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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:15

Almeno una verità la si porta a casa, dalla visione de Le crociate di Ridley Scott. Compare alla fine, sotto forma di didascalia: «Circa mille anni dopo, la pace resta sfuggente». Sarà banale, ma è così. Il mondo va male. Dalla grande storia alla piccola cronaca, è tutto un'affannarsi per capire che fare, puntellare situazioni allo sbando o prevenire tragedie. Casi umani, storie tristi dall'Africa alla Francia, dall'Italia alla Serbia, dall'America al Belgio, fino a Israele. Quando non è guerra e guerra tra fratelli, come nella ex-Jugoslavia di Kusturica o nel Rwanda, è miseria, violenza, l'impossibile tolleranza tra diversi: i clandestini del film dell'italiano Giordana, gli immigrati nelle banlieu parigine del nordafricano Kechiche, le donne di Gitai, nomadi nella terra di nessuno, dalla Giordania all'Iraq, dalla Siria a Israele. Il cinema di stagione registra il dramma e risponde come può, come sa: poco e male, di questi tempi. Annaspa all'insegna del buonismo, azzarda soluzioni politicamente corrette, sbandiera relativismi a buon mercato.

Non sempre, per fortuna. Accade con la lezione tele-pedagogica di Marco Tullio Giordana, che ritorna a noi dagli anni '50 e '60 e '70 de La meglio gioventù per scoprire che le strade, le fabbriche del nord, persino le case italiane sono piene di immigrati, il 5% della popolazione. E rimane talmente sgomento da sentire il bisogno di assumere uno sguardo più innocente (o presunto tale) del suo. Così, come protagonista di Quando sei nato non puoi più nasconderti, sceglie un dodicenne figlio di un industrialotto lombardo, lo fa cadere dalla barca a vela durante una gita nel Mediterraneo e ripescare da un barcone di clandestini. «Non è un film a tesi sul problema multietnico» si difende Giordana. «Voglio capire le ragioni dei singoli». Ma il mondo salvato dai ragazzini è di là da venire: per adesso c'è una città laboratorio, Brescia, un'integrazione forzata dal mercato e due giovani rumeni lui sfruttatore, lei sfruttata - che nessuno potrà prendersi in casa. Tutt'altra musica nel film La schivata, dove il regista di origine magrebina Abdellatif Kechiche racconta le periferie multirazziali di Parigi. Un francese metterebbe in evidenza il degrado, l'emarginazione, l'odio razziale. La chiave scelta da Kechiche è invece assolutamente originale, così come le strade del quartiere: pulite, ordinate, normali. Di clamoroso c'è solo che il destino della bella Lydia e del timido Krimò è disegnato dalle parole di Marivaux. Le battute de «Il gioco del caso e dell'amore», scritte da un borghese del Settecento, si mescolano al turpiloquio dei ragazzini nordafricani, scandiscono dialoghi che dal palcoscenico finiscono in strada. Urlano, forti e chiare, parole d'amore alle orecchie dei due adolescenti. Alle nostre. Amore e cuore, ma di lusso, anche nel nuovo film di Emir Kusturica, La vita è un miracolo ("Kad je zivot bio cudo"). Una speranza selvaggia, quella del regista serbo, che fa spallucce al politicamente corretto e, dopo essere stato messo al bando dalla buona società per non aver voluto prendere posizione ai tempi della guerra, torna a rileggere, a modo suo, quegli anni. 1992, la costruzione della ferrovia che dovrebbe unire la Bosnia e la Serbia è interrotta dal conflitto. Con il treno della pace, anche la vita privata dell'ingegnere Luka viene travolta dagli eventi: la moglie in fuga verso l'Ungheria, il figlio arruolato e fatto prigioniero, una ragazza bosniaca, la bella Sabaha, che dovrebbe essere sua nemica.

