Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:58:13

 

Non è bastato che Beirut sia stata devastata da una delle più grandi esplosioni non nucleari della storia e che le famiglie delle vittime non abbiano potuto conoscere i responsabili della tragedia. Non è servito che il Paese sia precipitato in una delle peggiori crisi economiche degli ultimi centocinquant’anni, con la lira che ha perso il 90% del suo valore e l’inflazione al 600% per alcuni beni essenziali. Neppure è stato sufficiente che più di tre quarti della popolazione sia sprofondata sotto la soglia di povertà. Né che gli ospedali, a corto di medicinali ed elettricità, facciano fatica a fornire cure. Ci sono voluti ben tredici mesi e due mandati esplorativi per dare un nuovo governo al Libano.

 

Najib Mikati ha annunciato la formazione del nuovo gabinetto venerdì scorso in un discorso accorato che ha convinto pochi, e per vari motivi. Ma come si è arrivati alla composizione del nuovo esecutivo? L’Orient-Le Jour tira le fila della trama che avrebbe finalmente permesso di superare lo stallo, grazie ai compromessi raggiunti tra Beirut e Baghdad, Teheran e Washington. Alcuni lo hanno soprannominato il governo “Macron-Raisi,” perché la partecipazione del presidente francese al summit di Baghdad del 29 agosto si sarebbe dimostrata fondamentale per trovare con Teheran un accordo sulla necessità di ridare una guida al Libano.

 

Washington ha per lo più delegato la vicenda alla Francia, scrive Foreign Policy, preferendo reagire agli eventi piuttosto che agire. In mancanza di un piano, l’amministrazione Biden si è limitata a chiudere un occhio sulle importazioni di gas egiziano attraverso la Giordania e la Siria in violazione al Caesar Act e sembra voler fare lo stesso con i carichi di gasolio iraniano giunti attraverso la Siria giovedì. Più che arginare l’influenza dell’Iran in Libano, gli Stati Uniti sembrano disposti a scenderci a patti pur di mantenere l’economia libanese a galla, mandando allo stesso tempo un messaggio collaterale: le sanzioni potrebbero essere rimosse se presto si arriverà a un accordo sul nucleare.

 

In virtù dell’accordo sull’importazione di carburante iraniano, Hezbollah ha potuto ergersi a salvatore della crisi energetica, ma il suo ruolo è stato determinante anche nella crisi politica, come ha rilevato Michael Young per il Carnegie. L’influenza esercitata congiuntamente dal “partito di Dio” e dall’Iran sul genero del presidente Aoun, Gebran Bassil, avrebbe convinto quest’ultimo a rinunciare alla pretesa di controllare un numero di ministri tale da concedergli potere di veto sul governo e assicurarsi una successione alla presidenza nel prossimo futuro.

 

Allora perché non salutare il nuovo governo con ottimismo? Il valore della lira rispetto al dollaro è subito aumentato e il Fondo Monetario Internazionale ha risposto positivamente alla volontà dichiarata dal governo di tornare al tavolo delle trattative sbloccando una serie di finanziamenti salvavita. Tuttavia, gli osservatori sembrano condividere un forte scetticismo. Il quotidiano israeliano Haaretz osserva che, a differenza di quanto professa, il nuovo esecutivo è tutt’altro che tecnocratico, ma formato da personalità strettamente legate alla classe dirigente. Questo non lascia molte speranze sulla possibilità di intaccare in qualche modo gli interessi delle élite, né di dar seguito alle riforme necessarie a superare la crisi, ma solo a quelle mirate a vincere le prossime elezioni previste per il 2022.

 

Secondo il saudita Arab News, il discorso rotto dalle “lacrime di coccodrillo” con cui Mikati ha annunciato il nuovo governo è l’emblema di una classe dirigente costretta a giocarsi la carta della disperazione. Se all’inizio delle proteste del 2019 la società civile aveva invocato con determinazione una ristrutturazione profonda del sistema politico e una classe politica onesta e preparata, ora la popolazione è disposta ad accettare tutto, impegnata com’è a cercare disperatamente di soddisfare i propri bisogni essenziali.

 

Solo l’emiratino The National spezza una lancia a favore del nuovo governo. È meglio di niente, titola un editoriale: «il nuovo gabinetto non salva il Libano, né lo rappresenta. Ma, per la prima volta in mesi, la crisi del Paese ha per lo meno rallentato».

 

Gli accordi di Abramo compiono un anno

 

È tempo di bilanci per gli Accordi di Abramo, che il 15 settembre hanno compiuto un anno. Quali risultati ha raggiunto finora la normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, seguita a breve distanza da Bahrain, Marocco e Sudan?

