Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:05:11

 

Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Joe Biden, Jake Sullivan si è recato in visita in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti. Sullivan è il funzionario americano di grado più alto a incontrare il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e quello emiratino Mohammed bin Zayed. Come ha specificato al-Arabiya, tra i temi trattati durante l’incontro tra MBS e Sullivan i recenti sviluppi diplomatici nel Golfo e l’appoggio americano all’iniziativa diplomatica irachena per stemperare le tensioni in Medio Oriente. Secondo Colm Quinn (Foreign Policy) la natura dell’incontro dimostra che i rapporti tra Stati Uniti ed Arabia Saudita non hanno subito grandi trasformazioni dopo l’elezione di Joe Biden, come alcuni sembravano invece aspettarsi.

 

Durante la riunione si è parlato però soprattutto di Yemen, come evidenziato anche dalla presenza, accanto a Sullivan, di Timothy Lenderking, inviato speciale americano proprio per il conflitto in Yemen. Nel Paese, lontano dall’attenzione dei media, infuria la battaglia attorno alla città di Marib, con i ribelli Houthi all’offensiva. Si tratta di una città importante per diversi motivi: ricca di risorse energetiche (e dunque dall’elevato potenziale economico), Marib ha uno specifico valore militare dato che, conquistandola, gli Houthi controllerebbero tutto il nord del Paese. Inoltre, la presa di Marib garantirebbe ai ribelli Houthi un’importante posizione di vantaggio negli eventuali negoziati di pace.

 

Al tempo stesso, come si legge sul francese Les Echos, la rivalità tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti continua a crescere. In luglio i due Paesi hanno raggiunto un accordo sulle quote di produzione del petrolio, ma la disputa va ben oltre alla gestione dell’offerta d’idrocarburi: man mano che ci si avvicina alla «fine dell’era petrolifera nel Golfo, la competizione economica si intensifica». Una competizione che secondo Scott Livermore (Oxford Economics) può avere effetti benefici, qualora non porti a pratiche protezionistiche. Tuttavia, come ha specificato Cinzia Bianco (European Council on Foreign Relations), le misure intraprese dall’Arabia Saudita sono percepite da alcuni emiratini come «colpi bassi», anche se Abu Dhabi mantiene un significativo vantaggio: la diversificazione della sua economia è cominciata ben prima di quella che sta cercando di imporre in Arabia Saudita MBS.

 

Ma c’è l’altra faccia della medaglia: al contrario degli Emirati, sostiene il saudita Najah Al-Otaibi, l’Arabia Saudita può contare su «reali» risorse in ambito di soft power, a cominciare da quella religiosa, legata alla custodia dei luoghi santi dell’Islam. Dall’altro lato però, come spiega James M. Dorsey su Responsible Statecraft, la strategia saudita di diffondere la sua versione di Islam “moderato”, che ha come obiettivo anche rafforzare la presa autocratica del regime, è messa a rischio da quelli che lo studioso Andrew Hammond definisce “wahhabiti di sinistra” – che hanno sviluppato un certo tipo di discorso sui diritti civili – e dai “wahhabiti di destra”, il cui discorso è invece simpatetico con quello jihadista.

 

La “maximum pressure”, versione iraniana. Mentre Teheran guarda a Est

 

Uno dei versanti su cui la diplomazia emiratina e quella saudita hanno invece preoccupazioni in comune è quello riguardante i negoziati sul nucleare iraniano. Durante l’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite il ministro emiratino Khalifa Al Marar ha dichiarato che gli Stati arabi devono poter giocare un ruolo più rilevante nei colloqui per il ripristino dell’accordo sul nucleare (JCPOA), anche al fine di evitare i problemi verificatisi dopo la firma nel 2015.

 

I negoziati però sono più complicati del previsto. Lo sostiene Mark Fitzpatrick su al-Monitor, che ricostruisce un incontro con il ministro degli Esteri iraniano Hossain Amir-Adbollahian avvenuto a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dall’incontro sarebbe emerso che Teheran «chiede troppo e offre troppo poco» agli Stati Uniti. Secondo Fitzpatrick la strategia di “maximum pressure” del duo Pompeo-Trump non ha funzionato, e ora il governo guidato da Ebrahim Raisi sta attuando la «sua versione» di massima pressione. Come? Avvicinandosi alla soglia necessaria per la costruzione di un’arma atomica, intralciando le ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e temporeggiando sul rilascio di alcuni prigionieri con doppia cittadinanza statunitense e iraniana. È della stessa opinione anche l’ex diplomatico statunitense Dennis Ross, uno degli esperti intervenuti su Foreign Policy: l’Iran «sta adottando un approccio trumpiano verso di noi, con l’auspicio che cederemo». Una convinzione che pare rafforzata dal ritiro americano dall’Afghanistan: dopo l’insistenza del presidente americano sulla necessità di terminare le “guerre infinite” in Medio Oriente «non è credibile immaginare che Biden possa usare la forza militare contro il programma nucleare iraniano» Ma, conclude Reuel Marc Gerecht, ex membro della CIA, «potrebbero farlo gli israeliani».

