare che nei secoli passati c'era consultazione alla Mecca e a Istanbul. C'era un punto di riferimento e questo deve essere ripreso. In questo senso non si separano Chiesa e Stato ma si eleva il sistema dei valori, come ho detto, delle questioni religiose, separando così piuttosto elegantemente Chiesa e Stato. Ma questo non significa che la cultura islamica, la civiltà islamica, è finita. Io credo che, probabilmente, andando in America Latina osserverebbe che la civiltà e la cultura cristiana sono ovunque in termini di pratica quotidiana, ma questo non vuol dire che il processo democratico non sia ben sviluppato. Non vedo una contraddizione. Ma naturalmente sa che le piattaforme si evolvono: per esempio, la teologia della liberazione. E che il vostro fare riferimento alla Santa Sede costituisce una posizione. In un certo senso credo vi sia una forte somiglianza forse ad alcuni dei vostri lettori non piacerà sentire questo tra la teologia della liberazione e la religione islamica, particolarmente per quanto riguarda la povertà e i diseredati. Qual è la sua risposta alla sua domanda: «Chi sta guidando l'Islam ora?» Vede, la Umma è un concetto sovranazionale e credo che la Umma dovrebbe sviluppare una classe di studiosi che sia realmente rappresentativo della sua eterogeneità. Dico di nuovo che questo potrebbe essere molto difficile ma con tutto il rispetto per l'Arabia Saudita, l'Algeria, la Malesia, la Cecenia o altri paesi, per quanto riguarda i musulmani nelle diverse parti del mondo Senegal e così via una tale ricchezza e diversità esistono. Quindi ritengo che il dialogo cerco sempre di promuovere la nobile arte del dialogo andrebbe promosso tra di noi. Non possiamo dialogare con gli altri come individui se non abbiamo abbastanza fiducia nel fatto di aver cercato di sviluppare un certo grado di comprensione tra noi. Ma alla fin della fiera, ancora una volta, direi che le società sono a stadi diversi di sviluppo: forse i punti di vista della comunità ASEAN, che è per lo più musulmana, sono diversi dai punti di vista della comunità mediorientale. Perché una dovrebbe parlare per l'altra? Non credo che questo sia giusto o accettabile. Voglio concludere l'intervista tornando alle relazioni tra cristiani e musulmani. Lei sa che uno dei temi fondamentali che abbiamo discusso è quello che noi chiamiamo il principio di reciprocità a un livello molto semplice significa una moschea a Roma, una chiesa in Arabia Saudita. Ad alcuni questo sembra un principio sorpassato e credono che dovremmo trovare qualcosa di nuovo. Credo nelle finestre di opportunità. Nel passato, lei sa, la gente diceva: «Non sarebbe meraviglioso se i musulmani potessero pregare nella Mezquita e i cristiani nella Moschea Blu a Istanbul?». Se in un dato momento il livello di generosità intellettuale lo permettesse, allora andrebbe benissimo. Ma credo che porlo come condizione per negoziare sarebbe come arginare l'acqua. Continuo a dire che le idee dovrebbero fluire come l'acqua: se quest'acqua trova difficoltà a fluire in una certa valle, c'è sempre un'altra valle. Ma la cosa principale è mantenere lo slancio del nostro dialogo. Sa che abbiamo bisogno di più MCRF misure che rinforzano la fiducia: abbiamo abbastanza MCCO misure che costruiscono ostacoli! Credo che dovrebbe essere un principio di fondo ma non dovrebbe essere necessariamente una mera questione di scambio. Crede che non vedremo una chiesa in Arabia Saudita? Non lo so. Personalmente credo che la libertà di culto dovrebbe essere permessa dovunque la vogliano le comunità. Ma allo stesso tempo, sa, guardiamo sempre la democrazia nei termini del modello occidentale. Perché non la guardiamo in termini del modello indiano? Hanno un capo dello Stato musulmano, un primo ministro Sikh, un presidente della camera comunista e la persona più influente oggi è senza dubbio un ministro cattolico donna. In società diverse troviamo risultati diversi: questo è più un riflesso delle dinamiche di una società che un riflesso delle sue religioni.

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