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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:14

Solo per un vizio intellettualistico si può ritenere che la verità, e in particolare la verità che riguarda l'umano, sia senza un rapporto con la vita, e che la sua comprensione si esaurisca in una dimensione astrattamente razionale. Da sempre lo sforzo di conoscere la verità è stato indicato in termini di ricerca e di fatica, di cammino, e perfino di sofferenza: sono parole, queste, che rimandano ben al di là di qualche trouvaille mentale o di qualche tribunale della deduzione. Il rapporto con la verità riguarda tutta una vita, coinvolge. E non coinvolge soltanto il singolo teso nello sforzo della ricerca della verità, ma tutti gli uomini. Non stiamo infatti parlando di un'opinione, che si può lasciar vivere con una relativa indifferenza accanto ad altre opinioni. Si sta parlando, piuttosto, della verità; e non solo di una verità ridotta al suo scheletro logico, vale a dire alla sua tenuta di coerenza formale, ma di una verità che si fa vita - cosa che la verità, se è verità, non può non fare. Riguardandomi, sembra a prima vista che la verità sia portata verso di me, perché con la testimonianza «l'assoluto si afferma qui ed ora. Nella testimonianza vi è una immediatezza dell'assoluto senza la quale non vi sarebbe nulla da interpretare» (P. Ricoeur);(1) o, ancora, «nella sincerità della testimonianza l'esteriorità dell'Infinito diviene in qualche modo "interiorità"» (E. Lévinas): (2) tutta l'esistenza dell'umano, infatti, pone il problema della sua verità - ma questa immediatezza e questa interio¬rità della verità sono solo l'apparenza del primo momento. Esprimendo un rapporto primario con la vita, non c'è dubbio che la verità sia portata nel cuore dell'esistenza, proprio lì dove ci sono i nomi e i volti, le comunità di vita. Tuttavia, mentre avviene questo movimento di avvicinamento della verità alla vita personale di ciascuno, inizia anche il movimento contrario: nello stesso istante in cui sembra che la verità sia portata verso di me, io sono infatti trascinato con forza fuori di me, verso la verità. Il movimento per cui la verità si avvicina a me corrisponde in realtà al movimento contrario e simultaneo per cui io mi allontano da me stesso e mi avvicino alla verità, e questo comporta conseguenze decisive circa il modo della sua comunicazione. Se il movimento si fermasse solo al venire a me della verità, senza il mio andare di ritorno verso di essa, allora si potrebbe pensare che la verità sia a disposizione, come fosse un possesso, di chi la comprende o di chi ne riceve una rivelazione. Ma così non è perché la verità abita dentro ciascuno al modo di una profondità abissale che distoglie dall'idea del possesso, e che sfonda la sua presenza suscitando ogni volta la memoria della trascendenza: memoria insondabile della verità stessa che nessuno si è dato da solo. La verità rimane senza rimanere, trascende senza trascendere del tutto. E questo doppio movimento del rapporto personale con la verità è anche ciò che unisce ad ogni uomo. Il rapporto con la verità è un rapporto testimoniale. Se con la verità vi fosse un rapporto di possesso, allora la verità sarebbe comunicata per via di esibizione ostentata, o addirittura di imposizione, indipendentemente dal modo con cui si può pensare a tutto questo. Se, ancora, il rapporto con la verità si affidasse in esclusiva al gioco delle dimo¬strazioni razionali, allora la sua comunicazione assomiglierebbe molto ad una palestra di combattimento di gare verbali. Ma la verità suscita il senso sacrale di un'ulteriorità rispetto a ciascuno nello stesso istante in cui sembra di esservi giunti così vicino. La comunicazione della verità segue dunque il modo della testimonianza, che restituisce presenza alla trascendenza, trascendenza alla presenza. La testimonianza non intrattiene tuttavia un rapporto marginale con la verità, come se si trattasse di un qualche surplus comunicativo da aggiungersi ad altre strategie, magari più efficaci. Il ruolo della testimonianza