Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:19:24

Questa settimana il focus attualità arriva di giovedì perché da domani saremo in ferie. Ci rivediamo dopo le feste. Buon Natale!

 

«Quando Recep Tayyip Erdogan parla, la lira turca generalmente ascolta, trema e precipita [ma] per una volta è successo qualcosa di diverso». Si apre così un commento dell’Economist su quanto avvenuto questa settimana in Turchia. Ricapitoliamo brevemente: in meno di tre anni Erdogan ha cambiato tre governatori della banca centrale, rei di non essere completamente in linea con la politica presidenziale sui tassi di interesse, che continuano a essere tagliati nonostante la crescita dell’inflazione. Il risultato? Nel 2021 la lira turca ha perso il 40% del suo valore nei confronti del dollaro come esito dei diversi crolli verificatisi in corrispondenza delle dichiarazioni di Erdogan (l’ultima, per giustificare la sua politica di bassi tassi d’interesse: «in quanto musulmano, continuerò a fare ciò che la nostra religione ci dice»).

 

Ma come dicevamo in apertura, questa volta le cose sono andate diversamente: dopo una nuova caduta della valuta, Erdogan ha infatti annunciato che lo Stato compenserà i titolari di depositi in lire turche della svalutazione della moneta. A seguito di questa dichiarazione si è verificato un fortissimo incremento del valore della lira. Ciò non significa che l’economia turca sia vicina a essere fuori pericolo, ma Erdogan, ha scritto l’Economist, ha dato agli investitori il segnale di essere consapevole dei rischi della situazione. Secondo Emre Akcakmak, direttore di Greenwest Consultancy a Dubai, la mossa di Erdogan è nei fatti assimilabile a un aumento dei tassi di interesse, con una sostanziale differenza: che il costo dell’operazione è a carico del Tesoro turco. Detto in altre parole, «i contribuenti finanzieranno i ricchi per fare in modo che questi non perdano sul mercato valutario», scrive al-Monitor, che mette in guardia rispetto a un rischio insito in questa nuova politica economica: se il valore della lira dovesse scendere oltre i 15-16 dollari, il collasso delle banche e l’iper-inflazione sarebbe una reale possibilità. D’altro canto, ha scritto Bloomberg, la Turchia può ancora evitare il «worst-case scenario», ma il Paese potrebbe aver già raggiunto il punto in cui necessita non solo del cambio delle politiche economiche interne, ma anche «qualche tipo di ancoraggio estero supplementare». Secondo l’opinione di David Rosemberg pubblicata su Haaretz, Erdogan è consapevole dei rischi che corre a causa della sua politica economica, ma è disposto a correrli perché è convinto che – se infine avrà successo – questo gli permetterà di liberarsi dal “giogo” delle istituzioni finanziarie internazionali e dall’Occidente.

 

Nonostante le prossime elezioni siano soltanto nel 2023, la situazione economica ha ringalluzzito le opposizioni, convinte che le politiche economiche di Erdogan siano il suo “canto del cigno”, come ha spiegato il Washington Post. È di questa opinione anche Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul, che ha affermato: siamo di fronte a «un governo che si avvicina alla fine dei suoi giorni. Stanno facendo errori su errori». Ma soprattutto, Imamoglu ha dichiarato che insieme ai partiti di opposizione «stiamo discutendo quale tipo di Paese vogliamo costruire dopo aver vinto le elezioni». Vedremo se tanto ottimismo sarà giustificato.

 

Libia: niente elezioni e rischio nuova escalation

 

Ora è ufficiale: le elezioni in Libia previste per la vigilia di Natale non si faranno. Lo ha comunicato la commissione elettorale libica mercoledì, proponendo il rinvio al 24 gennaio.

