Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:17:45

Siamo in partenza per gli Emirati Arabi e perciò vi inviamo in anticipo di un giorno la nostra consueta “guida” all’attualità mediorientale, che oggi è in formato leggermente ridotto. La settimana prossima invece ci prenderemo una pausa, ma seguiteci su Instagram (@fondazioneoasis) per il racconto del nostro viaggio! E non perdetevi il nostro prossimo webinar, intitolato L’islamismo vent’anni dopo l’11 settembre in programma per il 1° dicembre.  

 

 

Nel corso della sua prima visita ufficiale in Turchia negli ultimi dieci anni, il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed ha incontrato mercoledì il presidente Recep Tayyip Erdogan. Secondo Sultan Al Jaber, ministro dell’industria e della tecnologia avanzata di Abu Dhabi, la visita segna l’inizio di una nuova era nelle relazioni tra due Paesi, la cui rivalità ha contribuito a formare l’attuale assetto geopolitico mediorientale. È della stessa opinione Sinem Cengiz, analista delle relazioni tra Turchia e Golfo, intervistato dal Financial Times: «la visita simboleggia un punto di svolta nelle relazioni tra i due Paesi». Al tempo stesso, si legge sempre sul quotidiano britannico, molte delle cause che hanno portato Ankara e Abu Dhabi su fronti opposti rimangono irrisolte.

 

Durante la visita sono stati firmati accordi per investimenti in ambito economico, energetico, tecnologico, sanitario, ambientale e nella logistica portuale turca. «I problemi con gli Emirati Arabi sono ora alle spalle. Entriamo in un periodo che si basa sulla completa cooperazione e sul reciproco beneficio», ha affermato una fonte turca interpellata da Reuters, che ha inoltre comunicato di aspettarsi investimenti emiratini nell’ordine dei «miliardi di dollari».

 

Investimenti che secondo gli auspici di Erdogan dovrebbero sostenere il valore della lira turca, che ieri era nuovamente sprofondata, perdendo il 12% del suo valore sul dollaro, dopo che il presidente Erdogan aveva difeso la decisione di tagliare i tassi di interesse e promesso di vincere la sua «guerra per l’indipendenza economica». E in effetti oggi, dopo l’incontro con MBZ, la lira ha parzialmente rimbalzato guadagnando il 10%.

 

L’Afghanistan, 100 giorni dopo la conquista talebana di Kabul

 

Sono passati cento giorni dalla conquista di Kabul da parte dei Talebani. La giornalista della BBC Yalda Hakim ha realizzato un video-reportage nella capitale afghana e ha indicato quattro ambiti cruciali per il presente e il futuro dell’Afghanistan: economia (il Paese faceva affidamento sugli aiuti internazionali, e ora i rubinetti sono chiusi), educazione (le scuole sono riaperte, ma le donne sono ancora in attesa di una “policy nazionale”), sistema sanitario (sono sempre di più i bambini ricoverati per malnutrizione) e sicurezza.

 

Quest’ultima è minacciata in particolar modo dallo Stato Islamico nel Khorasan (IS-K), che è particolarmente attivo da quando i Talebani hanno preso il potere. Un enorme problema che il nuovo Emirato sta provando a risolvere con il recente aumento di 1300 unità dei soldati attivi nelle operazioni di antiterrorismo nella provincia di Nangahar e in particolare a Jalalabad. Il rischio però, ha scritto il Washington Post, è che «i crescenti combattimenti a Nangahar sottopongano a sforzi eccessivi le limitate risorse talebane, e rendano ostili molti afghani».

 

Cambiamenti climatici in Medio Oriente e Nord Africa

 

Come indicato da diversi studi, l’area del Medio Oriente e del Nord Africa è una di quelle che soffrirà (soffre) maggiormente le conseguenze dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale. Ma sotto il cappello dei cambiamenti climatici rientrano fenomeni tra loro molto diversi. Tra questi la siccità e la mancanza di acqua potabile, per la quale in questi giorni hanno manifestato migliaia di persone in Iran. All’inizio della scorsa estate nella provincia del Khuzestan si erano verificati violenti scontri a causa delle richieste di un migliore accesso all’acqua da parte dei cittadini, mentre in questi giorni le proteste hanno coinvolto la città di Isfahan, dove il fiume Zayande ha smesso di scorrere. Un fenomeno che secondo i manifestanti è dovuto anche alla deviazione delle sue acque verso un’altra provincia. Per lo stesso motivo nella vicina provincia di Chahar Mahal e Bakhtiari, dove si stima che circa 200 villaggi ricevano acqua solo grazie all’arrivo di autocisterne, sono cominciate altre proteste.

