Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:53:15

È passato un anno dall’esplosione del porto di Beirut, un evento che «segnerà per sempre la coscienza collettiva» del Libano, ha scritto Christophe Abi-Nassif nel forum organizzato per la ricorrenza dal Middle East Institute.

 

L’esplosione ha creato ulteriori difficoltà a un Paese già provato da diverse crisi sovrapposte. Ieri una folla di libanesi si è radunata nei dintorni del porto per commemorare le vittime e chiedere giustizia, ma a un anno di distanza la condizione del Libano non è migliorata, anzi. 

 

L’Orient-Le Jour spiega le difficoltà che sul fronte giudiziario sta incontrando Tarek Bitar, il magistrato che sta cercando di appurare le responsabilità del caso. Nei giorni successivi all’esplosione, 30 persone sono state ascoltate e si è scoperto che tutte erano a conoscenza del fatto che il nitrato d’ammonio era custodito nel magazzino poi esploso. Non solo: molte delle persone sentite avevano comunicato l’informazione ai propri superiori, i quali però, prosegue il quotidiano libanese, ora continuano a nascondersi dietro l’immunità parlamentare.  Raccontando la storia del fratello di una delle vittime dell’esplosione che ora ha fondato un’associazione che chiede giustizia per i responsabili, l’Associated Press descrive la situazione libanese in questi termini: «un sistema che si auto-tutela così intensamente da sembrare invulnerabile». L’inchiesta per trovare i responsabili dell’accaduto è molto diversa da quella per l’assassinio di Rafiq Hariri. In quel caso, infatti, sostanzialmente solo il partito dell’ex premier ha dovuto «assorbire il colpo», mentre ora tutte le parti del sistema sono in qualche modo coinvolte, ha sottolineato Abi-Nassif (Middle East Institute)

 

Secondo David Rosemberg (Haaretz) è opportuno focalizzare l’attenzione non solo sulla incapacità di individuare i responsabili, ma anche sull’incuria con cui è trattata la città, a cominciare dal sito dell’esplosione che è ancora un «ammasso di macerie». Anche L’Orient-Le Jour (versione inglese) si sofferma su questo punto: a un anno dall’esplosione nessuno sa esattamente a che punto sia il processo di ricostruzione delle aree distrutte: l’ente preposto a quest’impresa annovera 8436 progetti di ricostruzione “in corso” e solamente 59 completati.

 

Come documenta il New York Times, non è però solo Beirut a soffrire, ma tutto il Libano. L’esplosione al porto ha infatti accelerato la crisi del Paese, con la lira libanese che ha perso il 90% del suo valore e l’inflazione cresciuta nel 2020 di circa l’85%. Parte della crisi si può ricondurre all’incapacità della Banca Centrale di sostenere la valuta, scrive il quotidiano americano, anche a causa della diminuzione dei flussi di valuta straniera. Tutto questo ha generato una situazione in cui molti libanesi hanno dovuto eliminare la carne dalla propria dieta, trascorrere lunghe ore in coda per fare benzina, e soffrire la mancanza di elettricità per buona parte delle ore della giornata. Il New York Times sottolinea in particolare un aspetto: i blackout non sono una novità in Libano, ma finora l’utilizzo di generatori privati e la disponibilità di carburante per farli funzionare aveva in gran parte ridotto il problema. Ma ora il sistema si è rotto: il collasso della lira impedisce ai libanesi di acquistare il combustibile, e l’aumento della richiesta dei generatori ne ha causato un ulteriore crescita dei prezzi. La situazione è tale che una persona intervistata da Ben Hubbard ha affermato: «la cosa migliore per noi sarebbe che qualche Paese straniero venisse e ci occupasse, così avremmo elettricità, acqua e sicurezza». Chiaramente un’iperbole, ma evidenzia una delle poche speranze rimaste: l’aiuto esterno. Ci ha provato Emmanuel Macron all’indomani dell’esplosione del porto ma, come ricorda Ishaan Tharoor sul Washington Post, il presidente francese ha un’influenza minima sugli attori politici libanesi più rilevanti e non è riuscito a imporre la sua volontà.

 

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Anche la fenice è stata uccisa al porto

 

Questa settimana parliamo ancora del Libano e di come i quotidiani arabi hanno ricordato il primo anniversario dell’esplosione del porto di Beirut avvenuta il 4 agosto 2020.

