Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:12:13

Almeno sei persone sono morte e trenta sono state ferite negli scontri che hanno avuto luogo ieri a Beirut. L’escalation non è solo l’ennesimo episodio della gravissima crisi in cui è sprofondato il Libano, ma segna un pericoloso salto di qualità. Tutto ruota intorno all’indagine sull’esplosione al porto del 4 agosto 2020. La settimana scorsa la tensione è aumentata quando Tarek Bitar, il giudice che sta indagando sull’esplosione (qui ritratto da L’Orient Le-Jour), ha emesso una richiesta di arresto per l’ex ministro delle Finanze Ali Hassan Khalil, già sotto sanzioni da parte degli Stati Uniti per il suo sostegno a Hezbollah. Dopo la notizia, i legali di Khalil hanno ricusato Bitar, portando a una nuova temporanea sospensione delle indagini (ma la Cassazione ieri ha rigettato le accuse a Bitar), mentre Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita Hezbollah, ha attaccato il magistrato chiedendone la sostituzione «con un giudice trasparente e onesto». In risposta, il Dipartimento di Stato americano ha difeso Bitar, ed è stato a sua volta accusato da Hezbollah di interferire negli affari interni libanesi.

 

Ma Hezbollah non si è limitata alle critiche verbali e, oltre ad aver minacciato insieme al partito Amal l’uscita dei ministri sciiti dal neo-insediato governo Mikati, ha organizzato per giovedì una manifestazione davanti al Palazzo di Giustizia, che rapidamente si è trasformata in uno scontro a fuoco. Cecchini sui tetti nell’area Tayouneh-Badaro hanno infatti iniziato a sparare sui manifestanti, e questi, che si erano presentati alla manifestazione da loro indicata come «pacifica» armati di tutto punto, hanno immediatamente risposto al fuoco. Non è chiaro chi fossero i cecchini sui tetti ma, come ha scritto Middle East Eye, Hezbollah ha puntato il dito contro il partito cristiano delle Forze Libanesi, che hanno respinto l’accusa. L’Iran, come da copione verrebbe da dire, ha invece accusato Israele di aver soffiato sul fuoco.

 

L’obiettivo di Hezbollah e del suo alleato Amal, «costi quel che costi», è chiaro, ha spiegato a L’Orient-Le Jour Jeanine Jalkh: fermare le indagini sull’esplosione al porto. Per farlo il movimento sciita persegue due vie, quella giudiziaria e la piazza. Una dimostrazione di forza che secondo Jalkh non intendeva intimidire soltanto il giudice Bitar, ma anche il quartiere cristiano nel quale ha avuto luogo e dove appunto sono presenti le Forze Libanesi. E altrettanto chiaro è il messaggio giunto in risposta alla provocazione di Amal: «il palazzo di Giustizia è una linea rossa da non oltrepassare».

 

Nella giornata di oggi il numero dei morti è salito a sette, mentre il governo ha invocato un giorno di lutto nazionale. Ma al di là degli scontri di ieri la situazione resta disastrosa e due articoli di L’Orient-Le Jour rendono bene l’idea: il primo spiega che la crescita dell’inflazione non conosce sosta, con i  carburanti di ogni tipo che mercoledì hanno subito un nuovo aumento per effetto della «politica di eliminazione progressiva dei sussidi sui carburanti seguita dal ministero dell’Energia». Il secondo descrive un fenomeno ancora più preoccupante se considerato proprio alla luce delle azioni di Hezbollah di questi ultimi giorni: sono infatti sempre di più i soldati che disertano perché l’inflazione (aspetto a cui dedica un approfondimento il Financial Times) ha talmente eroso il potere d’acquisto del loro salario da essere costretti a cercare un altro lavoro per far fronte alle spese primarie. Una situazione che negli ultimi due anni ha investito «migliaia» di soldati, ha scritto Mohammad Yassine.

 

Rassegna dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

In Libano torna l’incubo della guerra civile

 

Gli scontri a fuoco nelle strade di Beirut si sono immediatamente tradotti in violenti scambi di accuse anche nei media.

