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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:43

Fede e cultura: il binomio, formulato con varietà di espressioni e accenti, rappresenta una costante della riflessione cristiana. Ma se a questi due termini, e soprattutto all’esame della loro reciproca relazione, abbiamo scelto di dedicare il nuovo numero di Oasis, quasi a sintetizzare questo primo quinquennio d’attività, c’è una ragione particolare: la nostra ipotesi di lavoro, quale si è venuta chiarendo in questi anni, poggia sulla convinzione che un corretto rapporto, sempre circolare, tra fede cristiana e cultura implica necessariamente il rapporto tra fede cristiana e religioni. Una Necessaria Precisazione Prima di sviluppare questa affermazione, ci preme tuttavia puntualizzare ancora una volta il contesto nel quale essa si colloca. È evidente infatti che la nostra riflessione, se non vuole essere astratta, dovrà situarsi all’interno dell’odierno processo d’incontro di popoli, che abbiamo più volte evocato attraverso la categoria di “meticciato di civiltà”. La qualifica “di civiltà” con cui connotiamo l’espressione “meticciato” spesso non è vista in tutta la sua portata delimitativa, forse perché l’espressione “meticciato” produce, in prima battuta, un certo contraccolpo. Per noi tuttavia il meticciato di civiltà – insisto in questa precisazione – non è un programma politico: il suo carattere congiunturale esclude infatti che lo si possa erigere a meta da perseguire lungo il divenire storico. Al tempo stesso, esso è qualcosa di più della semplice descrizione di un processo (come potrebbe essere l’enunciazione di una legge fisica o la distaccata osservazione di un fenomeno biologico), poiché si propone alle nostre libertà come un orizzonte interpretativo generale, dal carattere sintetico e globale. Varie sono le categorie particolari (identità, alterità, differenza, relazione, interculturalità, integrazione, sicurezza, per citarne solo qualcuna) giustamente richiamate nel dibattito pubblico al fine di rendere il processo in atto occasione di un più ampio riconoscimento tra gli attori in campo. Parlare di meticciato tuttavia ha il vantaggio di costringere a considerare in uno sguardo unitario la portata di quanto sta avvenendo e le sue potenzialità: se crediamo in un Dio che guida la storia, non possiamo infatti pensare che la crescente interconnessione tra i popoli sia frutto del puro caso. Meticciato tuttavia dice anche dei rischi impliciti, della violenza che ne può scaturire: come ogni fenomeno umano infatti, anch’esso non può essere determinato a priori ad un esito positivo, ma solo orientato nel suo svolgimento. Giocando sull’etimologia delle parole, solo il tempo (e l’impegno delle nostre libertà, a livello personale e comunitario) deciderà se nell’in-contro tra i popoli prevarrà l’aspetto dell’in- o quello del contro. Fede, Cultura Nel frattempo, e per far pendere la bilancia dal lato di una vita buona, un considerevole contributo potrà essere fornito proprio da un’adeguata articolazione del rapporto tra fede e cultura. In effetti, nell’odierno contesto delle società plurali si assiste generalmente a una riduzione della fede a puro belief, un insieme di convinzioni assunte magari con decisione, ma condannate a restare nell’ambito dell’esperienza soggettiva, perché prive di ragioni oggettivamente documentabili. È evidente che dall’interno di questa prospettiva lo spazio per il dialogo tra le religioni si riduce drasticamente: esso non potrà che tradursi nell’enunciazione di alcune comuni aspirazioni, prive però delle vie e degli strumenti per attuarsi. Ma anche la cultura non esce bene da una tale situazione: essa si dissolve di fatto nella molteplicità “turistica” delle culture, tra loro incommensurabili (e dunque incomunicabili); le certezze, le “cose serie”, sarebbero fornite unicamente dalle tecnoscienze: «noi tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita dall'interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto» [Caritas in Veritate, n° 70]. Gli articolati livelli della conoscenza sarebbero assorbiti in quello proprio della conoscenza scientifica-sperimentale. Come talora si ripete provocatoriamente, la (tecno-) scienza unisce e le religioni (e le culture) dividono. La conclusione appare obbligata, accettate le premesse. Ma siamo davvero costretti a farlo? Non era di questo avviso Giovanni Paolo II quando, nell’indimenticabile discorso all’UNESCO del 2 giugno 1980, affermò: «Genus humanum arte et ratione vivit [cfr. S. Thomae In Aristotelis Post. Analyt., 1]. [...] La cultura è un modo specifico dell’“esistere” e dell’“essere” dell’uomo» (n° 6). E poco oltre: «La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, “è” di più, accede di più all’“essere”» (n° 7). Nella visione di Giovanni Paolo II la cultura, ben oltre la dimensione puramente strumentale