Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:03:15

Dopo alcune settimane di trattive, Unione Europea e Tunisia hanno firmato domenica scorsa un protocollo d’accordo per un “partenariato strategico” che prevede la lotta contro l’immigrazione irregolare e la cooperazione economica e in materia di energia rinnovabile. Il capitolo dedicato ai migranti consta di un aiuto europeo di 105 milioni di euro, destinati a impedire le partenze dal Paese nordafricano e a facilitare il rimpatrio dei tunisini che si trovano in Europa senza un permesso di soggiorno. Come segnala tra gli altri il francese Le Monde, l’auspicio degli europei è che la formula possa essere estesa a Egitto e Marocco.

 

Secondo Jeune Afrique, l’accordo non è stato accolto con particolare entusiasmo in Tunisia. La rivista specializzata in questioni africane sottolinea infatti che «il tenore del documento firmato dalle due parti contrasta con tutte le dichiarazioni recenti dell’inquilino di Cartagine, il quale ha sempre sostenuto che la vocazione del suo Paese non è diventare la polizia di frontiera dell’Europa». Per convincere il presidente Saied l’Europa si è «voluta prodiga», continua con sarcasmo Jeune Afrique: alla somma impiegata «per fare della Tunisia il cerbero del Mediterraneo», l’Unione aggiungerà dei fondi destinati «allo sviluppo economico e altre quisquilie che appaiono del tutto fuori luogo nell’attuale contesto». Critico anche il commento ai cinque pilastri del partenariato menzionati dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (stabilità economica, commercio, investimenti, transizione energetica, avvicinamento tra i popoli, migrazioni e mobilità): «cose già viste per i primi quattro pilastri. Il quinto, sulla migrazione e la mobilità, è avvolto in vocabolario “umanamente corretto” per dire alla fine che l’Europa vuole soltanto gli stranieri che si sceglie: la libera circolazione degli individui diventa un mito».

 

Anche la CNN ha messo in luce la spregiudicatezza europea, come evidenzia il titolo di un articolo pubblicato il 19 luglio: “Il presidente tunisino è accusato di autoritarismo e razzismo. Avrà un miliardo di euro dall’Europa”. La cifra peraltro non ha un riscontro nel contenuto del memorandum, come segnala la stessa emittente americana: «Ursula von der Leyen aveva promesso che l’accordo sarebbe valso un miliardo di euro in aiuti finanziari e prestiti, ma il testo non menziona questo dato». Non solo, ma come ha rilevato Max Gallen, ricercatore all’Istituto di Studi sullo Sviluppo dell’Università del Sussex interpellato sempre dalla CNN, «l’accordo che è stato pubblicato è pressoché privo di cifre, ed è estremamente ampio e vago, nonostante riguardi molti temi per i quali il diavolo sta veramente nei dettagli». Resterà peraltro da vedere se il Parlamento europeo, molto critico verso il presidente Saied, approverà l’accordo.

 

A fare le spese della “soluzione” euro-tunisina sono intanto i migranti sub-sahariani che si trovano nel Paese nordafricano e vengono deportati e abbandonati a loro stessi nelle zone desertiche a ridosso dei confini, molto spesso dopo essere stati malmenati dalle autorità. Nelle ultime due settimane diverse testate hanno documentato la loro tragica situazione. Il 20 luglio anche il New York Times ha pubblicato un articolo che riporta gli effetti della deriva autoritaria e xenofoba del presidente Saied. Questi ha negato le accuse rivoltegli circa i maltrattamenti di cui sono vittime le persone sub-sahariane. Tuttavia, come scrive Viviane Yee sul quotidiano americano, le affermazioni del presidente sono contraddette da «testimonianze, foto e video forniti dai migranti».

 

Nel frattempo Saied ha incassato un’altra promessa d’aiuto dall’Arabia Saudita. Reuters riferisce che Riyad verserà 500 milioni di dollari alla Tunisia tra sovvenzioni e prestiti.