 

Sul quotidiano libanese al-Nahār, il giornalista Rajeh Khoury ha scritto che a morire ieri negli scontri di Tayouneh è il Libano inteso come patria. E questo non perché il Paese sia di nuovo sull’orlo di una guerra civile, ma perché ha dimostrato di aver perso definitivamente i connotati di uno Stato, privo com’è di «autorità, funzionari, modestia, vergogna e ragione».

 

Al termine di quella che è stata definita una «delle giornate più pericolose degli ultimi anni», il primo ministro libanese Najib Miqati ha rilasciato un’intervista a Nayla Tueni, capo-redattrice di al-Nahār, in cui ha sollevato il dubbio che la sparatoria sia stata orchestrata per far cadere il suo governo. I manifestanti «hanno sparato su un governo impegnato a curare il Libano malato in sala operatoria», ha affermato Miqati, confermando comunque la sua intenzione a rimanere alla guida del Paese.

 

Sullo stesso quotidiano, l’editorialista Samir Constantine ha definito la politica libanese un «olocausto» e ha esortato il primo ministro a prendere subito in mano la situazione per non fare la fine dell’ex primo ministro Hassan Diab (che si è dimesso ad agosto 2020, all’indomani dell’esplosione del porto dei Beirut).  Miqati, ha scritto Constantine, «ha un’occasione d’oro per riportare lo Stato sotto il controllo dello Stato» e non può aspettare. Di tempo infatti ne ha perso fin troppo, ha scritto Constantine, visto che oggi il governo non ha ancora preso una posizione chiara sulla tragedia del porto di Beirut, così come non è chiaro come intenda risolvere i problemi legati all’approvvigionamento energetico e ai traffici di contrabbando con i Paesi limitrofi, la Siria in particolare. Miqati, ha concluso il giornalista, non può limitarsi a svolgere il ruolo di moderatore tra le diverse fazioni del governo sui grandi temi di dibattito, ma deve prendere una posizione chiara.

 

I giornali sciiti hanno replicato presentando Hezbollah come vittima dell’accaduto. Il quotidiano al-Akhbār ha dedicato un intero dossier agli eventi di Tayouneh, che si apre con un’immagine del leader delle Forze Libanesi, Samir Geagea, ritratto in sembianze hitleriane, con la croce sul braccio al posto della svastica. Uno degli articoli del dossier, titola con toni molto militanti “Lo spettro della guerra civile aleggia sugli schermi: l’imboscata di Tayouneh... I media diabolici scagionano gli assassini”, accusando in particolare il canale televisivo MTV di «aver lanciato un attacco senza precedenti contro Hezbollah» e di porre sullo stesso piano i giovani che si trovavano in strada disarmati (sic) e i cecchini appostati sui tetti attorno al palazzo di Giustizia.

 

Un altro editoriale ha definito l’accaduto una sorta di «prova generale di guerra civile per far cadere il Paese nel caos», mentre Zeinab Hawi ha accusato i media del Golfo di aver riportato un’immagine falsa e tendenziosa degli eventi accaduti a Tayouneh. Nella fattispecie, la giornalista ha accusato l’emittente televisiva al-‘Arabiyya di fare da mesi la guerra mediatica a Hezbollah, e al-Jazeera per aver mandato in onda un servizio che evocava lo scenario del 2005, quando fu ucciso il primo ministro Rafik Hariri.

 

In effetti, per capire la posizione dell’Arabia Saudita sulla questione basta leggere le prime pagine di al-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita. Senza mezze misure, il giornalista saudita Mashari Althaydi ha scritto che «la radice della malattia in Libano è l’esistenza di questo pericoloso partito [Hezbollah] che si è liquefatto nella coppa del khomeinismo», e ha definito i fatti di Tayouneh «una piccola prova per lo scoppio di una nuova guerra civile in Libano». Hezbollah, ha concluso, «governa il Libano da solo e ricorre a questi metodi per ricordarlo a chi lo dimentica». A colpire in queste dichiarazioni è l’uso di toni molto accesi proprio nelle settimane in cui si parla del disgelo dei rapporti tra l’Arabia Saudita e l’Iran, impegnati in una serie di colloqui per ripristinare le relazioni tra i due Paesi.