 

Di segno completamente opposto quanto sta avvenendo in Algeria. Dopo essere stato devastato dagli incendi in estate, il Paese nordafricano si trova ora a soffrire per le inondazioni, come racconta Jeune Afrique, che evidenzia inoltre quanto la situazione sia complicata dagli immobili costruiti senza tenere in considerazione elementi di sicurezza ambientale. Tra gli edifici più a rischio c’è la Grande Moschea di Algeri.

Se l’azione dei singoli governi è fondamentale per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, è altrettanto chiaro che per obiettivi più ambiziosi è necessaria la cooperazione fra Paesi. Un esempio arriva da Emirati Arabi, Israele e Giordania. Questi tre Stati hanno infatti siglato un accordo per la costruzione in Giordania di una centrale elettrica alimentata da energia solare, che dovrebbe produrre 600 megawatt di elettricità. Questa servirà ad alimentare un impianto di desalinizzazione in Israele, da dove partiranno i rifornimenti di acqua verso Amman.

 

Riyad bombarda Sanaa e si riarma

 

Dopo che i ribelli yemeniti houthi hanno indirizzato 14 droni armati contro località saudite, le forze armate di Riyad hanno bombardato Sanaa. Secondo la coalizione a guida saudita gli attacchi hanno colpito due siti missilistici segreti. Nel frattempo, scrive al-Jazeera, gli Houthi stanno compiendo un’offensiva nell’area di Marib. Riyadh, che vanta uno dei più consistenti budget per la difesa al mondo, sta cercando di internalizzare la produzione di armi, si legge sul Financial Times. Il piano saudita, in linea con l’obiettivo della Vision 2030 di diversificare l’economia del Regno, è «aumentare la produzione locale al 50% della spesa in difesa nell’arco di dieci anni».

 

Sudan: il ritorno di Hamdok non placa le proteste

 

Il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok è stato reintegrato nella sua carica dopo che un colpo di stato militare guidato da Abdel Fattah Al-Burhan lo aveva deposto e costretto agli arresti domiciliari. Ciò è avvenuto in seguito al raggiungimento di un accordo con le forze armate, che secondo il primo ministro servirà a «evitare un bagno di sangue» (CNN). Hamdok ha inoltre affermato di non trarre alcun beneficio personale dal patto siglato con Al-Burhan, ma 12 dei 17 ministri della coalizione delle Forze di libertà e cambiamento si sono dimessi per non essere stati avvisati dell’accordo coi militari. Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha invitato i leader sudanesi a rimettere in moto la transizione democratica e ha definito il ritorno di Hamdok un «importante primo passo». Tuttavia, il movimento di protesta sudanese ha denunciato come «sovversivo» l’accordo, e secondo il Washington Post è «probabile che getti il Sudan nel disordine anziché porre fine a settimane di proteste e scioperi che hanno bloccato Khartoum». È anzi probabile che l’alleanza civile che prima del colpo di Stato divideva i poteri con i militari non sia più disponibile ad accettare alcun compromesso.

 

Negoziati (sul nucleare?) con l’Iran

 

Il 29 novembre è prevista la ripresa dei colloqui sul nucleare iraniano, con l’obiettivo di ripristinare l’accordo da cui gli Stati Uniti si sono ritirati per decisione dell’allora presidente Donald Trump. In realtà, dopo mesi di attesa, uno dei cambiamenti sembra riguardare proprio il modo in cui viene definito l’oggetto dei negoziati: Ali Bagheri Kani (capo negoziatore di Teheran) ha infatti affermato che non sono in corso «negoziati sul nucleare», ma al contrario «negoziati per rimuovere le sanzioni illegali e disumane» imposte all’Iran, negando le intenzioni iraniane di ottenere una bomba atomica. Come hanno scritto  Dan De Luce e Abigail Williams su CNBC, mentre l’Iran si avvicina a soglie pericolose di capacità nucleari, le possibilità di raggiungere una svolta positiva nei negoziati sono piuttosto basse. È anche per questo che secondo la BBC tornano a farsi sentire le voci che ipotizzano un attacco missilistico preventivo da parte di Israele.