nella comunicazione della verità è insostituibile, perché solo la verità suscita testimonianza: cosa confermata, in modo paradossale, dalle discussioni e dalle incomprensioni circa il suo effettivo valore e la sua attendibilità, soprattutto quando la testimonianza viene esaurita nell'ottica della "macchina della verità" e dei relativi accertamenti. Il pensiero che solo la verità suscita testimonianza rovescia la situazione, dal momento che è difficile continuare a considerarla come una figlia, per di più illegittima, della conoscenza; esso porta inoltre la testimonianza al primo posto nella comunicazione della verità, quel posto che è un dire e un essere contemporaneamente; e forse la testimonianza rende perfino irrilevante la distinzione troppo rigida tra la parola e la vita. In ogni caso, solo la verità suscita testimonianza. Essere Coinvolti La verità mi riguarda. Si rende presente nella testimonianza senza rimanere sepolta nei successi e negli insuccessi alternati del quotidiano; è trascendente senza evaporare del tutto nella fumosità irriconoscibile di sideree altezze mentali. Sembra quasi che per la verità si possano usare le stesse parole dell'interumano: parole di una vicinanza e di un distanza che sono entrambe già lì, insieme, prima di poter essere scelte; e dunque parole di un incondizionato pratico, di qualcosa, cioè, che non dipende del tutto da se stessi. La verità assume così la figura di un'alterità che mi riguarda molto da vicino senza identificarsi con me, e da cui sono quasi strappato a me stesso tanto diventa doveroso renderne testimonianza. Il rapporto della testimonianza con l'alterità, dove ne va sia della sua struttura sia dei suoi equivoci, è sempre duplice: all'alterità della verità che pur riguardandomi mi trascende, si affianca l'alterità dell'altra persona a cui si testimonia la trascendenza così vicina di questa verità. Poiché il rapporto con la verità rovescia l'afferrare in un essere coinvolti, il nostro domandare in un essere interpellati, nessuna testimonianza è mai rivolta a se stessi: testimoniare non significa dire "io", bensì "Eccomi!". (3) Nell'"Eccomi" della testimonianza succede infatti qualcosa di impensabile nell'orizzonte della natura che inconsapevolmente «fornisce testimonianza di sé» in quanto "unitaria" ossia coerente (4), e che pure, in qualche modo, di suo è «già testimonianza (rivelazione) di una creazione» (5) per cui «ogni filo d'erba, ogni scarabeo, tutti gli esseri» diventano una «testimonianza del mistero divino».(6) La testimonianza interrompe la fedeltà a se stessi inaugurando una responsabilità per la verità e per gli altri. Non è quindi solo faccenda di coerenza o di qualità personali, che attirano l'attenzione su di sé, ma è una faccenda, piuttosto, di uno sfondamento, di un'apertura: della novità stessa della responsabilità. "Testimoniare sé" allontana sia dalla verità sia dalla testimonianza a favore dell'ideologia e della propaganda, nel caso più nobile; in quello meno nobile si è di fronte ad un semplice paravento all'affermazione di sé ed è una delle patologie del testimoniare. La testimonianza non è un'affermazione di sé sul lato della verità testimoniata, che mi coinvolge in prima persona solo perché mi sorpassa infinitamente: attraverso la voce del testimone, infatti, «nella testimonianza si glorifica la gloria stessa dell'Infinito» (7); né può esserlo sul lato dell'altro a cui si rende testimonianza. La testimonianza della verità, difatti, restituisce all'altro il suo trascendere rispetto a me tanto come destinatario del testimoniare quanto in virtù del suo rapporto personale con la verità: anche con l'altra persona, come avviene per la verità, non c'è immedesimazione. Senza la sporgenza dell'altro rispetto a me, senza questa libertà che è il suo stesso segreto, diventa inutile la testimonianza come modo di comunicazione della verità. La testimonianza, in quanto testimonianza della verità, non è mai un'affermazione di se stessi. L'affermazione di sé contraddice anzi intimamente la testimonianza della verità, perché si traduce