 

Mentre riceve Herzog, Biden invita Netanyahu [a cura di Claudio Fontana]

 

La scelta del presidente americano Joe Biden di invitare alla Casa Bianca il presidente israeliano Isaac Herzog, che ha un ruolo soprattutto cerimoniale, prima del primo ministro Benjamin Netanyahu è stata interpretata come un segnale del malcontento americano nei confronti delle politiche di estrema destra messe in atto dal governo guidato dal leader del Likud. Come ha scritto Aaron David Miller su Foreign Policy, l’arrivo di Herzog solleva inevitabilmente la domanda «piuttosto ovvia» riguardo a chi invece non arriverà a Washington. O meglio, come abbiamo poi scoperto nel corso della settimana, su chi arriverà dopo. L’incontro tra i due presidenti è infatti avvenuto martedì, ma il giorno precedente l’amministrazione Biden ha esteso l’invito a Benjamin Netanyahu, aprendo la possibilità di una sua visita negli Stati Uniti in autunno. Ritardare ulteriormente la visita del Primo ministro israeliano a Washington, infatti, era una scelta sempre più difficile da difendere per Biden, anche a causa della pressione di esponenti repubblicani come Donald Trump e Ron De Santis, i quali premono su questo aspetto. Ed effettivamente, sono molte le cose di cui discutere.

 

Dopo l’incontro nella Sala Ovale, Biden ed Herzog hanno rilasciato dichiarazioni di rito nelle quali hanno celebrato l’alleanza tra Israele e Stati Uniti: un legame «semplicemente indistruttibile», ha detto il presidente americano, mentre Herzog ha sottolineato come l’incontro sia stato «fantastico» e come Biden sia un «grande amico di Israele». A smorzare gli entusiasmi per una rinnovata intesa tra i due Paesi ha pensato il portavoce del National Security Council, John Kirby, il quale ha puntualizzato che l’incontro con Herzog e la telefonata intercorsa con Netanyahu non significano certo la fine delle preoccupazioni americane verso quanto sta avvenendo in Israele. A preoccupare gli Stati Uniti sono soprattutto la riforma della Giustizia voluta dal Primo ministro e dai suoi alleati di estrema destra e l’escalation violenta con i palestinesi.

 

I rapporti restano tesi anche con molti membri del Congresso americano, specialmente democratici. Pramila Jayapal, a capo del Congressional Progressive Caucus, aveva definito Israele uno Stato razzista nei giorni precedenti al discorso che Herzog ha tenuto alle camere riunite mercoledì, salvo poi specificare che le sue affermazioni non si riferivano allo Stato ebraico in sé, quanto alle sue politiche. L’episodio, ricorda il New York Times, ha dato il là alla presentazione di una risoluzione che riafferma il sostegno incondizionato a Israele, condanna l’antisemitismo e dichiara che il Paese non è né razzista né uno Stato di apartheid. La risoluzione è stata approvata a grandissima maggioranza (412 a 9), con gran parte dei democratici che alla fine hanno votato favorevolmente. È sempre più evidente, tuttavia, che anche le relazioni con l’alleato israeliano siano oggetto di scontro tra il partito repubblicano e quello democratico, con il secondo molto più incline a criticare Israele.

 

Nel suo discorso di mercoledì scorso al Congresso mercoledì, Herzog ha riconosciuto «le imperfezioni della democrazia israeliana», ma al tempo stesso ha riaffermato la sua fiducia nella tenuta del sistema del proprio Paese. Mentre Herzog parlava a Washington, in Israele si sono tenute diverse manifestazioni contro la riforma della giustizia finita nel mirino anche dell’amministrazione Biden. Lunedì prossimo è previsto il voto che, se otterrà esito positivo, toglierà ai giudici il potere di ribaltare le decisioni del governo, riporta Haaretz. Israele, ha detto Netanyahu giovedì, continuerà a essere «liberale e democratico», senza trasformarsi in uno Stato dominato dalla legge religiosa e «proteggerà i diritti di ciascuno». Una bugia, secondo il leader dell’opposizione Yair Lapid, al quale hanno fatto eco gli altri esponenti dell’opposizione.

 

Il Presidente israeliano ha anche parlato dei tentativi americani di favorire il riconoscimento diplomatico tra Israele e Arabia Saudita, resi necessari dalla minaccia posta dall’Iran, il cui programma nucleare è definito come la più grande sfida per la sicurezza di entrambi i Paesi. Tuttavia, sulla normalizzazione dei rapporti Joe Biden si era già espresso domenica, raffreddando gli entusiasmi e sottolineando che un tale passo è ancora lungi da venire. D’altro canto lo stesso Mohammed bin Salman è in una posizione molto forte e ritiene di dover ottenere qualcosa di molto significativo in cambio di questo passo verso Israele, ha ricordato a Middle East Eye Abdullah Baabood (Carnegie Middle East Center).