 

Etiopia: Abiy Ahmed al fronte

 

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha dichiarato di essere pronto ad andare al fronte per combattere contro i ribelli del Tigrè (TPLF) e fermare la loro avanzata verso la capitale. Al momento, ha reso noto AFP, il TPLF ha conquistato la città di Shewa Robit a soli 220 chilometri da Addis Abeba.

 

Al Cairo, che con l’Etiopia ha in corso la disputa riguardo alla Grande Diga del Rinascimento etiope (GERD), guardano con attenzione agli sviluppi in Etiopia. Baher al-Kady (Al-Monitor) ha intervistato Mohammed Ali Bilal, ex capo di stato maggiore delle forze armate egiziane, che ha elencato alcuni degli aspetti che maggiormente preoccupano Il Cairo: con chi negozierà l’Egitto nel caso di caduta di Ahmed? Qual è la posizione del TPLF riguardo al funzionamento della GERD? L’Egitto vuole poter negoziare con un governo stabile, ha concluso Bilal.  

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Siria: Assad licenzia il Gran Mufti

 

La settimana scorsa il presidente siriano Bashar al-Assad ha emanato un decreto con cui ha abolito la carica di Gran Muftì della Repubblica e destituito Ahmed Hassoun, che dal 2007 ricopriva quel ruolo. Tutte le prerogative di quest’ultimo sono state trasferite al Consiglio supremo della giurisprudenza, un’istituzione nata nel 2018 in seno al ministero degli Affari religiosi e in cui sono rappresentati gli esponenti di tutte le confessioni religiose presenti in Siria. Una decisione storica perché, come ha riportato il sito d’informazione siriano al-Sūriyā, è la prima volta nella storia del Paese che questa carica viene abolita ufficialmente dallo Stato.

 

Su al-Jazeera, il professore di Filosofia etica Mu‘taz al-Khatib ha definito la decisione di Assad «un atto politico» con cui il presidente mira a 1) nazionalizzare la religione portandola sotto il suo diretto controllo; 2) emarginare ulteriormente la componente sunnita a favore della minoranza sciita, facendo di fatto un favore all’Iran a cui Assad deve la sopravvivenza del suo regime. Questa decisione, ha spiegato al-Khatib, va letta alla luce del processo di sciitizzazione che è in corso ormai da un decennio e che sta cambiando la mappa confessionale del Paese. La Siria si appresterebbe a seguire l’esempio del Libano, dove viene privilegiata una confessione a discapito delle altre, causando un’ulteriore frammentazione della società.

 

Ma chi è lo shaykh Ahmed Hassoun? A questa domanda ha risposto lo scrittore siriano ‘Ammar Dayoub su al-‘Arabī al-Jadīd, quotidiano con sede a Londra noto per ospitare le voci dissidenti. In effetti, Dayoub lo ritrae come un uomo non particolarmente stimato né ad Aleppo, sua città natale, né a Damasco, che l’ha adottato negli anni ’90 quando divenne membro del Parlamento e poi di nuovo nel 2005, quando fu nominato Gran Mufti della Repubblica. Uomo fidato della famiglia Assad, vicino ai servizi segreti, che lo hanno scelto per ragioni politiche più che per il suo spessore religioso (sarebbe sì laureato all’Università di al-Azhar, ma in Letteratura araba, non in Sharī‘a), Hassoun è sempre stato molto impopolare anche tra gli shaykh siriani e da sempre acerrimo nemico del ministro degli Affari religiosi Muhammad ‘Abd al-Sattar al-Sayyid, che oggi ha di fatto ereditato le prerogative del mufti decaduto.

 

La decisione di Assad ha fatto andare su tutte le furie il Consiglio islamico siriano, un’istituzione con sede a Istanbul che riunisce gli ulema siriani dell’opposizione. Il Consiglio ritiene infatti che, «abolendo la carica di Gran Mufti della Repubblica, Assad abbia fatto un favore al walī al-faqīh [la Guida suprema iraniana, l’ayatollah Khamenei]» e che il suo gesto sia un tentativo di snaturare l’identità siriana e ridimensionare il ruolo della maggioranza sunnita a vantaggio degli sciiti legati all’Iran. Sfidando il decreto presidenziale, sabato scorso il Consiglio ha nominato Gran Mufti della Repubblica siriana lo shaykh Osama ‘Abdul Karim al-Rifa‘i.

