Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:26:09

Questa settimana abbiamo assistito a una nuova intensificazione degli attacchi (inclusi quelli sui civili) in Ucraina: le persone in coda per prendere il pane a Chernihiv, quelle morte nell’attacco sulla piazza del mercato a Kharkiv e il bombardamento al teatro-rifugio di Mariupol. E mentre avveniva tutto questo, emergevano timidi segnali positivi dai negoziati in corso, con il Financial Times che pubblicava un piano in 15 punti per raggiungere un accordo sul futuro status dell’Ucraina (poi respinto da Kyiv, che l’ha sminuito definendolo soltanto la posizione russa). Non si sa se il negoziato porterà a qualcosa. A essere purtroppo certo è che la guerra diventa sempre più violenta.

Le scelte e le tattiche militari adottate da Mosca in Ucraina richiamano i fantasmi dell’assedio di Aleppo. Come ha ricordato Aj Naddaff (Associated Press), in Siria la strategia russa e di Bashar al-Assad è stata quella di cingere d’assedio le città o le zone in controllo dei ribelli, «bombardandole e riducendole alla fame fino a quando è collassata la capacità della popolazione di resistere». Una strategia brutale che, oggi, sembra essere proprio quella adottata per conquistare la città portuale di Mariupol. E il timore è che questo modus operandi venga presto esteso ad altre città.

 

Le analogie con la Siria non finiscono purtroppo qui. Come ha scritto Ben Hubbard sul New York Times, in Siria Putin ha imparato alcune lezioni. La prima è che «le “linee rosse” stabilite dall’Occidente possono essere attraversate senza conseguenze di lungo termine»; la seconda è invece che «gli autocrati possono fare cose terribili, subire sanzioni internazionali e tuttavia rimanere al potere», proprio come sta facendo Assad. A fronte di queste lezioni, Emile Hokayem, analista dell’International Institute for Strategic Studies, ritiene che siano due le mosse che Putin potrebbe mutuare dall’esperienza siriana: i continui negoziati portati avanti solo per distogliere l’attenzione dalla guerra sul terreno, e la creazione deliberata di flussi di profughi per mettere in crisi l’Europa.

 

C’è poi il capitolo “volontari siriani”. La notizia che è rimbalzata su tutti i media recitava più o meno così: 16.000 combattenti siriani raggiungeranno l’Ucraina per combattere al fianco della Russia.  Tuttavia, come ha spiegato bene Gregory Waters sul sito del Middle East Institute, queste indiscrezioni si basano su «mezze verità, quando non su palesi falsità». A cominciare dal fatto che le unità più strettamente legate alla Russia e che quindi potrebbero essere spostate in Ucraina non avrebbero «nessuna speranza contro il moderno esercito ucraino». Inoltre, il loro trasferimento indebolirebbe i proxies russi nella zona, facendo contemporaneamente aumentare il sentimento anti-russo tra coloro che si renderebbero conto di essere semplicemente mandati al macello. Se i mercenari siriani dovessero quindi finire in Siria, conclude Waters, si tratterebbe di piccoli numeri di «individui, non intere unità militari».

 

Nel frattempo, una partita parallela si gioca tra l’Occidente e i Paesi mediorientali produttori di petrolio. Il cuore della questione è la natura delle relazioni tra l’Occidente (Stati Uniti in particolare) e i Paesi del Golfo, in primis Arabia Saudita. Gli americani chiedono alle petromonarchie di schierarsi contro la Russia e di aumentare la produzione di petrolio per frenare il rialzo dei prezzi. Richieste che al momento tanto Riyad quanto Abu Dhabi non sembrano intenzionate ad accogliere. Al contrario, è soprattutto l’Arabia Saudita che in quest’ultima settimana ha scelto di mandare segnali precisi all’amministrazione Biden. Il primo è l’esecuzione di 81 persone condannate per terrorismo. Una notizia a cui le istituzioni pubbliche occidentali hanno reagito molto timidamente, temendo di irritare Mohammed Bin Salman. Perché si tratterebbe di un messaggio a Biden? Perché l’amministrazione democratica americana ha fatto del rispetto dei diritti umani un argomento chiave della sua narrazione (per fare un esempio: in campagna elettorale Biden affermò che l’Arabia Saudita avrebbe dovuto essere un «paria» a causa dell’uccisione di Jamal Khashoggi). Un’esecuzione di massa mentre Biden ha bisogno di Riyad appare perciò come l’ennesima sfida al presidente americano (ricordiamo il rifiuto di intrattenere un colloquio telefonico). E non finisce qui: la scena si è replicata con il premier britannico. Infatti, proprio mentre Boris Johnson si trovava a Riyad per discutere di petrolio le autorità saudite hanno giustiziato altre tre persone, una notizia che non ha impedito a Johnson di affermare che quanto al rispetto dei diritti umani «le cose stanno cambiando in Arabia Saudita».