Ma è bionda, ha gli occhi dolci e dice sì... Il film, dal ritmo vorticoso e selvatico, si chiude su una domanda: «è possibile innamorarsi del nemico, che in fondo è anche uguale a te?». Kusturica il ribelle la formula provocatorio, ben sapendo che verrà considerata banale. E invece è vertiginosa. La fa sua un altro cuore semplice, l'irlandese Terry George, regista senza spocchia di Hotel Rwanda. Fosse stato prodotto a Hollywood, il film sarebbe oggi campione di incassi. Così, messo su in fretta tra Gran Bretagna, Italia e Sudafrica, si porta a casa soltanto una pioggia di nomination dai maggiori festival del mondo, Oscar compreso. Come dire, tanti non premi alla buona volontà. 1994: mentre infuria la faida tra hutu e tutsi, il signor Paul Rusesabagina, direttore a Kigali di un hotel belga a quattro stelle, accoglie e salva 1268 persone. Intanto dà gli ordini per il pranzo, tratta con i ribelli, supplica i soldati ONU di rimanere. Solo alla fine si conteranno i morti: 937mila tutsi, massacrati a colpi di machete dagli hutu, con i caschi blu canadesi costretti a guardare senza alzare un dito. Anzi, ridotti, nei giorni clou dell'eccidio, da 2500 a 250. Paul è hutu, la moglie è tutsi, i bambini sono "bastardi" da ammazzare, per l'esercito e per i ribelli. Non è proprio scontata, allora, e nemmeno facile, la battuta con cui il direttore-eroe chiude il film: «C'è sempre posto da noi».

È sicuramente meglio un cantuccio nelle camere sovraffollate dell'hotel Rwanda che tutta intera la Free Zone, lo spazio dell'anima del confuso film di Amos Gitai. A furia di parlare di luoghi spirituali, dove le contraddizioni si ricompongono e il pregiudizio si scioglie, il regista israeliano rischia di dimenticare che dalle sue parti e altrove esistono posti veri, dove il dramma è di sangue e di carne e i soggetti non proprio letterari. Sognanti, le tre donne del film, l'americana, l'ebrea (Hanna Laslo, migliore attrice a Cannes) e la palestinese viaggiano attraverso le zone calde del globo alla ricerca di una identità. Se la trovino o meno, non si sa. Educazione sentimentale politicamente corretta, assolutamente noiosa. Meglio allora Le crociate ("Kingdom of Heaven") di Ridley Scott, anche se non è esattamente un film nato per promuovere l'amicizia fra i popoli. Il problema non è tanto che lo schema ideologico fatto proprio dal regista vuole i cristiani tutti brutti e cattivi e i musulmani forti e saggi. Si può capire che un regista americano, di questi tempi, voglia mettersi dalla parte del sicuro, soprattutto se il film costa la bella cifra di 150 milioni di dollari, promozione esclusa. Il problema è un altro e va al cuore del pensiero debole di Scott. La storia si svolge intorno al 1184: un periodo magico della vita di Gerusalemme.

Tra la seconda e la terza crociata, una fragile pace è garantita dal cristiano Baldovino, re saggio nonché lebbroso e dal suo accordo col carismatico Saladino, Sultano d'Egitto e di Siria. Scott non si chiede dove nasce la pace, lo sa già. è facile: se la guerra viene dalla religione, la pace sarà virtù agnostica per eccellenza. Così si prende un eroe, Baliano, che ha perduto la fede, lo conferma nelle sue (in)certezze mostrandogli la corruzione dei Templari, lo spinge ad applicare un giudizio a dir poco relativista a Gerusalemme. Fa un certo effetto sentire l'eroe che dice, nell'anno Mille (o anche oggi, se è per questo): «Non siamo qui a difendere i sassi, templi, moschee o nemmeno il Santo Sepolcro: nessuno di questi vale la guerra». E ci si sente ancora più strani a sentir dire che «alla base di ogni religione c'è sempre e solo la decisione se si deve, o meno, essere brave persone. Tutto il resto non conta». Niente di nuovo, per carità, è il solito vecchio brodo americano, il mito del self made man allungato all'europea, tanto per vendere il film anche in Francia. A Scott, che è simpatico, bravo e che a suo tempo fece il glorioso Blade Runner, facciamo una proposta per l'annunciato sequel de Le crociate. Aboliamo per decreto la storia, la cultura, le religioni, le identità. Facciamo "il mondo nuovo" (è anche il titolo del film che Terrence Malick sta preparando, dedicato a Pocahontas, eroina del sincretismo). L'eroe puro e duro prenderà in moglie una come la principessa Sybilla, occidentale ma acconciata all'orientale, henné e velo, tanto per confondere le idee. Togliamo il dramma e vediamo l'effetto che fa: e se il cinema, come la vita, diventasse un deserto?

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