 

Secondo il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid e il suo omologo emiratino Abdullah bin Zayed al-Nahyan gli accordi si sono dimostrati straordinariamente solidi e di successo nonostante la pandemia e la guerra dello scorso maggio tra Gaza e Israele. «I governi possono fare accordi, ma gli Emiratini e gli Israeliani ci stanno mostrando come le persone possano fare la pace» hanno scritto in un intervento congiunto sul Financial Times, aggiungendo che i due Paesi «stanno rapidamente infrangendo barriere motivati da interessi condivisi e valori comuni». E non fanno mistero del fatto che gli interessi in questione siano eminentemente economici, sottolineando come il «nuovo linguaggio di pace» sia quello dell’innovazione, della tecnologia e degli investimenti e possa servire come modello da estendere all’intera regione attraverso l’integrazione economica.

 

La narrazione che accompagna gli accordi di normalizzazione riflette i cambiamenti di strategia dei rispettivi Paesi e le trasformazioni geopolitiche a livello globale. Non a caso il ministro dell’economia degli Emirati ha annunciato che Abu Dhabi si aspetta di incrementare i rapporti economici con Tel Aviv di mille miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Il ministro delle finanze ha inoltre dichiarato di aver preparato una fitta agenda per concludere accordi commerciali con otto diversi Paesi entro il prossimo anno.

 

Gli Accordi di Abramo hanno inaugurato un nuovo corso politico ad Abu Dhabi, osserva David Ignatius sul Washington Post, che da “piccola Sparta” punta ora a presentarsi come una “piccola Singapore”, prediligendo il dialogo e i rapporti commerciali bilaterali alla postura proattiva e aggressiva che aveva consolidato nei confronti del fronte iraniano e dei partiti islamisti. La strategia “zero problemi” degli Emirati ha recentemente consentito di stabilizzare i rapporti con l’Iran, la Turchia e il Qatar e di ritirarsi dai conflitti in Yemen e Libia.  Il cambio di rotta riflette l’approccio di Washington a livello globale, in un momento in cui gli Stati Uniti si stanno ritirando dalle “guerre infinite” del Medio Oriente allargato, riorientando la propria politica estera verso la competizione nel Pacifico.

 

Molti osservatori hanno notato come l’amministrazione Biden abbia fatto ben poco per celebrare l’anniversario degli accordi e rivendicarne il patrocinio. Solo dopo che gli ambasciatori di Emirati, Bahrain, Marocco, Sudan e Israele sono stati invitati a un evento organizzato da Jared Kushner e le Nazioni Unite hanno sponsorizzato un appuntamento simile con i rappresentanti dei Paesi interessati, Anthony Blinken ha annunciato un incontro online per commemorare la firma degli accordi. La mancanza di entusiasmo di Biden è dovuta al suo tentativo di riavvicinare i Palestinesi, ma mira soprattutto a evitare di dare rilievo al più importante successo diplomatico dell’amministrazione Trump, suggerisce Jonathan H. Ferziger su Foreign Policy, notando come la nuova amministrazione li chiami sempre e solo “accordi di normalizzazione,” sorvolando sistematicamente sul riferimento ad Abramo.

 

Ma oltre ad essere importanti sul piano economico, gli accordi hanno influenzato in altro modo le relazioni intraregionali? Secondo Gili Cohen, corrispondente dell’emittente nazionale israeliana Kan, gli accordi non sono ancora andati oltre il mutuo interesse turistico, non riuscendo a creare relazioni significative oltre a quelle tra le personalità che lo hanno sponsorizzato. Al contrario, il Jerusalem Post ha presentato gli Accordi di Abramo come un modello da cui trarre una lezione per risolvere conflitti in tutto il mondo e insegnare alle Nazioni Unite a non imporre decisioni affrettate. Jeremy Pressman, intervenendo su Foreign Affairs, sostiene che la più importante conseguenza degli accordi tra Israele e i firmatari arabi è quella di aver superato un tabù. Le relazioni arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese da allora viaggiano su due binari nettamente divergenti.

 

Al-Sisi incontra Bennett a Sharm el-Sheikh

 

Gli Accordi di Abramo sembrano peraltro aver influenzato anche la pace fredda tra Israele ed Egitto. Dopo poche settimane dall’invito del governo egiziano, lunedì il premier israeliano Bennet ha incontrato al-Sisi a Sharm el-Sheikh.

 

Perché è importante? Innanzitutto, si è trattato di un appuntamento ufficiale. Dal 1979 a oggi i rapporti tra Egitto e Israele non si sono mai interrotti, ma sono sempre stati coltivati lontano dai riflettori. Inoltre, l’ultimo incontro pubblico risale a più di dieci anni fa, quando Netanyahu visitò Hosni Mubarak. 