 

Un j’accuse al governo libanese, ma con toni decisamente più moderati, arriva anche dal quotidiano londinese al-‘Arabī al-Jadīd, dove la giornalista Joumana Farhat ha denunciato «l’inchiesta farsa» e il rischio che essa si possa concludere con l’attribuzione di responsabilità a funzionari «di decimo grado».     

 

In Iraq ha vinto l’astensionismo. E Moqtada al-Sadr

 

Domenica scorsa si sono svolte in Iraq le elezioni parlamentari, le quinte dalla caduta di Saddam Hussein. L’appuntamento con le urne è stato anticipato di un anno rispetto alla data prevista a causa delle proteste antigovernative iniziate nel 2019. Il primo dato da sottolineare è che si è trattato delle elezioni meno partecipate della storia irachena, con un’affluenza del 41%. Il dato reale è tuttavia ancora più basso perché l’affluenza ufficiale indicata dal governo è calcolata come proporzione di votanti rispetto agli elettori registrati e non all’elettorato complessivo. Secondo Le Monde l’astensione ha avvantaggiato i partiti tradizionali, nonostante una nuova legge elettorale più favorevole ai candidati indipendenti, che sono comunque riusciti a ottenere 37 seggi.

 

Come ha scritto il New York Times molti dei manifestanti del 2019-2020 hanno boicottato le elezioni e pochi giovani hanno scelto di esprimere la loro preferenza. A poco sembrano dunque serviti gli appelli dell’ayatollah al-Sistani, che aveva invitato gli iracheni a recarsi alle urne, identificando nel voto – pur con tutti i limiti del caso – il modo migliore per evitare di cadere nel «caos e nel blocco politico». Come hanno scritto Zeina Karam e Qassim Abdul-Zahra per Associated Press, a uscire sconfitte dalle elezioni sono soprattutto le formazioni filo-iraniane, mentre la maggioranza relativa dei seggi è andata al movimento del chierico sciita nazionalista Moqtada al-Sadr. Buoni risultati sono stati ottenuti anche dallo speaker sunnita del Parlamento, Mohamed al-Halbousi, e dall’ex primo ministro Nouri al-Maliki, mentre la performance peggiore è quella del gruppo filo-iraniano Fatah, che ha perso più di metà dei suoi seggi. Amwaj Media ha pubblicato un’approfondita analisi del voto, che evidenzia alcune novità: nel cuore sciita dell’Iraq meridionale, per esempio, ha ottenuto un buon risultato Imtidad, un nuovo partito nato nell’alveo delle proteste del 2019. Imtidad, si legge, «rappresenta l’emergere di una nuova dinamica nella politica elettorale irachena». Inoltre – come ricordato anche da Fides – 4 dei 5 seggi riservati ai cristiani sono stati vinti dal “Movimento Babilonia”, braccio politico delle Brigate Babilonia e formazione ritenuta vicina alle milizie filo-iraniane.

 

I risultati si legge sempre su Associated Press, «accrescono le tensioni tra le fazioni sciite nel Paese, complicando potenzialmente la necessità dell’Iraq di bilanciare le sue alleanze» con Iran e Stati Uniti. Dimostrazione ne sia che ancora prima che i risultati fossero ufficiali il blocco politico che fa riferimento alle milizie filo-iraniane ha rifiutato l’esito delle elezioni, come ha scritto il Financial Times. Anche se Moqtada al-Sadr, che in campagna elettorale ha promesso di porre fine a tutte le influenze straniere nel Paese (inclusa quella iraniana), è ritenuto il vincitore delle elezioni, con i suoi seggi che sono passati da 54 a 73, la maggioranza dei 329 seggi del Parlamento iracheno è ben lontana. Saranno dunque necessari lunghi negoziati per dar vita a una coalizione di governo e secondo Sajad Jiyad, ricercatore della Century Foundation, non coinvolgere i partiti legati alle milizie sciite sarebbe un rischio, perché ci sarebbe da aspettarsi reazioni violente. Come riporta infatti al-Monitor, Abu Ali al-Askari, leader di Kataib Hezbollah, ha diramato un comunicato in cui ha invitato «le fazioni della resistenza armata a prepararsi per una fase critica». Date le reazioni delle milizie che hanno comunicato di non accettare i risultati delle elezioni, il futuro del Paese sarà deciso dal modo in cui le forze di sicurezza irachene e gli altri partiti politici reagiranno alle minacce di violenze post-elettorali, ha scritto Mina al-Oraibi su Foreign Policy. Al-Oraibi ha proseguito affermando che «non riuscire a limitare l’abilità delle milizie di colpire indebolirebbe non solo il processo elettorale ma anche l’infrastruttura della sicurezza e la governance dell’Iraq».