 

 Al-Nahār, uno dei maggiori quotidiani arabofoni libanesi, ha fatto il punto delle indagini a un anno dall’incidente. La giornalista Manal Shaaya ha denunciato la condotta criminale del parlamento che in tutti questi mesi ha cercato di «“vanificare” il processo giudiziario» e i cui membri sono tuttora intoccabili continuando ad avvalersi dell’immunità parlamentare: «quando quel suono spaventoso ha scosso il cuore della capitale e del Paese anche i troni dei parlamentari hanno tremato, ma non sono ancora caduti». Shaaya ha ripercorso brevemente l’evoluzione del procedimento giudiziario – dalla nomina del giudice Fady Sawan, sollevato dall’incarico dopo aver mosso delle accuse contro i ministri delle Finanze, del Lavoro e della Giustizia e alcuni capi di governo, alla nomina del suo successore, il giudice Tariq al-Bitar, fino ad arrivare alla petizione parlamentare per portare il caso davanti al Consiglio Supremo per il Processo dei Presidenti e dei Ministri, e alla proposta di revocare l’immunità. Un sostanziale nulla di fatto è dunque il risultato di un anno di indagini. Fino a oggi ha avuto infatti la meglio la politica del rimpallo di responsabilità, ciò che al-Nahār ha scelto di rappresentare anche graficamente con un’immagine che riproduce tante braccia e dita puntate le une verso le altre nell’atto di incolparsi a vicenda.

 

Sullo stesso quotidiano un’altra immagine raffigura la tragedia di migliaia di ristoratori, albergatori e commercianti che non sono ancora riusciti a riaprire le loro attività andate distrutte nell’esplosione, simboleggiati da due uomini con le braccia alzate in segno di resa e le tasche avvolte nelle fiamme.  

 

Manar al-Jamil, siriana trapiantata a Beirut, ha raccontato sulla piattaforma indipendente Megaphone il suo 4 agosto 2020, il boato dell’esplosione udito a chilometri di distanza, il cellulare in mano per capire il destino dei suoi amici, e i ricordi delle esplosioni della guerra in Siria da cui era fuggita. Per lei, l’unico modo per non soccombere al ricordo delle deflagrazioni, è combattere i regimi. Non solo quello libanese – scrive la giovane attivista – ma anche il regime siriano, il cui presidente Bashar al-Asad potrebbe essere coinvolto nell’esplosione del porto secondo un’inchiesta pubblicata all’inizio del 2021.

 

Su Asās Media l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid ha commentato indignato le dichiarazioni rese il giorno dell’anniversario da alcuni quotidiani e rilanciate da Gebran Basil, genero del presidente Michel Aoun. I responsabili dell’esplosione del porto sarebbero innanzitutto i musulmani, sunniti e sciiti indistintamente, che si sono opposti alla revoca dell’immunità ai parlamentari. Al-Sayyid ha accusato Aoun di non avere a cuore l’interesse dei cittadini ma, col pretesto di difendere i diritti dei cristiani, di agire soltanto nel proprio interesse, e di odiare i libanesi e gli arabi sunniti benché questo non lo abbia mai detto apertamente.

 

Anche il quotidiano sciita libanese al-Akhbār ha dedicato ampio spazio all’anniversario, preparando un dossier di oltre 10 articoli e scagliandosi contro la leadership sunnita del Paese. Colpevoli del disastro, secondo il quotidiano, sarebbero «gli imperatori del regime che hanno continuato a gestire gli affari del Paese con la stessa mentalità, avidità e sfacciataggine» anche dopo l’esplosione del porto e «le “illusioni di Hariri”, fondate sul debito, sulla rendita e sulla corruzione […], che hanno reso la gente affamata, scalza e nuda» dopo che la bolla definita il “miracolo economico libanese” e “la Svizzera d’Oriente” è esplosa insieme al porto di Beirut. al-Akhbār ha inoltre denunciato il tentativo, tanto interno al Paese quanto dei policymaker e dei media occidentali, di isolare Hezbollah.

 

Uscendo dal Libano, l’anniversario della tragedia libanese è stato ricordato anche da diverse testate giornalistiche di altri Paesi arabi.

 

L’editorialista libanese Samir Atallah ha condiviso sul quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat i suoi ricordi di quell’infausto 4 agosto: la sede di al-Nahār, in cui si trovava in quel momento, gravemente danneggiata, la paura che quel boato fosse il preludio allo scoppio di una nuova guerra civile, il suo autista ferito, la difficoltà a trovare un taxi libero e il timore che la sua casa fosse andata distrutta.

 

Decisamente più sarcastico è invece il tono di Ernest Khoury, caporedattore di Al-‘Arabī al-Jadīd (quotidiano online con sede a Londra) per il quale «l’esplosione del porto di Beirut è l’incarnazione simbolica della fine di un Paese». Un Paese che in realtà era già finito molto tempo prima per diverse ragioni, tra cui l’incapacità dei libanesi di costruire una situazione politica nuova in cui il principio della cittadinanza sostituisse il confessionalismo. Ogni Paese, ricorda l’autore, si fonda su dei miti, alcuni dei quali possono soccombere agli eventi. Questa sorte è toccata al mito libanese della fenice che risorge dalle proprie ceneri. «La vostra cara fenice non esiste, e se è esistita, è tra gli uccelli che sono stati uccisi nel porto», ha scritto Khoury. A un anno dall’esplosione del porto che cosa rimane? La sua risposta è: una classe media in via di estinzione, un Paese prigioniero delle armi e di un partito, e una popolazione sempre più affamata.