 

Una piccola parentesi: è evidente la necessità di affrancarci dalla dipendenza di idrocarburi russi, e nel breve periodo il petrolio va trovato dove ce n’è, ovvero nel Golfo, ma siamo davvero sicuri che gettarci tra le braccia dei sauditi sia garanzia di un futuro migliore? Chiusa parentesi.

 

Naturalmente, i diritti umani sono solo uno dei tanti motivi di frizione tra Arabia Saudita e Stati Uniti: come ha riportato il Wall Street Journal, Riyad sta negoziando con la Cina i pagamenti delle vendite di petrolio, che per la prima volta potrebbero avvenire non in dollari bensì in yuan cinesi. Si tratterebbe «di un altro spostamento verso l’Asia del più importante esportatore di petrolio al mondo» e di un potenziale colpo al dominio globale del dollaro. La Cina compra infatti il 25% del petrolio venduto dall’Arabia Saudita e se le transizioni avvenissero in renminbi questo contribuirebbe ad aumentare l’importanza della valuta cinese. Non è detto che l’indiscrezione si traduca in realtà, perché sarebbero molti i rischi per l’Arabia Saudita, ma il fatto che se ne parli proprio ora va interpretato come un ulteriore segnale che Riyad recapita a Washington.

 

Di certo a Washington non sono entusiasti delle scelte saudite ed emiratine, come dimostra il rinvio del viaggio nel Golfo che il segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe dovuto compiere a marzo.

 

Dobbiamo quindi concludere che Arabia Saudita ed Emirati Arabi hanno preso le parti della Russia? Non esattamente: secondo un’analisi pubblicata da Cinzia Bianco (ECFR) le monarchie del Golfo «non considerano la Russia un partner strategico». Per questo motivo la scelta dei Paesi del Golfo di non prendere apertamente le parti dell’Occidente non va ricondotto a un effettivo allineamento con la Russia, quanto piuttosto a movimenti opportunistici necessari nel «nuovo ordine mondiale multipolare [che mirano a] evitare i costi di un allineamento strategico». Una sorta di «hedging» estremo.

 

«Back on track». Verso l’accordo sul nucleare iraniano?

 

Chi potrebbe immettere petrolio sul mercato è l’Iran, qualora le sanzioni venissero rimosse (ed è anche questa eventualità a generare tanto fastidio nelle capitali arabe del Golfo). Durante lo scorso week end i segnali sono stati pessimi. Teheran ha infatti lanciato una salva di 12 missili balistici nel nord dell’Iraq, non lontano da una base americana, fortunatamente senza provocare vittime. L’attacco è stato rivendicato dalle guardie rivoluzionarie, che l’hanno giustificato come una ritorsione per l’uccisione di due iraniani in Siria da parte di Israele. L’obiettivo, affermano gli iraniani, sarebbe stato un complesso nel Kurdistan iracheno in cui opererebbe una struttura del Mossad. Secondo The National Interest si tratterebbe di un’azione che ha alcuni precedenti nell’aprile e nel settembre 2021. L’impressione iniziale è stata che l’attacco avrebbe provocato la fine dei negoziati sul nucleare. Eppure, come ha scritto al-Monitor, i colloqui sono «di nuovo in pista» e – fonte Wall Street Journall’accordo è «a portata di mano», grazie anche all’allentamento delle richieste russe. A cosa si deve questa accelerata? Come ha osservato Esfandyar Batmanghelidj, «l’Iran non lascerà morire [le trattative per] l’accordo [ora che sono] a uno stadio così avanzato, specialmente se la causa del fallimento è un capriccio russo». È per questo che il ministro degli esteri Amirabdollahian è volato a Mosca, da dove ha sottolineato che la Russia non porrà ostacoli alla conclusione dei negoziati, posizione corroborata poi dalle dichiarazioni di Sergej Lavrov, che ha comunicato di aver ricevuto dagli Stati Uniti le garanzie richieste.