 

Nel Paese la tensione sta risalendo in maniera preoccupante, ha scritto il Washington Post, e negli ultimi giorni diversi gruppi armati hanno mobilitato i propri combattenti nella capitale, aumentando il rischio di un nuovo conflitto. È una preoccupazione condivisa anche dal Financial Times, che sottolinea come il rinvio delle elezioni rischi di gettare nuovamente la Libia nella crisi politica, azzerando i progressi fatti dalla nomina del governo di Unità nazionale. Le figure chiave dell’attuale potere libico, il generale Haftar, Aguila Saleh (speaker del parlamento) e Abdul Hamid Dbeibeh (primo ministro), «non vogliono le elezioni, ma vogliono incolpare gli avversari» per non averle potute svolgere, ha dichiarato al quotidiano londinese l’analista Tarek Magerisi. I candidati, a partire da Saif al-Islam Gheddafi, sono estremamente divisivi e questo ha pesato sulla scelta di rinviare l’appuntamento elettorale. Tuttavia, secondo il New York Times, le elezioni sono un passo fondamentale per organizzare l’espulsione dei combattenti stranieri presenti nel Paese, lavorare alla riunificazione in un’unica forza armata delle tante milizie presenti nel Paese e riorganizzare le istituzioni libiche. Un approfondimento di Jeune Afrique si concentra sulla posizione delle comunità berbere libiche. Queste ultime, che non a caso hanno espresso già a novembre la loro contrarietà allo svolgimento delle elezioni, vogliono mantenere il livello di autonomia raggiunto dopo la caduta di Gheddafi e per questo sarebbero particolarmente preoccupate dalle ambizioni di figure come Gheddafi figlio e Haftar, che «incarnano l’autoritarismo».

 

Mezza speranza per l’Etiopia

 

Durante lo scorso fine settimana il governo etiope ha reso nota la riconquista di alcune città chiave, tra cui Lalibela, nella zona orientale di Amhara, e Kobo e Waldia nel nord del Paese. «L’Etiopia è orgogliosa del vostro incredibile eroismo», ha detto il premier Abiy Ahmed alle truppe al fronte, celebrando il loro ruolo nel bloccare l’avanzata delle forze tigrine. Tuttavia, come si legge in un approfondito articolo di Declan Walsh sul New York Times, «le ragioni del capovolgimento delle fortune di Abiy Ahmed volteggiano nel cielo». Il riferimento di Walsh è alla flotta di droni armati che negli ultimi quattro mesi sono stati acquistati da Emirati Arabi Uniti, Turchia e Iran. L’effetto dello schieramento in battaglia dei droni è impressionante, scrive Walsh: dal momento del loro utilizzo, i ribelli hanno dovuto indietreggiare verso nord di oltre 400 chilometri. Breve parentesi, citando sempre Walsh: questo è il terzo conflitto recente in cui i droni si sono rivelati decisivi, dopo Libia e Nagorno-Karabakh.

 

Poco dopo l’annuncio etiope, il leader del Fronte Popolare di Liberazione del Tigré (TPLF), Debrestion Gebremichael, ha ritirato le sue forze dalle regioni contese di Amhara e Afar. In una lettera indirizzata al segretario generale delle Nazioni Unite, Debrestion ha anche richiesto la creazione di una no-fly zone sul Tigrè, l’embargo sulla vendita di armi a Etiopia ed Eritrea e la creazione di un meccanismo garantito dall’Onu per verificare che le forze eritree ed etiopi abbiano realmente lasciato la regione tigrina. Tre condizioni di difficile realizzazione. Debrestion ha contestualmente criticato la scarsa efficacia della comunità internazionale e delle Nazioni Uniti nel garantire il rifornimento di aiuti umanitarie nel Tigrè. L’aspetto più richiamato dai media internazionali riguarda le intenzioni del TPLF, il quale spera, secondo quanto dichiarato dal suo leader,  che il ritiro all’interno dei confini del Tigrè possa favorire l’inizio di negoziati di pace con Addis Abeba.

 

Tuttavia, tramite il suo portavoce Billene Seyoum il governo etiope ha respinto l’apertura del TPLF al cessate-il-fuoco. Il rifiuto è motivato secondo Stratfor dal fatto che Abiy Ahmed «ha pochi incentivi a impegnarsi [nei negoziati] con un TPLF indebolito, [anche perché] la resistenza dell’élite dell’etnia Amhara e la persistente occupazione del Tigrè occidentale da parte delle milizie Amhara limiterebbe il processo negoziale». Il rischio, dunque, è che la mossa del TPLF di ritirarsi all’interno della regione tigrina non porti a una soluzione del conflitto, ma soltanto a un suo riorientamento verso Macallè e anziché verso Addis Abeba.

