Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:56:30

A due settimane dalla scomparsa del giornalista saudita Jamal Khashoggi, nuovi e macabri dettagli vengono alla luce. Oltre al mistero che circonda il corpo del giornalista, audio e registrazioni confermerebbero quella che al momento è solo un’ipotesi, ovvero la morte di Khashoggi. L’intrigo si è ulteriormente infittito con il decesso in un incidente d’auto di Meshal Saad M Albostani, sottufficiale della Saudi Royal Air Force e sospettato di essere parte del team di 15 sauditi che avrebbe ucciso il giornalista. L’evento ha però inevitabilmente assunto un respiro più ampio, divenendo occasione di riassestamento di dinamiche politiche ed economiche su scala globale.

 

Benché i rapporti fra Stati Uniti e Turchia siano tesi, un riavvicinamento è stato registrato con il rilascio del pastore della Chiesa Evangelica Presbiteriana Andrew Brunson. Accusato di spionaggio e sospettato di vicinanza con Fetullah Gulen, fondatore del movimento Hizmet, Brunson ha trascorso due anni nelle prigioni turche, fino ad essere liberato il 12 ottobre. Benché Trump abbia definito soltanto una coincidenza la vicinanza temporale dei due eventi, la scomparsa di Khashoggi e la scarcerazione di Brunson fanno pensare ad un tempismo sospetto, come sottolinea il Sydney Morning Herald. La Turchia vorrebbe infatti giocare a proprio favore l’incrinatura dei rapporti tra Arabia Saudita e Stati Uniti, utilizzando questo fatto per riavvicinarsi a Washington.

 

La pressione internazionale sul Regno saudita si fa sempre più marcata. Alle minacce inglesi, francesi e olandesi di boicottare la Future Investment Initiative in calendario a Riad dal 23 al 25 ottobre, si aggiunge la presa di posizione di Steve Mnuchin, Segretario al Tesoro americano, che ha annunciato in un tweet che non presenzierà alla “Davos del deserto”. La defezione di Mnuchin si aggiunge a quelle di Christine Lagarde per il Fondo Monetario Internazionale e dei dirigenti di alcune importanti banche d’affari, tra cui JPMorgan e Goldman Sachs.

 

Nonostante ciò, un deterioramento sull’asse saudita-americano non parrebbe però all’orizzonte. Trump ha recentemente ribadito la necessità di salvaguardare un accordo da oltre 110 miliardi di dollari sulla vendita di armamenti al Regno Saudita. In realtà, come riportato dalla CNN, i contratti attualmente stipulati ammonterebbero a soli 14 miliardi, di cui una parte risalenti all’amministrazione Obama. Gli accordi sarebbero difatti costituiti da Lettere di Offerta e Accettazione (LOAs) e Memorandum di Intenti (MOI), i quali non costituiscono accordi finalizzati, ma solo bozze di convenzioni future.

 

Anche da parte di Riyad è chiara la volontà di salvaguardare l’alleanza con Washington. Martedì 16 ottobre, mentre il Segretario di Stato Mike Pompeo volava in Arabia Saudita dal Re Salman per chiarire la posizione del Regno nell’affare Khashoggi, 100 milioni di dollari facevano il percorso inverso. Frutto di una promessa dell’agosto scorso e destinati alla stabilizzazione dello scacchiere siriano, l’inviato americano nella coalizione per combattere lo Stato Islamico Brett McGurk ha specificato come l’arrivo dei fondi fosse previsto da tempo, prima che il giornalista saudita scomparisse.

 

I fondi per la ricostruzione della Siria ammontano però ad una cifra ben superiore a quelle stanziate fino ad oggi. Le stime più ottimistiche parlano di 200 miliardi di dollari per risanare un’economia che ha perso oltre il 75% del PIL in otto anni e per ricostruire un capitale umano andato dilapidandosi durante la guerra, come avevamo sottolineato in Oasis 24 due anni fa. Eugenio Dacrema per Corriere della Sera evidenzia infatti i nodi di un processo di normalizzazione che si annuncia complesso come il conflitto stesso. Dacrema rileva inoltre come la Siria sia oggi “terra di conquista” di diverse potenze mondiali, Russia, Iran, Golfo, ma anche Cina, per ottenere una posizione strategicamente vantaggiosa nella regione. Il Paese però è ancora distante dall’esperire una piena risoluzione del conflitto. In particolare, è la provincia di Idlib, oggetto di discussione dell’incontro fra il leader russo Vladimir Putin e il Generale al-Sisi, a costituire un’area delicata. Oltre agli scontri armati e alla presenza di guerriglieri, la zona conta un’ingente numero di rifugiati, tra cui anche numerosi cristiani che hanno trovato rifugio a Latakia.

 

Non bastassero gli scontri di terra e i bombardamenti aerei, la Siria è divenuta tristemente nota anche per i presunti attacchi chimici di cui spesso è stato accusato il regime di Assad. È di pochi giorni fa un interessante report della BBC che documenta l’utilizzo di armi chimiche in 106 occasioni, di cui la maggior parte per via area attraverso agenti quali cloro e sarin. Cinquantacinque attacchi, concentrati soprattutto a Idlib, Hama e Aleppo, sarebbero stati letali, in particolare nel biennio 2014-2015.

 

L’incertezza siriana si arricchisce anche a causa delle inattese dimissioni dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura, subentrato nel 2014 a Lakhdar Brahimi. Il diplomatico ha infatti giocato un ruolo chiave nel tentativo di far convergere il processo di pace di Astana con Russia, Turchia e Iran con i colloqui sotto egida ONU di Ginevra.

 

Se la situazione nel nord del Paese è ancora un’incognita, segnali di distensione si registrano a sud. Il Governo di Damasco ha sbloccato mercoledì 17 ottobre gli aiuti delle Nazioni Unite per gli oltre 50.000 rifugiati nel campo profughi di Rubkan, al confine con la Giordania. Ed è di due giorni prima la notizia della riapertura del confine Siria-Giordania nei pressi di Nasib, crocevia fondamentale per i commerci e chiuso da più di tre anni.

 

In conclusione, non si può non riconoscere come il destino mediorientale dipenda anche dal futuro della Siria. Come espresso nell’ultimo numero di Oasis da Joshua Landis, sia per l’intreccio di dinamiche politiche sia per la complessità del panorama religioso, il Paese è paragonabile a un nuovo Iraq, dove la ridefinizione del peso sociale delle componenti etniche e confessionali ha riorganizzato e destabilizzato un’intera regione.

Tags