 

E in effetti in Israele se ne parla. Haaretz a questo proposito pubblica un editoriale molto duro: «la conclusione è semplice e chiara: o Israele […] distrugge le installazioni nucleari iraniane, o dovrà nei prossimi anni convivere con un Iran [dotato di capacità] nucleare», dato che già oggi gli esperti ritengono che Teheran sia a solo un mese dalla possibilità di dotarsi del tipo di uranio necessario per realizzare un’arma atomica. D’altro canto è sempre Haaretz a individuare i responsabili di questa situazione: l’ex premier Netanyahu, che ha spinto Trump al ritiro dal JCPOA.

 

Ma mentre cerchiamo di capire se l’Iran raggiungerà un accordo con gli Stati Uniti, e dunque osserviamo l’evoluzione delle relazioni tra Iran e Occidente, Teheran sta andando in direzione opposta. Dopo un decennio d’attesa, la sua richiesta di adesione permanente all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO) è in via di conclusione e riflette l’orientamento impresso negli ultimi alla politica estera iraniana: organizzare una rete di relazioni regionali per aggirare le sanzioni americane e rendere il Paese meno dipendente dalle sorti dell’accordo sul nucleare del 2015. Il risultato è piuttosto evidente: nell’ultimo anno della presidenza Rouhani i principali partner commerciali di Teheran sono stati Cina, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Afghanistan. Secondo Sina Toossi (Amwaj Media) la novità è però un’altra: Rouhani fece suo questo orientamento a causa dello stato di necessità (la reimposizione delle sanzioni), mentre Raisi semplicemente lo preferisce, in questo caso incarnando in pieno anche le preferenze della Guida Suprema Ali Khamenei. La preferenza dunque appare chiara, ma non per questo si può ritenere che sia divenuto irrilevante il rapporto con l’Occidente: Teheran continua ad avere bisogno «di relazioni bancarie globali normalizzate [perché] la dura realtà è che poche nazioni preferiranno commerciare con l’Iran rispetto agli Stati Uniti».

 

Il Libano in crisi rinvia l’inizio della scuola

 

Il ministro dell’Educazione libanese ha rinviato l’inizio dell’anno scolastico al 10 ottobre a causa della crisi negli approvvigionamenti energetici. Come ha però sottolineato Sarah El Deeb (Associated Press), la mancanza di elettricità e altre forniture (fondamentali per riscaldare le classi durante i mesi invernali) non è l’unico problema della scuola libanese. Una delle più grandi incognite è come far fronte all’abbandono in massa del lavoro da parte dei docenti in cerca di migliori opportunità. A causa dell’iperinflazione infatti «lo stipendio mensile [di un docente] è a malapena sufficiente a fare il pieno di benzina due volte». Il rischio non è quello di perdere solamente un anno accademico, ma «un’intera generazione in un Paese che si fregiava di poter competere a livello globale per il numero di scienziati e ingegneri».

 

Un reportage di al-Jazeera mostra gli effetti della crisi sugli ospedali, dove mancano personale, elettricità e medicine, e sulla vita quotidiana dei comuni cittadini. Ma nel bel mezzo di tutto questo la principale preoccupazione della classe politica continua a essere la propria preservazione. Lo dimostra l’inchiesta per l’esplosione al porto di Beirut, sospesa nuovamente il 26 settembre dopo che l’ex ministro degli Interni Nouhad Machnouk – sospettato di avere responsabilità nell’incidente – ha denunciato il giudice che conduce le indagini.

 

Nel frattempo, grazie all’invio di petrolio da parte dell’Iran, Hezbollah cerca di trarre benefici dalla situazione per accrescere la propria popolarità.