 

Nel frattempo, le Nazioni Unite hanno votato a favore della creazione di una commissione di inchiesta che indaghi sui crimini compiuti in più di un anno di conflitto. Il governo etiope ha fatto sapere che non coopererà con le indagini, e che considera la scelta dell’ONU «motivata politicamente».

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

L’Iraq spegne la musica, l’Arabia Saudita balla sulle note di David Guetta

 

L’ultima rassegna della stampa araba di quest’anno la dedichiamo alla musica e a una situazione decisamente paradossale che ha visto protagonisti due Stati arabi: l’Iraq, le cui autorità religiose hanno proibito i concerti, e l’Arabia Saudita, le cui autorità politiche hanno sponsorizzato il Soundstorm Festival di musica elettronica. Finanziata dall’Autorità generale per l’intrattenimento saudita, la quattro giorni di musica si è tenuta a Riyadh e ha visto la partecipazione di oltre 200 artisti arabi e internazionali del calibro di David Guetta. «Il più grande evento musicale del Medio Oriente», così l’ha definito il quotidiano filo-saudita al-Sharq al-Awsat, ha attratto oltre 500.000 persone, uomini e donne che insieme hanno assistito alle performance musicali. Una cosa non da poco per un Paese in cui fino a pochi anni fa vigeva una rigida separazione dei sessi in tutti i luoghi pubblici. Per capire la portata della novità è sufficiente scorrere la galleria di fotografie pubblicata dal quotidiano saudita al-Riyādh.

 

Mentre l’Arabia Saudita cerca di rilanciare la propria immagine all’estero promuovendo questo e altri grandi eventi, l’Iraq fa un passo indietro. I partiti religiosi del Paese hanno infatti vietato le esibizioni musicali e costretto una società di entertainment locale, la Sindbad Land, ad annullare tutti i concerti che aveva in programma a Baghdad. Gli eventi avrebbero dovuto essere ospitati nel parco divertimenti Sindbad Land realizzato nel cuore della capitale irachena dalla società veneta Zamperla, specializzata nel settore della tecnologia delle giostre.

 

Come ha riportato al-Sharq al-Awsat, da diversi mesi la Sindbad Land era finita nel mirino delle autorità religiose, che la accusavano di promuovere «l’immoralità in una società conservatrice». Il concerto dell’artista egiziano Muhamad Ramadan ospitato venerdì scorso è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. A destare scandalo sembra essere stata proprio la camicia aperta del cantante. Subito dopo la fine del concerto centinaia di abitanti della zona si sono riuniti davanti al teatro per protestare contro gli organizzatori dell’evento.

 

Durante il sermone di venerdì scorso, lo shaykh sciita Jaafar al-Ibrahimi ha sollevato la questione dei costi esorbitanti sostenuti per organizzare il concerto (si parla di 3 milioni di dollari) e ha apostrofato in termini razzisti l’artista egiziano, il quale, a sua volta, ha attaccato lo shaykh sulla sua pagina Facebook.

 

In generale, le autorità irachene hanno mantenuto un profilo basso. Il ministro della Cultura si è sottratto alle critiche diramando un comunicato in cui ha dichiarato che le performance artistiche organizzate dalle società private non ricevono finanziamenti dal suo ministero, che perciò non può essere ritenuto responsabile dell’accaduto. L’unico a esporsi in maniera palese è stato l’ex primo ministro Nuri al-Maliki, che in un discorso televisivo si è scagliato contro le iniziative culturali organizzate nel parco divertimenti, definendole «feste vergognose».

 

Il caso ha sollevato il dibattito sulle libertà di espressione. L’opinione pubblica irachena si è quindi divisa tra chi pensa che i partiti religiosi vogliano sfruttare la crisi politica in atto per creare una nuova polarizzazione sociale e chi invece teme che l’accaduto celi il tentativo di conferire una maggiore impronta religiosa alla società irachena.

 

Lo scrittore iracheno Ahmed Saadawi, autore di “Frankenstein a Baghdad” che nel 2014 si è aggiudicato il Premio Internazionale della narrativa araba, ha definito quando accaduto a Sinbad Land un atto di terrorismo e un tentativo dell’ISIS di «imporre un colore alla società». Il giornalista iracheno Hussam Al-Hajj ha invece espresso il timore che dopo aver vinto la battaglia contro Sinbad Land, i «Guardiani del Signore» inizino una campagna contro le celebrazioni del Capodanno. Gli attivisti hanno infiammato i social lanciando l’hashtag “Baghdad civile”, che in poche ore ha raccolto migliaia di tweet a sostegno della libertà di espressione artistica nel Paese.

