Istantanee dalla tappa giordana della visita del Santo Padre in Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:01

Quello che si vede e si sente nello stadio di Amman è tanto, tantissimo. Ma quello che non si vede sorprende ancora di più, anche la stessa capitale giordana. Fin dal mattino non si contano i volti, i colori, gli striscioni, i canti, i cori di benvenuto e i rosari giganti di palloncini rosa, la festa che man mano si accende… Così come ci si perde tra le centinaia di volontari all’opera (sono oltre 500), le famiglie in attesa sotto l’ombrellino per difendersi dal sole mediorientale, i poppanti predisposti per una giornata campale, le forze dell’ordine dispiegate in tutta la capitale. Ma ciò che non è misurabile con lo sguardo, ciò che viene prima del colore e del rumore, è la parte più interessante della cronaca di questo viaggio papale in Medio Oriente. Non sono un inedito i pellegrinaggi del Santo Padre, soprattutto in Giordania, che può vantare un primato: è l’unico Paese che conta al suo attivo ben quattro visite papali (Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora Francesco). Ma sono sempre una novità che spacca ciò che potrebbe diventare assuefazione. La messa celebrata nello stadio in Terra Santa, in una terra – un’oasi l’ha chiamata qualcuno – strappata alla violenza che colpisce la vicina Siria e grava minacciosa ogni secondo sul Libano, a pochi chilometri da Israele e dalla Palestina, è stata ancora una volta una novità. Qualcosa che introduce un nuovo inizio, qualcosa con cui poi non si può non fare i conti, che si innesta nella tradizione per spingere con decisione in avanti. Che trentamila persone si siano mosse di casa per andare a occupare un posto allo stadio molte ore prima dell’arrivo del papa (come richiedevano le pesanti misure di sicurezza) ha confermato il forte senso di appartenenza e di identità di una comunità che, per quanto arrivi appena al 2-3 % della popolazione complessiva in un Paese in cui il giorno è cadenzato dall’appello alla preghiera del muezzin, sa dove vuole poggiare. La “terra dell’Incarnazione”, come l’ha chiamata in un’intervista a Oasis Mons. Marcuzzo, ha visto di nuovo i cristiani mettersi in moto per andare dal papa. Perché? Rispondono loro: «Perché cerchiamo una parola di speranza – dice Diana, studentessa di Irbid – perché abbiamo bisogno di pace, ma non solo per noi». «Perché la vita è difficile – confida Sa’id – perché la crisi economica di Giordania e l’instabilità di tutta la regione ammazza il futuro dei giovani e dobbiamo trovare qualcosa di solido a cui appoggiarci». «Perché il Papa costringe ad andare alla fonte. Perché il papa è il papa e ci incoraggia. E chi non ha bisogno di coraggio?». In Giordania i cristiani non sono perseguitati né si ritengono fortemente discriminati. Sono consapevoli che essere una minoranza comporta un prezzo da pagare, nel senso che devono fare un po’ più fatica degli altri per emergere, per ricavarsi uno spazio proprio. Ma sanno che molte delle difficoltà che vivono loro sono le stesse dei musulmani di qui: «Siamo in netta minoranza – argomenta Abdallah – cosa possiamo pretendere dallo Stato? Prendiamo ad esempio la questione drammatica dell’emigrazione, che svuota il Paese delle risorse migliori: se un ragazzo studia 5 anni ingegneria e arriva a ottenere un lavoro da 400 dollari al mese, che non gli permette neanche di vivere, è chiaro che decide di andarsene. Ma non accade solo ai cristiani, è lo stesso anche per i giovani musulmani». I cristiani sono cittadini al pari di tutti gli altri in Terra Santa, ha ricordato il papa poco dopo il suo arrivo, incontrando il re. E di questo sono convinti quanti sono accorsi ad ascoltarlo e si sono messi a correre, travolti dall’entusiasmo, dietro alla papamobile. Cittadini a pieno titolo “del domani” anche i bambini, seduti in migliaia nelle prime file, in abito bianco, pronti a ricevere la Prima Comunione durante la messa di papa Francesco nello stadio giordano. Vivaci, raccolti e a tratti distratti, come i piccoli di tutto il mondo, sorvegliati dallo sguardo delle famiglie poco distanti, hanno detto a Francesco e al mondo, fisicamente, «ci siamo». Ci siamo, in questa terra dove Dio ha deciso di chinarsi sugli uomini, di farsi uno di loro e dare inizio a una storia nuova. Ci siamo “baba Fransis” in questo Medio Oriente tribolato, dove attori stranieri giocano partite strategiche sopra le nostre teste. Ci siamo in questo Paese che oggi accoglie quasi mezzo milione di profughi siriani secondo i dati ufficiali (mentre stime non ufficiali parlano di oltre un milione di presenze), dopo averne accolti centinaia di migliaia dall’Iraq e prima ancora dalla Palestina. Ai profughi, come ai malati, il papa in Giordania ha dedicato un’attenzione particolare abbracciandoli nei pressi del sito del battesimo di Gesù, sul fiume Giordano. Un gesto che, dal luogo in cui cominciò la vita pubblica del Nazareno, ha posto davanti allo sguardo del mondo una questione non più rinviabile: la vita di queste persone costrette dalla guerra a lasciare casa, lavoro, affetti per un altrove incerto e un destino sospeso è una questione che riguarda ciascuno. Comprese le città opulente dell’Occidente che si trovano a dover “sistemare” i rifugiati che si materializzano, per vie rocambolesche, nelle loro stazioni centrali e chiedono riparo. Anche il contesto musulmano non è rimasto impassibile. I cartelli ad ogni passo sui viali di Amman con la foto del primo incontro tra il re e il papa avvenuto a Roma mesi fa e l’annuncio della visita imminente, hanno reso familiare al popolo il papa e contribuito ad accreditare la Giordania come il Paese dove non solo c’è la libertà religiosa, ma dove si promuove il dialogo interreligioso come in nessun altro Paese mediorientale. Anche i media giordani non hanno faticato a trovare immagini di Papa Francesco in grado di parlare ai loro lettori senza bisogno di filtri particolari. Le istantanee del papa della misericordia, che abbraccia anche i malati deformi, si sono diffuse al punto che gli stessi musulmani auspicavano che questo viaggio potesse offrire un’ulteriore possibilità di ripartenza: «Abbiamo sofferto moltissimo per le primavere arabe - osserva “doctor” Ali, proprietario dell’albergo Le Vendome, nel cuore di Amman. Non hanno colpito casa nostra, ma i nostri vicini, hanno sconvolto ogni equilibrio esistente e ora auspichiamo che papa Francesco possa aiutarci a ritrovare l’ordine, a lavare i nostri cuori. Qui si deve ripartire. Qui c’è bisogno di ricostruire una pace autentica e feconda». Nella sua omelia allo stadio Francesco si è soffermato sull’urgenza della pace che «non si può comperare» perché è «un dono da ricercare pazientemente e costruire “artigianalmente” mediante piccoli e grandi gesti che coinvolgono la nostra vita quotidiana». In quell’artigianalmente sembra contenuta tutta la sfida che attende da subito queste terre e questi popoli, una sfida che chiede un lavoro personalissimo, unico, creativo originale, ma simultaneamente un lavoro di squadra. Di comunione. [Twitter: @marialauraconte]