 

Intanto però si approfondiscono i rapporti con un altro dei Paesi firmatari degli Accordi di Abramo, il Marocco. Il re Mohammed VI, infatti, per la prima volta dalla normalizzazione ha invitato il primo ministro israeliano a Rabat, ciò che indica un «possibile approfondimento dei legami diplomatici e securitari», evidenziata anche dalla nomina avvenuta in precedenza di un attaché militare israeliano in Marocco e dalla partecipazione di soldati israeliani a esercitazioni che hanno avuto luogo proprio nel Paese nordafricano. La notizia è significativa soprattutto considerando che un summit diplomatico di alto profilo tra i due Paesi era stato in precedenza rinviato proprio a causa dell’escalation di violenze in Cisgiordania. Ora è arrivata la svolta, anche se il Re del Marocco ha specificato nella lettera di invito che le relazioni tra il Regno e Israele sono un’«opportunità» per promuovere la pace con i palestinesi. L’invito a Netanyahu è stato annunciato, non a caso, dopo che in settimana lo Stato ebraico ha riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale.

 

Iran: torna la polizia morale [a cura di Claudio Fontana]

 

Il controllo esercitato dalle autorità iraniane sull’abbigliamento delle donne si era leggermente affievolito dopo gli scontri e le manifestazioni che avevano investito l’Iran a seguito della morte di Mahsa Amini, arrestata e uccisa dalla polizia morale per aver indossato in maniera “non corretta” il velo. Il periodo di ridotta vigilanza sui costumi della popolazione però terminato, ha annunciato Saeid Montazer-al-Mahdi, portavoce della polizia morale, e lunedì sono ricominciati i pattugliamenti. Secondo Sanam Vakil (Chatham House) dopo le proteste era sorto un dibattito tra i decisori politici della Repubblica Islamica: da un lato chi proponeva di fare concessioni sui diritti delle donne, dall’altro chi voleva proseguire con la repressione dei comportamenti ritenuti inadeguati. La ripresa a pieno regime delle attività della polizia morale indica che ha prevalso la seconda posizione. Secondo l’interpretazione data da Najmeh Bozorgmehr sul Financial Times, l’inasprimento della posizione iraniana potrebbe essere motivato anche dalla volontà di prevenire ulteriori manifestazioni, che potrebbero avere luogo in corrispondenza dell’anniversario della morte di Mahsa Amini, avvenuta nel settembre 2022.

 

Un’altra fonte di malcontento della popolazione è la gestione delle risorse idriche, un problema che affligge l’Iran da diverso tempo e che ogni estate presenta un conto sempre più salato a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici. Nel bel mezzo di una tremenda ondata di calore, in alcune zone dell’Iran, a cominciare dal Khuzestan, l’acqua corrente era pressoché assente. Anche in questo caso le autorità hanno cercato di prevenire le proteste: nel Golestan è stato annunciato l’invio di cisterne d’acqua, mentre nel Khuzestan, in passato sede di proteste anche violente, il capo dei Guardiani della Rivoluzione ha “invitato” la popolazione ad astenersi da ogni tipo di dimostrazione di malcontento. L’altra faccia della tattica utilizzata dalle autorità della Repubblica Islamica è il tentativo di incolpare i Paesi vicini per la situazione disastrosa delle proprie risorse idriche: Teheran accusa i talebani di aver ridotto il flusso d’acqua che scorre attraverso il fiume Helmand. Una narrazione che secondo il Washington Post non convince affatto i cittadini iraniani. Come dargli torto.