nel proprio contrario. Nel confondere la testimonianza con un'affermazione di sé si genera una doppia e parallela negazione della trascendenza e della presenza, che riguardano contemporaneamente tanto la verità quanto l'altro a cui si testimonia. In questa confusione il sé soffoca sia la verità, sia l'altra persona a cui si deve rendere testimonianza, vanificandola. L'affermazione di sé annulla la testimonianza non perché la testimonianza non contenga fin dall'inizio una potenza di affermazione, anzi, ma perché questa affermazione non riguarda né se stessi di fronte alla verità, dal momento che il bisogno, e il dovere, di testimoniare escludono proprio la coincidenza, né tanto meno se stessi dinnanzi all'altro: la testimonianza si comprende di più come una sorta di "attestazione perpetuata". (8) Affermare e Negare Testimoniare è affermare. L'affermazione contenuta nella testimonianza non si traduce quindi nei modi della negazione, se non per una sorta di intima degradazione: né in quelli di una negazione della trascendenza della verità che pure si sta annunciando e rendendo presente con la testimonianza, né in quelli di una negazione del trascendere dell'altro nel suo rapporto con la verità. D'altra parte, non è un segno di testimonianza neppure la negazione intenzionale di se stessi, come se il fatto che la testimonianza non sia un'affermazione di sé suggerisca, o autorizzi, una volontà di autodistruzione. La testimonianza afferma una trascendenza della verità che non domanda il sacrificio masochistico di sé, perché vive nella sua presenza qui ed ora, ossia nel rapporto personale di testimonianza della verità. La negazione di sé non è altro se non il volto rovesciato e annichilente dell'affermazione di sé, e non è per nulla solidale con l'affermazione della verità. L'affermazione e la negazione di sé contengono entrambe una carica distruttiva rivolta a sé, agli altri, alla verità, in un'escalation che trasforma la testimonianza dapprima in una ostentazione, se non addirittura in una pia arroganza, e quindi in incubo e terrore per sé e per gli altri - i cui primi segnali, però, vanno cercati proprio in quei pensieri e in quelle prassi di affermazione di sé che si rovesciano inevitabilmente in negazione. La testimonianza si muove senz'altro nell'ordine dell'affermazione, e tutto ciò che si profila come strategia intrecciata di negazione - del trascendere della verità, del trascendere dell'altro, del testimone stesso - muta la testimonianza in qualcosa d'altro. La testimonianza della verità afferma in modo esistenziale e dialogico: esprime e restituisce fiducia e speranza tramite la rassicurazione che nel profondo di ciascuno vi è molto di più di se stessi. La testimonianza della verità non è mai a se stessi: si testimonia ad altri di altro rispetto a sé, e anche rispetto al mondo comune così come si ritrova configurato. Con una differenza però, perché la testimonianza si posiziona sempre di fronte all'altro; e questo significa che nella testimonianza la responsabilità per la verità e quella per l'altro sono indissociabili. La testimonianza resa all'altro, il prendere sul serio la sua alterità, la sua diversità presente, rende tangibile l'alterità della verità rispetto a sé. Impegnarsi per la verità, in questo senso, non è altra cosa dall'impegno per e con l'altro. La testimonianza non è così solo un modo di comunicazione della verità, perché è essa stessa attraversata da cima a fondo da un'esigenza modale che quasi discrimina il fatto di trovarsi per davvero dinnanzi ad un testimoniare. Di fronte alla doppia trascendenza - e alla doppia presenza - della verità e dell'altro nel suo rapporto con la verità, la testimonianza si impegna nell'esistenza di fronte ad altri e tra gli altri: non al modo di un proselitismo, né in quello di un convincimento indotto, ma nella delicatezza decisa con cui si testimonia all'altra persona della qualità vitale e impegnativa del rapporto con la verità, che è di una ricchezza insospettata. Nella negazione dell'altro in quanto altro vi è una smentita radicale tanto