 

Questa iniziativa ha incontrato il plauso dell’opposizione siriana, in particolare del governo provvisorio siriano (formato dall’opposizione di alcune aree del nord della Siria), che ha elogiato il Consiglio e si è congratulato con il neo-eletto Gran Mufti, come ha riportato il quotidiano londinese al-Quds al-‘Arabī. Per al-Jazeera il ripristino della carica è una «restaurazione politica simbolica» più che un atto dall’effettivo valore religioso, mentre per ‘Arabī21 si è trattato di un atto di forza volto a riempire il vuoto creato dalla decisione di Assad e a bloccare il tentativo del regime di «sovvertire la scena religiosa siriana».

 

La vicenda ha fornito anche l’occasione per riflettere sui rapporti di forza tra gli Stati arabi e le loro leadership religiose. Nello specifico, su Asas Media l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid ha individuato, in maniera un po’ arbitraria, tre diverse configurazioni dei rapporti tra governanti e leader religiosi. Alcuni Paesi esercitano un controllo diretto e pressoché totale delle istituzioni religiose (Arabia Saudita, Egitto e Marocco); altri, soprattutto quelli governati da regimi militari, hanno scelto la via dell’ostracismo e dell’emarginazione (Siria, Iraq, Libia e Algeria); altri ancora hanno optato per la neutralità (Libano, Giordania, Mauritania, Tunisia e Sudan). Tre diversi modelli con conseguenze diverse: secondo al-Sayyid, infatti, nei Paesi che ostracizzano i leader religiosi gli episodi di violenza commessa in nome della religione sarebbero molto più frequenti.

 

Un nuovo corso per gli Emirati e la Turchia?

 

Dopo anni di profonde divergenze e reciproci attacchi politici e mediatici, la Turchia e gli Emirati stanno preparando il terreno a una nuova fase di relazioni bilaterali, inaugurata ieri dall’incontro ad Ankara tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed.

 

Come ha spiegato ad al-‘Arabī al-Jadīd Ali Baker, professore di Relazioni internazionali all’Università del Qatar, la normalizzazione passerà inizialmente attraverso l’economia e gli investimenti per poi estendersi gradualmente anche al piano politico. Ankara infatti, ha notato il quotidiano filo-islamista ‘Arabī21, non condivide la visione politica regionale promossa da Abu Dhabi, ragion per cui al momento sembra essere maggiormente interessata a trarre beneficio dalla cooperazione in campo economico.

 

Il quotidiano libanese al-Mayādīn ha denunciato l’ipocrisia degli Emirati e della Turchia, che oggi vogliono stringere accordi ma fino a ieri erano nemici giurati. Al-Quds al-‘Arabī ha posto invece l’accento sulla capacità dei due Paesi di tenere separate la sfera politica da quella economica. Nonostante le divergenze geopolitiche, infatti, negli ultimi dieci anni il volume di scambi commerciali tra i due Stati ha continuato a crescere (Abu Dhabi è il maggiore investitore arabo in Turchia e il secondo importatore di prodotti turchi).

 

La stampa emiratina invece ha sorvolato totalmente sui trascorsi tra i due Paesi e si è limitata a festeggiare il nuovo corso: al-Ittihād ha celebrato un incontro che «aprirà la strada a una nuova, prospera e promettente fase di relazioni e cooperazione nell’interesse dei due Paesi, dei loro popoli e della regione»; mentre al-‘Ayn al-Ikhbāriyya ha riportato le dichiarazioni del ministro dell’Industria e della Tecnologia emiratino, Sultan Jaber, che si è detto molto ottimista e ha specificato che le partnership economiche sono il principale fattore del successo degli Emirati. 

 

In brevissimo

 

Per anni la Cina è stata considerata dalle organizzazioni jihadiste internazionali un obiettivo secondario. Ora le cose stanno cambiando, e secondo un articolo pubblicato su Foreign Policy, lo dimostra il modo in cui ISIS ha rivendicato un attentato a Kunduz.

 

Due giornalisti norvegesi che indagavano sulle condizioni dei lavoratori impegnati nella costruzione degli stadi in Qatar sono stati arrestati e trattenuti per 36 ore mentre tentavano di lasciare il Paese (Guardian).

 

A un mese dalle elezioni libiche, previste il 24 dicembre prossimo, l’inviato speciale dell’ONU per la Libia Ján Kubiš si è dimesso dal suo incarico. Poche ore dopo l’annuncio, lo stesso Kubiš ha dichiarato di essere pronto a continuare il proprio lavoro fino all’appuntamento elettorale (RFI).

 

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