 

Coerentemente con la sua visione geopolitica del Medio Oriente e la sua ostilità verso le milizie sciite sostenute dall’Iran, il quotidiano saudita al-Riyādh ha ricordato l’anniversario del 4 agosto con una vignetta in cui Hassan Narsrallah, leader di Hezbollah, abbandona, cappottata e in fiamme, l’auto (cioè il Libano) di cui era alla guida.

 

Rimando in tema di rapporti tra intra-musulmani, dall’Arabia Saudita arriva un’altra notizia importante. Mercoledì a Mecca presso la sede della Lega islamica mondiale si è riunito il “Forum dei riferimenti religiosi iracheni”. Come ha riportato il quotidiano locale Makka al-Mukarramah, l’incontro, patrocinato dalla Lega islamica mondiale, ha riunito i maggiori giuristi sunniti e sciiti (qui un breve video promozionale dell’incontro) al fine di rafforzare la fratellanza religiosa tra i due gruppi in un luogo sacro per entrambi, combattere il confessionalismo e l’estremismo religioso, e favorire la convivenza pacifica.

 

Raisi subentra a Rouhani. E deve subito fronteggiare molteplici crisi

 

Dopo le elezioni presidenziali, il neo-eletto Ebrahim Raisi aveva ammesso che la fiducia degli iraniani nei confronti delle istituzioni politiche della Repubblica Islamica era ai minimi termini, e che sarebbe stato suo compito invertire la rotta, focalizzandosi sul settore interno senza ricercare eccessivamente aiuti stranieri, ha ricordato Najmeh Bozorgmehr sul Financial Times. Il problema è che Raisi, da poco insediatosi come nuovo presidente, è subito costretto a fare i conti con diverse crisi: in politica estera, torna a crescere la tensione con Israele, dopo l’accusa nei confronti di Teheran di aver sabotato una petroliera nel golfo di Oman; a livello interno sono invece la situazione economica (con l’inflazione oltre il 40%), pandemica (con solo il 3% della popolazione vaccinato contro il Covid), e quella legata alla crisi idrica e alla mancanza di elettricità nel Kuzhestan a destare maggiori preoccupazioni. Raisi ha bisogno di risolvere rapidamente almeno una di queste situazioni per ottenere una “carta vincente” da presentare al pubblico nell’attesa che una grande decisione sia presa a Vienna, sede dei negoziati sul nucleare, ha affermato Saeed Laylaz. I negoziati dovrebbero riprendere dopo l’insediamento di Raisi, ma Ali Ahmadi offre un punto di vista differente: ciò a cui occorre prestare attenzione non è tanto quanto avviene nella capitale austriaca, bensì i colloqui che ci sono stati a Baghdad tra iraniani e sauditi. Del resto, lo stesso Raisi ha affermato che la sua priorità è prendersi cura delle relazioni con i Paesi vicini. Tuttavia, prosegue Ahmadi, il suo ruolo nella definizione della politica regionale sarà limitato, a causa della complessa architettura di decision-making iraniana.

 

La stabilità regionale interessa anche agli Stati Uniti. Come hanno sottolineato Maria Fantappie e Vali Nasr su Foreign Affairs, è del tutto evidente il cambiamento della strategia americana, per cui il Medio Oriente non è più una priorità. Ma – sottolinea l’analisi pubblicata sulla rivista americana – Washington vuole evitare quanto accaduto dopo il ritiro dall’Iraq nel 2011, quando il vuoto di potere lasciato contribuì all’ascesa di ISIS. Per questo Biden «deve trovare un modo di controbilanciare la riduzione dell’impegno militare [nell’area] con dei vantaggi in termini di stabilità regionale». Come? In questo Nasr e Fantappie concordano con Ahmadi: una delle migliori opportunità per farlo è fornita dai colloqui tra Iran e Arabia Saudita, anche se Riyadh e Teheran hanno obiettivi finali diversi.

 

Il percorso non è semplice perché la rapida diffusione di nuove tecnologie militari in tutto il Medio Oriente farà sì che l’evoluzione dei conflitti sia sempre più imprevedibile. E più questi conflitti saranno fuori controllo, più sarà alta la probabilità che gli Stati Uniti siano costretti a tornare a invischiarsi negli affari mediorientali.