 

Sui motivi e i contenuti dell’incontro i media hanno restituito resoconti contrastanti. Sul sito della qatariota Al Jazeera si legge che la priorità era discutere la situazione della Striscia di Gaza, dei razzi di Hamas e dei piani di ricostruzione. Secondo l’analista strategico di Haaretz Amos Harel, la lista di argomenti presentata da al-Sisi era piuttosto estesa e includeva l’assistenza nei rapporti con gli Stati Uniti, una mediazione sulla questione della diga etiope e i rapporti bilaterali economici. Il settimanale egiziano Al-Ahram Weekly riporta un’altra versione: la priorità del Cairo sarebbe stata la questione palestinese e la soluzione di pace a due Stati.

 

Per Bennet si è trattato del secondo atto del successo registrato a fine agosto a Washington, dove Biden deve aver caldeggiato l’eventualità di un incontro tra le due parti. Da parte israeliana sembra aver prevalso il tema della Striscia di Gaza. Sulla scia degli Accordi di Abramo, Lapid ha inaugurato la politica dell’«economia in cambio di sicurezza», secondo la quale migliorare le condizioni di vita dei Palestinesi scongiurerebbe tensioni e scontri militari e rimanderebbe qualsiasi necessità di negoziare un accordo di pace. Il ministro degli esteri israeliano ha svelato un piano di investimenti nella Striscia di Gaza e la Knesset ha approvato un piano di finanziamenti strutturali per i settori arabi e per la Cisgiordania. L’Egitto di al-Sisi è felice di cooperare, condividendo il desiderio di contenere Hamas e considerando un’opportunità di sviluppo economico la ricostruzione della Striscia.

 

Ma il presidente egiziano aveva mire ben più importanti: presentarsi come mediatore e ristabilire il ruolo dell’Egitto a livello regionale, liberandosi, soprattutto agli occhi di Washington, dall’immagine di dittatore, si legge sul Jerusalem Post. Secondo Annelle Sheline, che scrive sul Responsible Statecraft, Israele ha invitato l’amministrazione Biden a mettere da parte le pretese sulle violazioni dei diritti umani per evitare che i partner arabi come l’Egitto si avvicinino a Iran, Russia e Cina. All’amministrazione Biden è bastato l’incontro di al-Sisi con Bennett e la pubblicazione della Strategia Nazionale egiziana per i Diritti Umani per sbloccare i 170 milioni di dollari trattenuti dagli aiuti militari al Cairo, accusa Mohamed Soltan sul Washington Post.


 

Nel frattempo, Patrick Zaki è stato rinviato a giudizio. Dopo 19 mesi di detenzione preventiva, il giovane ricercatore dell’Università di Bologna è stato accusato di diffondere notizie false. Il corpo del reato? Un articolo del 2019 in cui Zaki descriveva le discriminazioni di cui i cristiani copti sono regolarmente vittime in Egitto. «Per un'ironia della sorte, l'incriminazione di Zaki arriva il giorno dopo il lancio della strategia statale sui diritti umani» ha sottolineato una dichiarazione congiunta di dieci organizzazioni per i diritti umani, e per giunta «dopo che il presidente ha parlato a lungo del diritto alla libertà di religione e credo e del diritto all'uguaglianza». 

 

Rassegna dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

L’anniversario degli accordi di Abramo, l’Islam arabo e l’Islam asiatico, la crisi politica tunisina

 

La stampa emiratina ha celebrato il primo anniversario degli accordi di Abramo, firmati il 15 settembre 2020, con i quali gli Emirati hanno normalizzato le loro relazioni con Israele. Al-‘Ayn al-Ikhbāriyya è il quotidiano che ha dato maggior risalto all’evento. In maniera piuttosto curiosa, il giornale di Abu Dhabi ha presentato gli accordi di Abramo come segno dell’impegno emiratino per la causa palestinese. “Una vittoria emiratina eterna per la Palestina” ha titolato, spiegando che «con la firma dello storico accordo gli Emirati sono riusciti a fermare l’annessione delle terre palestinesi da parte di Israele». L’anniversario diventa così un’occasione per tentare di riabilitare l’immagine degli Emirati agli occhi dei musulmani che l’autunno scorso avevano accusato il Paese di voltare le spalle alle cause arabe preferendo allearsi con il nemico israeliano. La via della pace passerebbe dunque attraverso il dialogo anziché il boicottaggio. Un altro articolo pubblicato sullo stesso quotidiano ha definito gli accordi di Abramo il «treno della pace», un treno sul quale sono saliti anche altri Paesi (il Bahrein, il Sudan e il Marocco) e che riflette la visione emiratina di gestione dei conflitti, «fondata sulla moderazione, sulla tolleranza e sulla superiorità della cultura del dialogo come mezzo efficace per favorire l’avvicinamento [tra i popoli] e portare la pace».