 

Un altro sviluppo positivo si è registrato mercoledì quando Teheran ha liberato, grazie anche alla mediazione omanita, due giornalisti anglo-iraniani detenuti da anni, Nazanin Zaghari-Ratcliffe e Anoosheh Ashoori.

 

Una buona notizia a cui ne è immediatamente seguita un’altra: Jonathan Tirone di Bloomberg ha avuto accesso a un documento riservato dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (poi confermato da diverse fonti) secondo cui l’Iran sta rimuovendo uno degli ultimi ostacoli alla firma dell’accordo. Si tratta della conversione di una parte dell’uranio che durante il periodo di interruzione del JCPOA ha arricchito al 60% in isotopi utilizzati per attività sanitarie. Il materiale prodotto con la conversione, ha affermato Robert Kelley, ingegnere nucleare americano, non è più utilizzabile per la produzione di armi perché non può subire ulteriori processi di arricchimento. Non resta che aspettare.

 

Tra una mediazione e l’altra

 

Solo nell’ultima settimana Erdogan ha incontrato Jens Stoltenberg, Olaf Scholz, Isaac Herzog e Kyriakos Mitsotakis. A questi si aggiunge la telefonata di Biden. Segno evidente di una rinnovata centralità turca nel panorama internazionale dovuto al tentativo di mediazione in Ucraina, scrive al-Monitor. Ma mentre lo status internazionale della Turchia si rafforza, l’alleanza di governo composta dal partito AKP e dai nazionalisti dell’MHP ha svelato un piano per modificare le leggi elettorali. Secondo il Financial Times le modifiche proposte impedirebbero ai partiti di opposizione di prendere il controllo del parlamento, che rimane fondamentale per il processo legislativo. Inoltre, se il progetto di legge venisse approvato, è possibile che le elezioni presidenziali e parlamentari previste per giugno 2023 vengano rinviate, dal momento che servirebbero 12 mesi per l’entrata in vigore delle nuove regole elettorali.

 

Irritate con Washington, Abu Dhabi e Riyad strizzano l’occhio a Mosca

Rassegna della stampa araba a cura di Michele Brignone

 

I giornali arabofoni sauditi ed emiratini non fanno niente per nascondere le tensioni esplose tra Riyad e Abu Dhabi da un lato e Washington dall’altro intorno alla guerra in Ucraina. Emblematica la requisitoria lanciata contro gli Stati Uniti dal giornalista libanese Nadim Qutaysh sul quotidiano panarabo londinese, ma di proprietà saudita, Al-Sharq al-Awsat. Il Medio Oriente, ha scritto Qutaysh il 15 marzo, «non è marginale come invece si sono immaginati a Washington a partire dall’amministrazione Obama. Persino l’amministrazione Trump si è limitata a escogitare una soluzione al problema israelo-palestinese, sminuendo l’importanza strategica di questo insieme di Paesi e di società. La realtà è diversa, ed è quello che ha scoperto a caro prezzo l’amministrazione Biden alla luce della guerra russo-ucraina e del bisogno impellente di regolare i prezzi del petrolio. Tra i paradossi più sorprendenti vi è il fatto che l’amministrazione Biden, la quale solo qualche mese fa sollevava il tema delle emissioni tossiche e dell’energia pulita al vertice sul clima, […] è la stessa che invita chi ne ha la possibilità a immettere più petrolio sul mercato solo perché lo esigono i suoi interessi». Qutaysh lascia intendere anche quale sia il problema di fondo: «L’opportunismo morale è il modo più facile per distruggere le basi della stabilità del Medio Oriente, mentre la Cina avanza strategicamente a scapito di un’America alle prese con l’agenda dei diritti umani e con il loro uso politico selettivo. Solo il ritorno ai fondamenti economici, securitari e politici delle relazioni tra Washington e gli Stati del Golfo ripristinerà la stabilità».

