Nella visione islamica dell’economia convivono due principi: il diritto individuale alla ricchezza e la solidarietà sociale. Per i pensatori musulmani la sfida è dunque trovare un’alternativa sia al modello liberale che a quello socialista, considerati entrambi incompatibili con la religione

Ultimo aggiornamento: 21/12/2022 12:10:07

Questo articolo è il quinto della serie sull’etica islamica a cura di Ignazio De Francesco. Qui la precedente puntata. 

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Dīnār d’oro da 4,25 grammi; Dirham d’argento da due grammi; Fulūs di rame da dieci grammi. Il rovescio è ornato da disegni di spighe, mezzaluna, palme, planetario, scudo con lancia, minareto di Damasco e moschea al-Aqsā. Sul dritto compaiono due diciture lungo il bordo: “Stato islamico” e “Ideazione secondo il programma della profezia”. La notizia della nuova valuta compare su Dabiq (n. 5/2014, p. 19), periodico in lingua inglese dell’ISIS, dove le immagini delle tre monete sono corredate dal seguente testo:

 

Nel tentativo di sganciare la Ummah da un sistema finanziario globale corrotto e sugli interessi, lo Stato Islamico ha recentemente annunciato il conio di nuova valuta in base ai valori intrinseci di oro, argento e rame. Questa iniziativa è un passo significativo verso la presa di distanza della Ummah dall’impiego di valute che non sono non più supportate da metalli preziosi, e i cui valori sono costantemente manipolati dalle banche centrali delle rispettive nazioni.

 

A prescindere da ogni considerazione di contesto, l’operazione mediatica può essere letta come annuncio del ritorno a un’economia fondata su valori reali, un’economia di valore, alternativa a quella della speculazione finanziaria senz’anima, dominante nell’era della globalizzazione. Questo spunto consente di sottolineare come la ricerca di una “risposta islamica” ai nodi insoluti dell’economia sia una delle frontiere più interessanti del confronto tra etica islamica e sfide della post-modernità. Se ne ha un esempio limpido nell’utilizzo del termine tawhīd (unificazione) da parte dell’economista bangladese Masudul Alam Choudury: la parola-chiave del dogma monoteista viene assunta come principio unificatore dell’intera esperienza umana. Dal tawhīd si parte per costruire un’alternativa alla deriva etica occidentale, che esalta l’individualismo competitivo a spese del benessere di tutti:

 

Il Corano proibisce fermamente l’usura, sulla base della sua natura disumana finalizzata al profitto individuale, a spese della giustizia sociale, dell’equa distribuzione delle ricchezze e dell’altrui benessere[1].

 

Equilibrio non facile da trovare: da una parte si tratta di fare spazio a hubb al-tamalluk, il desiderio di possedere che, come gli altri istinti (sessualità, appetito dei cibi, cura del corpo ecc.), è creato da Dio in ogni persona. Esso è dunque pienamente legittimo e deve potersi esprimere in tutti i campi della vita: l’obbligo di versare alla sposa la dote nuziale (e di lasciarla nella sua esclusiva disponibilità) è ad esempio una delle tante applicazioni del principio. La libera iniziativa in campo economico può essere così presentata da Ali Alsan Gümüsay come un tratto distintivo dell’Islam, addirittura un elemento identitario della religione della Mezzaluna:

 

L’islam stesso può essere considerato una “religione imprenditoriale”, nel senso che abilita e incoraggia l’attività imprenditoriale, cioè la ricerca di opportunità, l’assunzione del rischio, l’inventiva[2].

 

In questa direzione possono essere citati, tra molti altri autori, ‘Abd al-Halīm al-Jindī, che sottolinea la perizia commerciale dei primi musulmani, businessmen per nulla ostacolati dall’attesa fervente della vita futura[3]; Ahmad ‘Uqaylī e Muhammad Hamūdi, che documentano il ruolo svolto dai commercianti musulmani, accanto a combattenti e predicatori, nella diffusione dell’islam in Africa e Asia[4].

 

Dall’altra parte, questo “orientamento al mercato” non deve oscurare la signoria di Dio, facendo dimenticare che uomo e donna, al pari dei jinn, sono stati creati per il suo esclusivo servizio (Cor 51,56). Similmente a quanto espresso dal detto evangelico sull’inconciliabile conflitto tra Dio e Mammona (Lc 16,13), anche nell’islam l’avidità è una forma di “idolatria pratica”: in un hadīth (narrazione attribuita a Muhammad) particolarmente impressionante, l’avaro si presente al Giudizio di Dio con gli adorati beni avvinghiati al collo, come serpenti velenosi (Nasā’ī, Sunan 2441). Mālik b. Dīnār, famoso asceta nella Basra del II/VIII secolo, ha lasciato un insegnamento pungente sui rischi del sūq: «Il mercato è il luogo dove si moltiplica il denaro e dove sparisce la religione»[5]. L’inserimento dell’elemosina rituale (zakāt) tra i cinque pilastri del culto – e subito dopo la preghiera – è altamente indicativo: l’atto di spendere in beneficenza è al tempo stesso un modo di purificare il proprio patrimonio e la realizzazione concreta degli ideali di compassione, giustizia sociale e solidarietà comunitaria veicolati dalle pagine del Libro (Cor 2,272; 3,180; 9,104-105).