dell’avere, permette all’uomo di indagare su di sé, sul proprio essere (n° 7). E poiché questo humanum che la cultura è chiamata a incrementare è comune a tutti i soggetti, ma non è mai compiutamente posseduto da alcuno di essi, la pluralità delle culture è inevitabile e tuttavia, in forza della comune radice antropologica, non può prescindere dalla cultura. Di conseguenza, la comunicazione tra le culture risulta non solo possibile, ma si rivela necessaria nel cammino verso l’incremento dell’humanum. D’altro canto, come osservava l’allora Cardinal Ratzinger in una formula particolarmente illuminante, «non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura»[1]. La fede, offrendo all’uomo un’ipotesi interpretativa del reale, produce cultura; ma, d’altra parte, la/e cultura/e, esercitandosi, interpreta(no) le fedi stesse. Nel tempo storico, una tale dinamica è insuperabile. Non ha senso pertanto contrapporre un momento iniziale di assoluta chiarezza (nel nostro caso una fantomatica “pura fede”, da situare di preferenza in una mitizzata realtà delle origini) a un tempo delle interpretazioni, dalla nebulosità crescente (“la cultura”, “la religione” in senso barthiano), ma occorre piuttosto pensare a un continuo scambio tra questi due poli. La cultura è sempre da purificare alla luce della fede, ma la fede è sempre da interpretare secondo le istanze suscitate dalla cultura. Come afferma Fides et Ratio al n° 71, «il modo in cui i cristiani vivono la fede è anch’esso permeato dalla cultura dell’ambiente circostante e contribuisce, a sua volta, a modellarne progressivamente le caratteristiche»[2]. Visto dal lato della fede cristiana, ciò significa che ogni cultura valorizza alcuni aspetti dell’autorivelazione divina, ma ne omette o sminuisce altri. Peraltro il realismo cristiano afferma che il bilancio tra quanto è perduto e quanto è mantenuto dell’evento iniziale non è in semplice pareggio o peggio in secca perdita, come un’eco di una voce lontana che si ripercuotesse sempre più fioca: nel trascorrere del tempo cresce infatti l’intelligenza delle verità rivelate [3]. È in quella più completa concezione e della cultura e della fede evocata nelle parole di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che riteniamo si fondi, senza alcuna concessione al relativismo, l’affermazione di una inevitabile interpretazione culturale della fede, così come, per converso, si deve parlare di una inevitabile critica della fede sulla cultura. Con un ultimo passaggio, particolarmente rilevante per Oasis, aggiungiamo che tale dinamica ci appare obbligata anche per le altre religioni. Comunque esse concepiscano il loro rapporto con il Divino, esso risulta sempre culturalmente mediato. Non potrebbe non essere così se è vero che la cultura è «il modo proprio dell’esistenza umana» e che proprio nell’esistenza umana si radica la religione. L’inevitabile interpretazione culturale riguarda dunque ogni espressione religiosa, senza naturalmente inferire indebitamente da questo una presunta intercambiabilità delle varie fedi. Tradizioni e Tradizione Il circolo cultura-fede rimarrebbe tuttavia senza carne né sangue se non si considerasse il ruolo delle tradizioni. Su questo argomento Oasis ha avuto modo di ritornare più volte, da ultimo nello scorso numero 9 e nel ricco Comitato scientifico 2009, molti dei cui interventi sono riportati nella sezione attualità di questo numero. Nulla infatti è più astratto dell’immagine di un individuo che edifichi, ogni volta da capo, la propria interpretazione culturale, nata con lui e con lui destinata a morire. Ben più concretamente, l’interpretazione culturale della fede si attua e si trasmette di generazione in generazione nelle tradizioni, offerte alla libera verifica dei singoli. Contrariamente a quanto una mentalità individualistica indurrebbe a pensare, appartenere a una tradizione non è una limitazione della libertà e inventiva personale ma, al contrario, è la condizione del loro miglior esercizio poiché fornisce un’ipotesi di partenza nella lettura del reale. Le tradizioni, nell’inesausta dialettica tra dare e ricevere che l’etimologia del termine suggerisce, si presentano pertanto come luogo del concreto esercizio dell’inevitabile interpretazione culturale di ogni fede. Proprio per questo esse appaiono sempre bisognose di purificazione e critica, poiché, come afferma Pascal, «per quanta forza abbia tale antichità, la verità deve sempre avere la meglio, quantunque di recente scoperta, giacché essa è sempre più antica di tutte le opinioni che se ne sono avute»[4]. Ma – tale è la sconcertante pretesa cristiana – quella stessa Verità che le tradizioni non sanno esaurire ha scelto di assicurare, attraverso la propria libera e definitiva iniziativa, il permanere della Traditio, luogo in cui la Verità vivente e personale, cioè Gesù Cristo, continuamente si offre nella sua oggettività alla libertà