 

Sul piano regionale, nonostante le promesse di al-Sadr, «Teheran potrebbe continuare a giocare un ruolo cardine nel Paese, detenendo ancora un forte sostegno delle milizie sciite irachene ed esercitando un’influenza significativa in diverse amministrazioni locali», si legge sul sito del CeSi.

 

L’Etiopia nel “club” di Afghanistan, Siria e Libia

 

Largamente inosservato sui media italiani, negli ultimi giorni il conflitto nel Tigrè, regione settentrionale dell’Etiopia, ha subito una nuova escalation a causa del tentativo delle forze governative di rovesciare i successi ottenuti dalle forze ribelli del TPLF. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite il nuovo attacco acuirà la crisi umanitaria, anche a causa della scelta del governo di Abiy Ahmed di bloccare l’accesso ai convogli umanitari. L’assalto dovrebbe essere partito dalla regione Amhara, ma a causa del blocco delle comunicazioni imposto da Addis Abeba, ha scritto Declan Walsh sul New York Times, è molto difficile verificare le notizie e avere un quadro certo della situazione. L’ultimo World Economic Outlook pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale aiuta a comprendere quanto sia grave la situazione: l’Etiopia è infatti uno dei soli quattro Paesi al mondo per cui non è stato possibile fare previsioni sull’andamento del PIL, a causa dell’incertezza sul futuro. Gli altri tre sono Siria, Libia e Afghanistan.

 

Abiy Ahmed sembra sempre più isolato non solo a causa dello scontro con le Nazioni Unite, di cui ha espulso alcuni funzionari, ma anche per via dei difficili rapporti con gli Stati Uniti, che minacciano sanzioni a causa del conflitto nel Tigrè. Mamo Mihretu, consulente del primo ministro etiope, è intervenuto sulle colonne di Foreign Policy per chiedere che il presidente Joe Biden non rimuova l’Etiopia dai Paesi beneficiari dell’African Growth and Opportunity Act: secondo Mihretu questa mossa «peggiorerebbe solamente le condizioni dei comuni cittadini etiopi, che non hanno alcuna connessione con il conflitto nel Tigrè».

 

In breve

 

Un altro attentato ha colpito i fedeli sciiti in Afghanistan, questa volta a Kandahar. Sono più di 30 le persone decedute (BBC News).

 

Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha ricevuto in visita l’omologo talebano Amir Khan Muttaqi. Come ha scritto al-Jazeera, la Turchia dopo l’incontro ha invitato la comunità internazionale ad aiutare i talebani a far fronte alla crisi umanitaria.

 

Espen Andersen Bråthen, un cittadino danese convertito all’Islam, ha compiuto un attentato in Norvegia che ha causato la morte di cinque persone (CNN).

 

L’esercito nigeriano ha confermato l’uccisione di Abu Musab al-Barnawi, leader della provincia dell’Africa Occidentale dello Stato Islamico (New York Times).

 

Lunedì 11 ottobre, il nuovo primo ministro tunisino, Najla Bouden ha annunciato la formazione del nuovo governo. L’esecutivo, composto per un terzo da donne, è formato per lo più da tecnici (Le Monde).

 

 

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