 

Torniamo alla nave attaccata nel golfo di Oman. Secondo la BBC quanto avvenuto fa parte della “shadow war” in corso tra Israele e l’Iran. Israele, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno accusato Teheran di essere responsabile. Come spiega il Jerusalem Post, l’Iran ha un vantaggio nel colpire obiettivi israeliani o legati a Israele in mare: per la natura dei vascelli, la cui proprietà è legata a diversi Paesi, le operazioni in mare permettono all’Iran di attaccare senza dover per questo pagare un costo eccessivo a livello diplomatico. Per questo, scrive il quotidiano israeliano, «Israele necessita di una nuova dottrina affinché la Marina possa estendere il suo ombrello protettivo, o una nuova rappresaglia». E non a caso Naftali Bennett ha ricordato che «l’Iran conosce il prezzo che esigiamo quando qualcuno minaccia la nostra sicurezza» e che se da un lato Israele lavora per ottenere il sostegno internazionale, dall’altro «sa anche come agire da solo».

 

Tunisia ancora senza governo

 

Dopo che la settimana scorsa aveva preso i pieni poteri in Tunisia, Kais Saied in questi ultimi giorni ha proseguito la sua opera di «lotta alla corruzione», rimuovendo numerosi funzionari, tra cui il governatore della regione di Sfax e l’ambasciatore negli Stati Uniti. Come ha evidenziato il Financial Times la gran parte dei cittadini approva le mosse del presidente, ma alcuni hanno avanzato paralleli tra quanto sta avvenendo in Tunisia e l’ascesa di al-Sisi in Egitto. Tuttavia, come ha spiegato Magdi Abelhadi sulla BBC, vi sono significative differenze tra i due casi, a cominciare dal fatto che in Tunisia sono presenti una forte società civile e un importante sindacato.

 

E proprio il sindacato dei lavoratori (UGTT) martedì ha richiesto che Saied nomini rapidamente («non possiamo aspettare 30 giorni») un nuovo primo ministro e un governo agile e guidato da una figura di esperienza. Per ora il presidente Saied non ha sciolto i dubbi riguardo l’evoluzione della situazione, anche se sembra che le figure più accreditate per il ruolo di premier siano il governatore della banca centrale Marouane Abbasi e due ex ministri dell’economia, Hakim Hammouda e Nizar Yaich. Qualcuno si chiede intanto se con questa crisi cambierà anche il ruolo dell’esercito tunisino, tradizionalmente apolitico. Lilia Blaise, corrispondente da Tunisi di Le Monde, riporta le parole di un alto ufficiale in pensione, secondo il quale «il colpo di forza del presidente è stato accolto con un certo sollievo», anche se «alcuni sono preoccupati dalla concentrazione del potere» nelle sue mani.

 

Afghanistan: prosegue l’avanzata talebana

 

Continua apparentemente senza sosta l’avanzata dei talebani in Afghanistan. Un approfondimento della BBC, in costante aggiornamento, mostra quali province del Paese sono controllate dalle forze governative, quali dai talebani e quali sono quelle in cui sono in corso dei combattimenti. I riflettori sono puntati in particolare sulle città di Kunduz, Herat, Kandahar e Lashkar Gah: secondo il Washington Post fino a poco fa i combattimenti erano limitati soprattutto alle zone rurali o alle città più piccole, mentre ora siamo di fronte a un attacco su vasta scala che mette in pericolo milioni di persone. A Lashkar Gah, dove aveva sede il quartier generale delle truppe inglesi nell’Helmand, i combattimenti sono particolarmente intensi e sembrerebbe che i talebani abbiano assunto ora il controllo della maggioranza dei distretti.

Effetto collaterale dell’incapacità dell’esercito afghano di presidiare il territorio è il ritorno dei signori della guerra e delle loro milizie. A Herat l’ormai settantacinquenne Ismail Khan ha organizzato un gruppo di combattenti per fermare l’avanzata talebana. Intervistato da Foreign Policy, ha detto: «i talebani non sono cambiati, e non cambieranno mai».

 

In breve

 

I corpi di circa 50 persone sono stati rinvenuti in Sudan sulle rive del fiume Tacazzè. Si tratterebbe di persone che erano coinvolte nella guerra in corso nel Tigray, scrive il Guardian.

 

L’inflazione in Turchia ha raggiunto un nuovo livello record e secondo al-Monitor questo dovrebbe ritardare la decisione di tagliare i tassi di interesse.

 

The Africa Report dedica un approfondimento alla comunità Sheedi: si tratta di persone di origine africana (circa 250.000) la cui presenza in Pakistan potrebbe risalire all’VIII secolo, quando furono portate nel Paese come schiavi dai commercianti arabi. Oggi i membri di questa comunità non sono ancora accettati in Pakistan.

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