 

Il tour di Erdoğan nel Golfo [a cura di Mauro Primavera]

 

Tra il 17 e il 19 luglio il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha compiuto un viaggio diplomatico nel Golfo, con l’obiettivo di raccogliere fondi e ottenere investimenti dalle petromonarchie. La prima tappa è stata l’Arabia Saudita del principe Mohammed bin Salman, al quale il reis ha donato una Togg, il primo modello di auto elettrica di produzione turca: curioso il siparietto in cui il principe saudita guida il suv dando un “passaggio” a Erdoğan seduto sul lato passeggero. Una scena impensabile fino a poco tempo fa, se si considera che negli ultimi anni le relazioni tra i due Paesi sono state molto difficili, segnate in negativo soprattutto dall’affaire Khashoggi del 2018. La visita è servita a rafforzare la partnership economica e militare (Riyad ha firmato due contratti per l’acquisto dei droni turchi prodotti dalla Baykar). Durante la conferenza stampa c’è stato spazio anche per un’apertura a Bashar al-Assad da parte del reis, il quale ha affermato la sua disponibilità a incontrare il presidente siriano. Martedì 18 luglio il capo dello Stato turco ha visitato il Qatar, il principale alleato della regione. The New Arab, testata vicina a Doha, ha coperto ampiamente l’incontro con diversi articoli: tra questi spicca un’intervista a Fahrettin Altun, direttore della comunicazione della presidenza turca, che ha parlato di “partnership unica tra i due Paesi” (il viaggio ricorre proprio in occasione del cinquantesimo anniversario dall’apertura delle relazioni diplomatiche) che comprende l’ambito militare, il settore energetico e l’agenda geopolitica in Medio Oriente. In particolar modo, Altun ha fatto riferimento al megaprogetto della Strada dello Sviluppo (Development Road Project), un ambizioso corridoio di autostrade e gasdotti che, collegando Turchia e Qatar attraverso l’Iraq, rafforzerà l’integrazione economica tra i due Paesi. 

 

Il presidente turco si è infine diretto negli Emirati, dal presidente Mohammed bin Zayed (anche lui omaggiato con una Togg), col quale ha firmato una serie di partenariati commerciali per un valore di cinquanta miliardi di dollari. In maniera simile all’Arabia Saudita, Ankara sta cercando di migliorare le relazioni con Abu Dhabi, una mossa dettata dalla preoccupante situazione finanziaria turca, che non permette più di ragionare per contrapposizioni geopolitiche, come avvenuto durante il periodo delle Primavere Arabe, ma chiede di approfittare delle Vision del Golfo per far partecipare quante più aziende e imprese turche possibili ai progetti, dando ossigeno all’economia nazionale in affanno. Aylin Unver Noi, professore all’Università Halic di Istanbul, sostiene inoltre che il riavvicinamento col Golfo sia stato favorito dal nuovo clima regionale e internazionale: gli Accordi di Abramo, la nuova amministrazione americana, gli Accordi di al-‘Ula del 2021, le ripercussioni economiche della pandemia di Covid-19 e, da ultimo, il sisma che ha colpito Turchia e Siria lo scorso febbraio. 

 

Attacco al Patriarca caldeo in Iraq [a cura di Michele Brignone]

 

È crisi tra lo Stato iracheno e la Chiesa caldea. Il patriarca di quest’ultima, il cardinal Louis Sako, ha infatti lasciato Baghdad per il Kurdistan iracheno dopo che un decreto del presidente della Repubblica gli ha revocato il riconoscimento del suo statuto giuridico di leader dei cristiani caldei e amministratore dei beni della Chiesa. Dietro a quest’iniziativa ci sarebbe Rayyan al-Kildani, leader della Brigata Babilonia, una milizia filo-iraniana che da tempo contende al patriarca Sako la rappresentanza dei cristiani. Al caso abbiamo dedicato ampio spazio nella rassegna dalla stampa araba. Ci limitiamo qui a segnalare un articolo di Amwaj Media, sito specializzato negli affari delle due sponde del Golfo persico, che tra l’altro schematizza efficacemente il panorama delle milizie irachene, e soprattutto l’approfondimento del quotidiano libanese L’Orient le Jour sulla brigata in questione e sulla sua pretesa di presentarsi come forza “cristiana”. La milizia, che fa parte delle Forze di Mobilitazione Popolare, è infatti composta in gran parte da combattenti sciiti e si è macchiata di molti abusi dopo la liberazione di Mosul dallo Stato Islamico, saccheggiando case, chiese e monasteri «per rivenderne i beni nel sud del Paese, da dove provengono molti dei suoi combattenti». Interpellato dal giornale libanese, l’esperto di milizie irachene Michael Knights ha affermato che il Cardinale Sako è «l’ultimo bastione» contro il dominio della Brigata Babilonia sulla comunità cristiana.

 

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