dell’uomo. La Traditio, che come ci ricorda Dei Verbum è strettamente connessa alla Sacra Scrittura e al Magistero (n° 10), è «continuità e progresso, conservazione e sviluppo [...] La garanzia divina della sua fedeltà è lo Spirito Santo»[5]. l’Interpretazione Culturale degli Islam Alla luce di queste considerazioni risulta ora più chiara l’opzione che Oasis ha progressivamente fatto propria a favore delle interpretazioni culturali degli Islam – o, se si preferisce, delle sue diverse tradizioni. Attraverso questa scelta non s’intende operare un’artificiosa separazione sulla pelle dei nostri fratelli musulmani, privilegiando al loro interno i filosofi, i prosatori, gli scienziati, i mistici a detrimento di un nucleo di fede popolare che rimarrebbe estraneo alla nostra ricerca, se non guardato con sospetto. Lo smentisce il dato che della necessità di un’interpretazione culturale della fede si deve parlare anche per il Cristianesimo. Così pure l’accento posto sulle diversità interne all’Islam, fino al punto di usare talvolta il plurale, non nasconde una strategia del divide et impera, ma intende dar conto delle molteplici traduzioni che ogni fede conosce (quelli che chiamiamo “Islam di popolo”), senza per questo rinunciare a un nucleo distintivo che le è proprio. Sono stato confortato – sia detto en passant – nel sorprendere la stessa formula “gli Islam” nell’intervista al mufti di Bosnia pubblicata nello scorso numero 9. In sintesi e giocando sul titolo di un famoso libro dell’orientalista cattolico Louis Gardet, Gli uomini dell’Islam [6], potremmo dire che Oasis non sceglie gli uomini contro l’Islam, ma gli uomini per arrivare all’Islam. Vi sono ormai molti esempi di come l’incontro tra credenti di diverse religioni, se vissuto con adeguata coscienza, possa tradursi in un arricchimento vicendevole. Ciascuno infatti può essere stimolato a vivere più in profondità la propria appartenenza religiosa, a comprenderla meglio e più a fondo. Non senza il rischio della libertà, comunque: la possibilità della conversione dev’essere ammessa perché il dialogo possa essere autentico e senza infingimenti. Nell’odierna società plurale questa stessa dinamica d’incontro che i singoli credenti già praticano è chiamata a trovare forme di espressione anche a livello comunitario, principalmente nel campo che chiamiamo delle implicazioni delle fedi. In una prospettiva cristiana, le implicazioni costituiscono le modalità nelle quali i Misteri della fede, secondo la logica sacramentale della Rivelazione [Fides et Ratio n° 13], si incarnano dinamicamente nella storia del soggetto che li vive, incidendo sul modo di concepirsi come uomini, sul modo di concepire la società e il rapporto con il creato. Nel rispetto delle procedure stabilite, essenziali per il buon funzionamento di uno stato democratico, le diverse interpretazioni culturali dovrebbero potersi confrontare prima di tutto a questi livelli. Ne beneficerebbe la società tutta, ma prima ancora le tradizioni religiose stesse, in un’avventura di reciproca edificazione. _________________________________________________________________________________________ [1] Joseph Ratzinger, Cristo, la fede e la sfida delle culture, in «Nuova Umanità» 16 (1994), n°6, 95-118 qui 103. [2] Si possono qui recuperare le osservazioni di Paul Ricœur sulla natura necessariamente ellittica di un’ermeneutica della testimonianza, chiamata a interpretare i segni che l’Assoluto dona di sé: «È in effetti a motivo della propria finitezza che l’affermazione originaria non possa appropriarsi di sé stessa in una riflessione totale a carattere intuitivo, ma debba passare attraverso un’interpretazione dei segni contingenti che l’assoluto dona di sé nella storia. Tuttavia «il fatto che la coscienza di sé sia sospesa a qualche decisione, a qualche scelta, a qualche processo in cui essa fa comparire ciò stesso che è l’apparire dell’assoluto non esprime la debolezza della prova per testimonianza, come in Aristotele, ma la finitezza della coscienza a cui è rifiutato il sapere assoluto (L’herméneutique du témoignage, in La testimonianza, a cura di Enrico Castelli, CEDAM, Padova 1972, 57). [3] Il pensiero corre subito alla riflessione del Cardinal Newman: An Essay on the Development of Christian Doctrine, Toovey, London 1845 [segue] [segue] (tr. italiana Lo sviluppo della dottrina cristiana, Jaca Book, Milano 2003). [4] «Quelque force enfin qu’ait cette antiquité, la vérité doit toujours avoir l’avantage, quoique nouvellement découverte, puisqu’elle est toujours plus ancienne que toutes les opinions qu’on en a eues». Blaise Pascal, Préface sur le Traité du vide, in Œuvres complètes, a cura di Michel Le Guern, t. I, Gallimard, Paris 1998, 458. [5] Yves M.-J. Congar, La Tradizione e la vita della chiesa, San Paolo, Catania 1964, 192. [6] Jaca Book, Milano 2002.

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