 

Sulla base di queste premesse, si tratta dunque di trovare un punto d’equilibrio tra diritto individuale alla ricchezza e solidarietà sociale, all’ombra del rendiconto ultramondano. Per i pensatori musulmani la sfida è quella di individuare una terza via tra modello liberista e socialista, poiché entrambi minacciano la religione. Lo spiega Yūsuf Kamāl (m. 2004), esponente di spicco dei Fratelli Musulmani, in L’islam e le dottrine economiche contemporanee, un’opera che ha fatto scuola:

 

la dottrina occidentale fonda la propria filosofia sul principio della libertà, rappresentando il mondo come una macchina messa in moto da Dio, che lo lascia girare senza più intervenire. Da qui viene il sistema fondato sulla deificazione dell’uomo sulla terra, ed è su questo principio che si è sviluppato il sistema della libera concorrenza.

 

Sfruttamento, usura, rapina delle risorse, guerre: gli effetti perversi di una simile impostazione, scrive l’autore, sono sotto gli occhi di tutti e hanno condotto per reazione a un errore opposto, non meno nocivo:

 

l’orientamento economico islamico ha il suo fondamento nel principio di libertà, che è libertà dell’individuo di esercitare la propria attività per il proprio sviluppo. Qualsiasi compressione di questo principio è un allontanamento dallo spirito dell’islam[6].

 

Partendo da una critica dei disastri prodotti da entrambi gli orientamenti, l’ambizione è quella di porsi all’avanguardia di soluzioni per uno sviluppo sostenibile[7]. Insieme alla zakāt la rivelazione coranica indica un altro strumento per un’economia dal volto umano: la proibizione di ribā’, il prestito usuraio (Cor 2,275-279), spinge infatti a rimodellare l’attività bancaria, al fine di ridurre la forbice tra mercato dei capitali ed economia reale. Le banche devono mettersi davvero al servizio della comunità, sostenendo l’imprenditoria (inclusa quella più marginale) e allargando la base sociale di accesso alla proprietà, piuttosto che prosperare alle spalle dei debitori. Nel corso degli ultimi decenni sono stati così lanciati prodotti finanziari variamente denominati ma ispirati da un’idea comune: chi fornisce denaro partecipa al progetto di chi lo riceve, rischi compresi. Il successo di questa alternativa alla logica speculativa “classica” è stato travolgente, con un giro d’affari che va verso i tremila miliardi di dollari. Non mancano però voci critiche, che dubitano della reale “islamicità” di questi prodotti, come messo in luce ancora da Masudul Alam Choudury:

 

L'intero pacchetto degli strumenti di debito, diventato asse portate della finanza islamica, contraddice la natura propria del principio sciaraitico […]. In questo modo, il principio sciaraitico secondo cui il debito va evitato, e perciò l’effetto usuraio, è stato ignorato nella finanza islamica[8].

 

Va poi aggiunta la riflessione sul carattere assoluto della proibizione del prestito a interesse: oltre alla distinzione tra usura vera e propria, che esige la restituzione del doppio di quanto dato, e un interesse bancario ammissibile, c’è la spinta a farsi carico di situazioni particolari, che legittimerebbero gli strumenti d’indebitamento. Uno dei temi più dibattuti è la moralità del mutuo per l’acquisto della casa: la banca islamica “aggira” il divieto acquistando l’appartamento scelto dal suo cliente e rivendendoglielo a rate, con una maggiorazione che include il proprio margine di profitto. Ma cosa fare con i musulmani che vivono fuori da Dār al-islām? In un’opera dedicata specificatamente al fiqh dei migranti, l’imam satellitare Yūsuf al-Qaradāwī ha annunciato un totale cambio di rotta rispetto alla posizione intransigente, partendo dalla necessità di mettersi in ascolto delle persone: esse dicono che in Occidente non si affitta volentieri ai nuclei numerosi, che comprar casa dà stabilità all’intera famiglia e che aumenta la libertà di scelta, da sfruttare per avvicinarsi alla sala di preghiera. Il principio morale/legale da far valere è che «la necessità consente ciò che sarebbe proibito» (al-darūra tubīh al-mahzūra): dal momento che al musulmano non è richiesto di applicare le norme sciaraitiche in un paese dove non vige l’islam, in mancanza di alternative può indebitarsi per acquistare una degna casa per la sua famiglia. A chi sostiene che aperture del genere sono il «colpo di grazia a tutto ciò che Dio proibisce», al-Qaradāwī ribatte con l’appello a confrontarsi con i cambiamenti della realtà:

 

Il cervello del sapiente musulmano non è un pezzo di acciaio o di roccia, la sua mente continua a muoversi, cerca, confronta, soppesa, nella conoscenza non si ferma a un limite fisso, non giunge a dire: «Sono arrivato alla mèta, niente da aggiungere». Il musulmano cerca la conoscenza dalla culla alla tomba, e il sapiente continua ad essere studente, perché la supposizione di sapere è ignoranza[9].

Come scrivono Jan Shafiullah e Mehmet Asutay in uno dei più recenti saggi di bilancio degli sviluppi in corso, è evidente che anche in campo economico la proposta islamica della “terza via” è attesa alla prova dei fatti:

 

I paesi in via di sviluppo e l’umma musulmana in particolare stanno soffrendo di problemi economici come disoccupazione, inflazione, distribuzione ineguale della ricchezza … che presentano all’IME [Islamic Moral Economy] serie sfide. Se l’IME può offrire soluzioni a questi problemi, sarà accettato dal mondo come sistema alternativo[10].

 

Sul filo sottile della fedeltà alle Fonti e della capacità di reinterpretarle in modo creativo, per rispondere ai problemi concreti delle persone, nei più diversi contesti di vita, si gioca molto della credibilità dei Sapienti musulmani, così come della possibilità di fare sentire la loro voce fuori dai confini della Umma.

 

 

Questo articolo è il quinto della serie sull’etica islamica a cura di Ignazio De Francesco. Qui l'ultima puntata. 

 

 

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[1] Masudul Alam Choudury, The Universal Paradigme and the Islamic World-System: Economy, Society, Ethics and Science, World Scientific Publishing, Hackensack (N.J.) 2007, p. 61.

[2] Cf. Ali A. Gümüsay, Entrepreneurship from an Islamic Perspective, in «Journal of Business Ethics» n. 130 (2015) p. 203.

[3] ‘Abd al-Halīm al-Jindī, al-Aḫlāq fī al-iqtiṣād al-islāmī (le virtù nell’economia islamica), Dār al-Ma‘ārif, Cairo 2004, pp. 52-54.

[4] Ahmad ‘Uqaylī, Ummat al-tijāra, Dawr al-tujjār fī nashr al-da‘wa al-islāmiyya fī Ifrīqiyyā (la Nazione del commercio: il ruolo dei mercanti nell’attività missionaria islamica in Africa), al-Mu’tamin li-l-nashr, Riyad 1998; Muhammad Hammūdī-Muhammad Ghunaymat, Dawr al-tijāra wa-al-tujjār fī nashr al-islām fī janūb sharq āsyā (Il ruolo dei mercanti nella diffusione dell’islam nel sud-est asiatico), Dār al-Khalīj, Sharja 2017.

[5] Cfr. Ignazio De Francesco, La ricerca del Dio interiore nei detti dei precursori del sufismo islamico, Ed. Paoline, Milano 2008, p. 134.

[6] Yūsuf Kamāl, Al-Islam wa-l-madhāhib al-iqtisādiyya al-mu‘āsira (L’Islam e le scuole economiche contemporanee), Dar al-Wafā’, Cairo 1998, p. 6.

[7] Per una visione d’insieme Asad Zaman, Islamic Economics: A Survey of the Literature, «Islamic Studies» vol. 48, n. 3 (2009) pp. 395-424; in italiano Ersilia Francesca, Denaro e valori: la business ethics dal punto di vista islamico, «Divus Thomas» vol. 119, n. 2 (2016) pp. 137-170.

[8] Masudul Alam Choudhury, The Nature of Business Social Ethics in Mainstream and Islamic Worldview, In A.J. Ali (a cura di), Handbook of Research on Islamic Business Ethics, Edward Elgar Pub., Cheltenham 2015, p. 96. Cfr. anche Madiha Khan, Islamic Banking Practices: Islamic Law and Prohibition of Ribā, in Islamic Studies vol. 50, n. 3/4 (2011) pp. 413-422.

[9] Yūsuf al-Qaradāwī, Fī fiqh al-aqalliyyāt al-muslima, Dār al-shurūq, Cairo 2001, p. 155.

[10] Shafiullah Jan-Mehmet Asutay,  A Model for Islamic Development: An Approach in Islamic Moral Economy, Edward Elgar Publishing, 2019, p. 95.