 

Tunisia: Saied senza limiti

 

Quando nel luglio scorso ha sospeso il parlamento, Kais Saied ha invocato l’articolo 80 della Costituzione promulgata dopo la Rivoluzione del 2011, anche se in realtà l’articolo in questione stabilisce che il Parlamento dovrebbe rimanere in sessione continua durante lo stato d’eccezione. Ciò che è opportuno osservare, ha scritto Zaid Al-Ali sul Washington Post, è che nonostante la manifesta incostituzionalità delle decisioni di Saied pochissimi in Tunisia hanno sollevato obiezioni, a causa dell’estrema impopolarità del Parlamento. Al-Ali avanza perciò un parallelo con quanto successo in Egitto: nel 2012, si legge, l’allora presidente Mohammed Morsi cercò di arrogarsi un potere paragonabile a quello ottenuto da Saied, ma a differenza del presidente tunisino fu costretto a fare marcia indietro a causa dell’opposizione interna e di violente proteste. La motivazione del consenso di Saied è probabilmente quella indicata dall’Economist: un sondaggio condotto nel 2018 e 2019 da Arab Barometer in 12 Paesi arabi rilevò che alla richiesta di elencare le caratteristiche della democrazia il 55% dei tunisini rispose che un governo è democratico se «assicura opportunità di lavoro per tutti». Per contro, soltanto il 10% sottolineò l’importanza di «libere e corrette elezioni». Nonostante questa priorità accordata alla situazione economica, Saied non sembra avere le carte in regola per risolvere la situazione e a poco dovrebbe servire la nomina di un primo ministro (Najla Bouden Romdhane – prima donna a ricoprire questo incarico nel mondo arabo), i cui poteri appaiono del tutto compressi dal ruolo del presidente.

 

Tra Mali e Francia si inserisce il gruppo Wagner

 

Nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Uniti il primo ministro maliano Choguel Maïga ha affermato che con la fine dell’operazione militare francese Barkhane il suo Paese si sarebbe mosso per trovare nuovi partner che ne garantiscano la sicurezza. Contestualmente il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha confermato che il Mali ha preso contatti con una non specificata organizzazione privata russa, ma ha negato ogni coinvolgimento del Cremlino. Come ha scritto Le Monde, il coinvolgimento della Russia risponderebbe anche a una preferenza sia di Maïga che del ministro della Difesa Sadio Camara, entrambi formatisi in Russia. Naturalmente Mosca nega ogni legame con il gruppo Wagner, anche perché ufficialmente i mercenari sono illegali nel Paese. Eppure, come dimostra un reportage di Newlines, i dati di un tablet recuperato in una postazione occupata da mercenari della Wagner in Libia confermano che molti uomini dell’organizzazione privata hanno un passato nelle forze militari russe o nel GRU (servizi di informazione delle forze armate), oltre ad avere legami con gli ambienti neonazisti russi.

 

 

Rassegna dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Amman e Damasco verso la normalizzazione

 

In Medio Oriente è di nuovo tempo di normalizzazioni e questa volta protagonista è la Siria. Nel 2012, molti Paesi arabi hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Damasco in seguito allo scoppio della guerra civile. Dopo quasi 10 anni di isolamento, la Siria potrebbe riallacciare le relazioni diplomatiche con alcuni dei suoi vicini. Di questa possibilità si parla da diverso tempo, ma sembra che questa volta il traguardo sia più vicino. Segnali di disgelo sono arrivati dalla Giordania, che questa settimana ha ricevuto una delegazione siriana (per il regime di Bashar al-Asad, è il primo incontro ufficiale in un Paese arabo) e riaperto il suo principale valico di confine con la Siria. Secondo al-Quds al-‘Arabī il percorso di normalizzazione sarebbe iniziato lo scorso luglio, quando durante la sua  visita a Washington il re giordano ‘Abdullah II avrebbe chiesto al presidente Biden di allentare le sanzioni imposte sulla Siria dagli Stati Uniti. La Giordania, in forte difficoltà economica, vede infatti nel ripristino delle relazioni con la Siria la possibilità di riportare i flussi economici tra i due Paesi ai livelli pre-2011 e rimpatriare una parte di quel quasi milione e mezzo di profughi siriani che vivono sul suo territorio.

 

La decisione di re ‘Abdullah ha scatenato molte polemiche tra gli oppositori siriani, che si sono sentiti traditi dalla Giordania, pronta a riconoscere un «governo criminale». Il quotidiano londinese al-Arabī al-Jadīd, che ospita spesso voci dissidenti, ha pubblicato un editoriale del suo corrispondente in Siria ‘Adnan ‘Abd al-Razzaq, il quale ha accusato il re giordano di aver salvato «dall’assedio» e dalle sanzioni economiche un presidente reo di aver «represso nel sangue la rivoluzione dei siriani costringendoli alla fuga». Re ‘Abdullah II è accusato di essere un voltagabbana: il primo nel 2011 a invitare Asad a dimettersi, è oggi il primo a scendere a patti con lui.