 

Il ragionamento è ribadito dal giornalista iracheno ‘Ali al-Sarraf su Al-‘Arab, un altro quotidiano panarabo edito a Londra e vicino alla sensibilità emiratina: «la questione non è la posizione [di Arabia Saudita ed Emirati] rispetto alla guerra in Ucraina. La Russia è fondamentalmente un concorrente commerciale e non un alleato strategico. Il tema è piuttosto l’amministrazione Biden e il venir meno degli impegni degli Stati Uniti in merito alla sicurezza dei suoi alleati strategici».

 

La stampa del Golfo non si limita tuttavia a esprimere la forte irritazione di Riyad e Abu Dhabi nei confronti di Washington; offre anche ampio spazio alla narrazione del Cremlino. Il 15 marzo, il quotidiano digitale emiratino Al-‘Ayn ha pubblicato un lungo articolo di Ramzan Kadyrov, intitolato “Il collasso dell’ordine unipolare”. Il leader ceceno, fedelissimo di Putin e i cui uomini sono impegnati in Ucraina al fianco delle forze russe, ha ripercorso gli eventi che hanno “costretto” Mosca a intervenire con la sua «operazione speciale», snocciolando pedissequamente tutti gli argomenti addotti nelle ultime settimane dal Cremlino, dall’allargamento della NATO al presunto sviluppo sul suolo ucraino di armi chimiche e batteriologiche. Il quotidiano sembra tenere particolarmente a questo articolo, al punto da averlo fissato in primo piano sulla propria pagina Twitter.

 

Su Al-Sharq al-Awsat, invece, la voce di Mosca è veicolata da Vitaly Naumkin, direttore dell’Istituto di Studi Orientali dell’Accademia Russa delle Scienze, che contribuiva stabilmente al giornale già prima dell’attacco all’Ucraina. Nel suo articolo più recente, pubblicato il 16 marzo, lo studioso contrappone la «calma olimpica russa» alla «russofobia occidentale».

 

Restando sui quotidiani panarabi editi a Londra, ma spostandosi verso quelli legati al Qatar, i toni cambiano. Sia Al-Quds al-‘Arabī che Al-Arabī al-Jadīd, privilegiano le ragioni dell’Ucraina e parlano apertamente di aggressione russa, spesso con un occhio rivolto alla situazione palestinese o a quella siriana. Il 16 marzo su al-Arabī al-Jadīd, il giornalista egiziano Wael Kandil ha scritto per esempio che «l’invasione delle terre ucraine da parte delle forze russe con l’obiettivo di sottometterle alla sovranità di Mosca è un’aggressione contro un popolo e un’occupazione, a prescindere dalla nostra opinione sulla composizione di questo popolo e del suo presidente, che ha evidenti inclinazioni sioniste».

 

In breve

 

Un tribunale indiano ha confermato il divieto per le ragazze di indossare il velo, definendolo un elemento non essenziale della fede islamica. Come ha scritto l’Associated Press la decisione aumenterà le tensioni religiose in India.

 

La crisi economica, sociale e politica in Libano è profonda. Ciò rende sempre più difficile per i malati oncologici accedere alle cure necessarie (al-Monitor). Il governo libanese, intanto, sta cercando di evitare che la guerra in Ucraina generi una crisi alimentare nel Paese (The National).

 

Un numero imprecisato di morti – Le Monde parla di «diverse dozzine» - sono stati causati nel Nord del Mali da uno scontro tra lo Stato Islamico nel Grande Sahara e le milizie tuareg.

 

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