Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:56:29

Le tensioni fra Stati Uniti e Turchia hanno raggiunto il culmine negli ultimi mesi, contribuendo a scatenare ad Ankara una crisi monetaria paragonabile a quella del 2001. Una lira svalutata del 40% e un taglio delle stime di crescita hanno costretto la Turchia a una riduzione decisa della spesa pubblica per circa 10 miliardi di dollari e alla rinuncia ad ambiziosi progetti infrastrutturali. Come evidenziato nel recente commentary ISPI, la crisi economica influenza la popolarità di Erdoğan e dell’Akp, che registra un calo, e costringe il leader turco a muoversi con estrema cautela in vista delle prossime elezioni amministrative.

 

Erdoğan comunque non si è fatto scoraggiare e ha proseguito nel proporre una narrazione fortemente identitaria e nazionalista. L’ergastolo per sei giornalisti, fra cui spiccano Ahmet Altan, suo fratello Mehmet e Nazlı Ilıcak, e l’ininterrotta battaglia nel sud-est del Paese contro il Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) hanno fornito un’occasione preziosa per mettere in sicurezza il proprio potere e ripresentarsi sulla scena pubblica come il garante della sicurezza nazionale. La morte di sette soldati dell’esercito regolare turco in un attentato nella provincia di Batman e il presunto coinvolgimento del PKK hanno infatti permesso ai sostenitori dell’Akp di serrare le fila intorno al loro leader.  

 

Anche in politica estera la Turchia continua a ricoprire un ruolo importante, grazie alla posizione strategica rispetto alla Siria, un Paese che – per Ankara – è cruciale. Il processo di dialogo con i ribelli di Idlib, la promessa di un disimpegno solo a elezioni effettuate (e quindi non nel breve periodo) e gli incontri con la Russia e con altri attori regionali si sono conclusi con l’accordo per la creazione di un’area demilitarizzata di 15/20 km da liberare entro il 15 ottobre.

 

Il caso Jamal Khashoggi

La Turchia ha però occupato le prime pagine di tutte le maggiori testate internazionali per un’altra ragione: la scomparsa del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Il 2 ottobre Khashoggi si è recato al consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul per ritirare alcuni documenti per il divorzio. Dopo diverse ore, la fidanzata ha allertato le autorità turche per denunciarne il mancato ritorno. E a questo punto le versioni dei fatti divergono: Khashoggi sarebbe uscito per le autorità saudite, mentre per la polizia turca non avrebbe mai lasciato il consolato.

 

La raccolta di testimonianze dei giorni successivi e la notizia del possesso di audio e video da parte del Washington Post che proverebbero la morte del giornalista sembrerebbero avvalorare la tesi turca. Se si aggiungono le posizioni critiche di Khashoggi nei confronti delle politiche del Regno e verso il “riformista” Mohammad bin Salman, l’ipotesi di un assassinio politico orchestrato da Riyad appare più credibile. Secondo indiscrezioni riportate dal quotidiano turco Sabah e riprese dall’Independent, 15 cittadini sauditi sono arrivati a Istanbul poche ore prima dell’appuntamento di Khashoggi. Sarebbero loro i membri del commando che avrebbe ucciso e smembrato il corpo del giornalista.

 

Nonostante le indagini turche portino in questa direzione, Daniele Santoro su Limes sottolinea una possibile contro-narrativa di matrice “complottista”. Un tale evento potrebbe rappresentare un colpo mortale alle relazioni turco-saudite e all’immagine moderata proposta da MbS. Il principale sostenitore di questa tesi alternativa è Ibrahim Karagül, uomo di fiducia del Presidente, che ha inizialmente adottato una posizione moderata, augurandosi che Khashoggi fosse ancora vivo. La decisione di creare un comitato investigativo congiunto fra Turchia e Arabia Saudita potrebbe di conseguenza essere oggetto di una duplice lettura: l’esempio della volontà del Regno di porre rimedio alla crisi o un tentativo di manovrare le indagini per ribadire l’estraneità di Riyad e MbS ai fatti contestati, creando comunque non pochi problemi a Washington.

 

La propaganda statunitense incentrata sul riformismo e sulla moderazione del Principe ereditario, il rapporto personale fra MbS e il genero plenipotenziario di Donald Trump, Jared Kushner, un accordo da oltre 100 miliardi di dollari per la vendita di armamenti e il nemico comune identificato nell’Iran hanno spinto Washington e Riyad molto vicini. I recenti eventi possono tuttavia costituire un momento di svolta nei rapporti fra i due paesi, lasciando il Regno senza la protezione americana, come minacciato da alcuni senatori.

 

Non va dimenticato tuttavia che l’Arabia Saudita costituisce il maggior alleato degli Stati Uniti nella regione. La recente strategia di contro-terrorismo promossa da John Bolton, Consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump, fa infatti grande affidamento su Riyad in funzione anti-iraniana. L’asse israelo-saudita è funzionale a Washington, che può contare su sempre meno alleati nella regione mediorientale. Ne è un chiaro esempio la decisione dell’amministrazione Trump di tagliare oltre 300 milioni di dollari di aiuti al Pakistan, avvicinandosi all’India e spingendo così Islamabad nelle braccia della Cina.

 

La sentenza per Asia Bibi

E parlando di Pakistan, è di lunedì 8 ottobre la notizia del rinvio della sentenza per Asia Bibi, la donna cristiana in prigione dal 2009 per blasfemia, reato per cui è prevista la pena capitale. La notizia ha avuto una grande eco sulla stampa italiana, anche per i numerosi appelli della Chiesa e di Papa Francesco per la liberazione della donna. In attesa del verdetto e nonostante le richieste di scarcerazione da parte della comunità internazionale, gli estremisti islamici del Tehreek-e-Labaik Pakistan chiedono a gran voce la condanna, promettendo “una fine orribile” ai giudici qualora la sentenza non dovesse soddisfarli.

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