 

Il quotidiano siriano filo-governativo al-Watan offre ovviamente una prospettiva diversa. La politica americana delle sanzioni è definita «una guerra di logoramento ed aggressione contro i cittadini», ma allo stesso tempo anche una «guerra persa» perché gli Stati Uniti non riusciranno a prevalere sul fronte avversario guidato dalla Cina e dalla Russia. L’autore di queste considerazioni spiega inoltre che l’America ha dato il suo benestare alla normalizzazione tra Siria e Giordania per una questione di mero opportunismo: riaprire i flussi economici tra i due Paesi significa indirettamente salvare il Libano dalla penuria di elettricità e di carburante, facendo transitare attraverso Damasco l’elettricità e il gas egiziani destinati al Paese dei cedri.

 

In Libano infatti la crisi continua, nonostante sia stato finalmente formato un governo dopo uno stallo durato tredici mesi. Molto incisivo l’editoriale pubblicato su al-Nahār, uno dei maggiori quotidiani arabofoni del Paese, a firma dell’ex ministro Sejaan Azzi, che ha riflettuto sulla fine della formula libanese. In Libano oggi manca una visione di Paese e le nomine di governo da sole non basteranno a salvarlo. Le componenti confessionali continuano a farsi la guerra portando avanti progetti contraddittori, mentre una parte dei cittadini ha perso completamente il senso di appartenenza alla nazione libanese, preferendo allearsi con le potenze straniere. Che fare? Secondo l’ex ministro due sono le risposte: da un lato dichiarare la neutralità del Libano, così da protegge il Paese dalle ingerenze straniere e ristabilire la pace tra le varie componenti della società; dall’altro riportare la cultura al centro del progetto del governo. Perché, spiega Azzi, «la condotta è figlia dell’istruzione e della cultura», senza le quali non si possono sradicare la corruzione, il malgoverno e l’estremismo.

 

In Kurdistan si parla di normalizzazione con Israele, ma il governo dice no

 

Venerdì scorso a Erbil oltre 300 personalità irachene hanno partecipato a una conferenza organizzata dall’americano Center for Peace Communications per favorire l’adesione del governo iracheno agli accordi di Abramo. Alcuni media arabi hanno urlato allo scandalo. Il quotidiano iracheno al-Madā ha diffuso immediatamente una nota del governo in cui veniva ribadito il sostegno alla causa palestinese e il rifiuto categorico di normalizzare le relazioni con Israele. Come invece ha riportato al-Jazeera, il leader del movimento iracheno sadrista, Muqtada al-Sadr, ha chiesto che venga eseguito il mandato di cattura emesso nei confronti dei partecipanti alla conferenza e ha minacciato di prendere provvedimenti qualora non si proceda agli arresti. Il ricercatore iracheno Sayyar al-Jamil ha parlato su al-Arabī al-Jadīd di «una conferenza che non riflette la volontà di tutti gli iracheni, educati alla consapevolezza dei pericoli che nasconde il sionismo».

 

In breve

 

Dopo che 34 persone sono state uccise in due attacchi nel nord della Nigeria, papa Francesco ha espresso la sua solidarietà e invitato il presidente nigeriano Buhari a garantire la sicurezza dei cittadini (CNN).

 

La Giordania ha riaperto il più importante valico di frontiera con la Siria a Mafraq (Reuters). In settimana sono anche ripresi i collegamenti aerei operati da Royal Jordanian tra Amman e Damasco (Ansa).

 

In un’intervista esclusiva con Associated Press, il responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite Martin Griffiths ha descritto la devastante situazione nella regione etiope del Tigrè, definendola una “macchia sulla nostra coscienza”. Griffiths ha accusato il governo etiope di aver organizzato un blocco che impedisce l’arrivo di cibo, carburante e medicine nella regione. In risposta il governo etiope ha espulso sette funzionari dell’ONU (Reuters).

 

Il governo egiziano sta lavorando a un piano per incentivare la popolazione a stabilirsi nella penisola del Sinai, nella speranza che i progetti di sviluppo creino opportunità di lavoro e rilancino l’economia del Paese (al-Monitor).

 

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