 

I maggiori quotidiani panarabi invece su questo tema sono rimasti pressoché in silenzio. Al-Jazeera si è limitata a riportare i commenti negativi di alcuni attivisti arabi contrari alla normalizzazione, al-Sharq al-Awsat ha ignorato la ricorrenza mentre al-Quds al-Arabī l’ha ricordata rapidamente definendo gli accordi di Abramo «una via priva di significato e non percorribile».  

 

Se gli Emirati si presentano come elemento trainante della pace in Medio Oriente, l’Arabia Saudita si percepisce da sempre come rappresentante dell’Islam in virtù della presenza sul suo territorio dei luoghi sacri di Mecca e Medina. Questo primato tuttavia viene sempre più messo in discussione. Lo ha fatto il quotidiano al-Arabī al-Jadīd con una riflessione sul tema della rappresentanza islamica e sul ruolo giocato in questo senso dall’Organizzazione della Cooperazione islamica, un’istituzione nata nel 1969 con l’obbiettivo di salvaguardare gli interessi delle popolazioni musulmane nel mondo. Con sede a Jedda, in Arabia Saudita, l’organizzazione sulla carta rappresenta infatti 56 Paesi a maggioranza islamica. Ma di fatto, spiega l’analista egiziano Mamduh al-Shaykh, l’istituzione non li ha mai davvero rappresentati tutti ed è rimasta sempre un passo indietro rispetto agli eventi al punto di diventare quasi anacronistica. All’Organizzazione viene contestato di essere troppo Golfo-centrica e di concentrarsi soprattutto sul dibattito interno all’Islam arabo a discapito dell’Islam asiatico. Un problema non da poco dal momento che i musulmani asiatici sono ben più numerosi di quelli arabi. E comunque, spiega al-Shaykh, i problemi dei musulmani del Medio Oriente e del Nord Africa non sono quelli delle popolazioni islamiche asiatiche. Anzi, in futuro le loro traiettorie sono destinate a incrociarsi sempre meno: gli arabi «stanno perdendo gli ultimi margini di libertà di espressione e azione democratica e si avviano verso il rifiuto della presenza religiosa nello spazio pubblico, mentre l’Asia minore, l’Asia Centrale e l’Indonesia stanno assistendo alla nascita di regimi politici meno autoritari e più propensi ad accettare l’esistenza di forze politiche che hanno un riferimento religioso». Certo, non tutti sarebbero d’accordo con quest’ultima affermazione: la Turchia, tanto per rimanere nell’Asia minore, non può infatti dirsi un regime meno autoritario di tanti altri governi del Medio Oriente.   

 

Rimanendo in tema di derive autoritarie, continua il dibattito sulla crisi politica tunisina dopo che sabato scorso il presidente Kais Saied ha annunciato di voler emendare la Costituzione del 2014. Sono soprattutto i media ostili al capo dello Stato tunisino a farsi sentire. Il quotidiano al-Quds al-‘Arabī ha proposto un approfondimento sui meccanismi su cui potrebbe far leva Saied per introdurre le riforme costituzionali e trasformare il Paese in un sistema presidenziale. Uno di questi è il referendum. Al-Arabī al-Jadīd l’ha definito «uno strumento adottato dai regimi dittatoriali più che dalle democrazie» portando l’esempio di Hitler, che vi fece ricorso ben 5 volte in pochi anni. La riforma costituzionale spaventa perché viene percepita come il tentativo di «riportare in auge la tirannia facendola entrare attraverso le porte del sistema presidenziale».

 

In breve

 

A pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo in Afghanistan, una resa dei conti all’interno dei talebani sta mettendo ai margini la leadership più pragmatica, come riporta Bloomberg. Questo potrebbe avere delle ripercussioni anche sul ruolo che negli anni si è ritagliato il Qatar, scrive su Middle East Eye Andreas Krieg.

 

In Tunisia, il presidente della Repubblica Kaies Saied ha dichiarato che un nuovo governo sarà annunciato entro breve e ha manifestato la volontà di riformare la Costituzione, come riportato tra gli altri da Reuters.

 

L’emiro del Qatar sheikh Tamim, l’erede al trono saudita Mohammed Bin Salman e l’influente consigliere per la sicurezza nazionale di Abu Dhabi sheikh Tahnoon Bin Zayed si sono incontrati sul Mar Rosso, riferisce al-Arabiya.

 

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