 

Come ha fatto notare il quotidiano nazionale al-Zamān, l’ondata di proteste scatenata dal concerto di Mohamed Ramadan ha avuto come effetto indiretto quello di spaventare i cristiani di Baghdad che quest’anno, per la prima volta, hanno evitato di esporre pubblicamente i simboli del Natale per timore di essere fraintesi e attaccati. Da qui, l’appello lanciato da alcuni attivisti alla classe politica, agli ulema e agli intellettuali perché «prendano una posizione a livello nazionale e aiutino i cristiani» a non sentirsi sotto attacco.

 

Il dibattito sul caso “Sinbad Land” ha letteralmente varcato i confini nazionali. Il quotidiano egiziano al-Masrī al-Youm ha segnalato un’intervista telefonica rilasciata da Tariq Al-Shennawi al programma televisivo egiziano “Ra’y ‘ām” in cui il critico d’arte dichiara che il rifiuto delle espressioni artistiche è sintomatico di un problema molto più profondo, del desiderio cioè dei partiti religiosi iracheni di creare uno Stato religioso a scapito di quello civile.

 

In Libano, il quotidiano al-Nahār ha denunciato il caso ricordando che tra i concerti annullati c’è anche quello del cantante libanese Assi El Helani. Il giornale ha inoltre riportato un’indiscrezione secondo cui l’annullamento forzato di tutti gli eventi musicali sarebbe una ritorsione dei partiti politici nei confronti di Sinbad Land, che si è rifiutata di riconoscere loro una quota dei profitti ricavati dai concerti, e denoterebbe lo stato di profonda corruzione della politica irachena.

 

Della corruzione delle istituzioni irachene ha parlato il ricercatore iracheno Sayyar al-Jamil su al-Arabī al-jadīd, descrivendo un Paese strabico che, da un lato vorrebbe migliorare i rapporti con il mondo arabo, ma dall’altro continua a guardare all’Iran destando il sospetto degli arabi. Un Paese sull’orlo della guerra civile, che non è riuscito a costruire un modello democratico perché, ha spiegato al-Jamil, la democrazia non è compatibile con le ideologie confessionali che dominano il sistema politico iracheno.

 

Questi, tuttavia, non sono gli unici problemi che deve affrontare il Paese. Come ha spiegato il quotidiano londinese Al-Quds al-Arabī, l’Iraq sta vivendo una grave crisi ambientale provocata dalle guerre e dalle politiche neocoloniali. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, in Iraq le guerre hanno causato l’emissione di 141 milioni di tonnellate di CO2, pari a più del 60% di tutti i Paesi del mondo. Al-Quds al-Arabī segnala inoltre alcuni altri tristi primati dell’Iraq: è tra i Paesi più corrotti e insicuri del mondo arabo, e quello maggiormente colpito dai cambiamenti climatici e dal surriscaldamento globale, che hanno provocato una grave carenza di acqua potabile e per l’irrigazione.

 

In breve

 

L’intelligence americana ritiene (e lo confermano alcune immagini satellitari ottenute dalla CNN) che l’Arabia Saudita abbia iniziato la produzione di missili balistici home-made con l’aiuto della Cina. Un problema in più per l’amministrazione Biden.

 

Uno sguardo alla crisi economica in Algeria da una prospettiva particolare: il prezzo delle patate, alla base dei piatti tradizionali come la tagine, è triplicato in pochi mesi e secondo World Crunch è il simbolo della situazione economica del Paese.

 

L’Egitto ha condannato ad alcuni anni di prigione tre attivisti per i diritti umani. Questa notizia evidenzia secondo il New York Times che Il Cairo non ha alcuna intenzione di allentare la morsa della repressione del dissenso.

 

«Vogliono cancellarci dalla società». Questa è la testimonianza di un cristiano in India, dove gli attacchi da parte di estremisti indù sono sempre più frequenti. Lo scrive il New York Times, che parla di «persecuzione» dei cristiani indiani.

 

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