della testimonianza quanto della verità. Testimoniare, infatti, è per la vita. Il rapporto con la verità impone il pensiero del modo della sua testimonianza: modo dialogico della comunicazione che non significa né incertezza, né timore, né astuzia. Per il suo carattere modale, la testimonianza per la verità e quella per l'altra persona marciano in parallelo: collegate strettamente dal loro stesso interno, insieme si rendono anche credibili. Veridicità, Trasparenza Nei discorsi sulla testimonianza ci si imbatte nella questione della veridicità del testimone, della sua trasparenza, del suo farsi pura eco: questione difficile da risolvere, che impegna in un compito interpretativo inesausto e che rischia anche qualche ingenuità se si va alla ricerca di una purezza della trasparenza, perché il filtro del testimone così com'è con le sue abilità ma anche con le sue incapacità, con la sua coerenza e con le sue incoerenze, è inaggirabile, a meno che non si voglia far dipendere la testimonianza dalla costruzione della trasparenza e della purezza del testimone. Se mai una cosa del genere fosse possibile, sarebbe comunque una tragedia della verità: le si sottrae la sua capacità d'urto, la sua intrinseca bellezza - la verità stessa della verità -, manifestando al fondo una profonda sfiducia nei suoi confronti. Cercare una simile purezza è contraddittorio, fuorviante, perfino pericoloso: sposta di nuovo l'accento in modo unilaterale dalla verità al testimone; si apre alla tentazione di un pensiero dell'efficacia che non sia quello della verità stessa; e sembra infine abilitare a fornire patenti della testimonianza, come se essa fosse riservata soltanto a qualcuno e non potesse invece riguardare tutti. La testimonianza della verità non rende trasparente il testimone, ma il legame inscindibile tra la responsabilità per la verità e la responsabilità per l'altra persona, che si accreditano (e di nuovo si smentiscono) a vicenda. Oltre ad esprimere la responsabilità personale per la verità in una decisione insostituibile che la fa essere qui ed ora, la testimonianza attesta che essa è fin da subito una responsabilità per l'altro che, nella sua stessa alterità, la suscita: non può esserci nessuna responsabilità per la verità senza responsabilità per l'altro. Testimoniare la verità è sempre un testimoniare all'altro, solo che l'altro a cui si testimonia non è lo spettatore o il bersaglio della testimonianza. La testimonianza "all"'altro è anche testimonianza "per" l'altro, la responsabilità per la verità si fa subito responsabilità per l'altro. La responsabilità per la verità si rende così visibile e credibile nella responsabilità per l'altro. Nella testimonianza della verità vive allora una responsabilità molteplice: per la verità, per l'altro, per l'umano che è comune (l'universale) così sotteso fin dall'inizio nel rapporto testimoniale. Nella testimonianza della verità viene infine a parola una responsabilità per l'altro e per ciò che è comune, a cui però soltanto la presenza dell'altro richiama. La sfida della testimonianza è un impegno nella responsabilità per la verità e per l'altro, entrambe non condizionali, non patteggiabili, non relativiste. Modo di una fiducia operativa - di un dialogo - la cui forma è verbale e pratica: costruzione della città comune come luogo dell'accoglienza della verità e dell'altro.


(1) P. Ricœur, L’hérméneutique du témoignage, in La testimonianza, «Archivio di Filosofia», 1-2, 1972, p. 54. (2) E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, p. 187. (3) E. Lévinas, Etica e Infinito, a cura di F. Riva, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2008, p. 102. (4) H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1993, p. 87. (5) F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005, libro II. (7) F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Rusconi, Milano 2003, p. 347. (8) E. Lévinas, Etica e Infinito, op. cit., p. 102. (9) Cfr. G. Marcel, Essai de philosophie concrète, Gallimard, Paris 1999, p. 190.

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