Lo sgombero forzato di alcune famiglie palestinesi a Gerusalemme Est e l’irruzione delle forze di sicurezza israeliane nella moschea di al-Aqsa hanno innescato una nuova, inutile escalation. Ne abbiamo parlato con il Patriarca di Gerusalemme dei Latini Pierbattista Pizzaballa

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:12

Dopo lo sgombero forzato di alcune famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme e l’irruzione delle forze di sicurezza israeliane all’interno della moschea di al-Aqsa tra israeliani e palestinesi è di nuovo in corso un’escalation violenta. Perché proprio ora? Quanto pesano i fattori interni a ciascun campo?

 

Ci sono sicuramente interessi convergenti. All’interno dell’Autorità palestinese, Hamas vuole diventare il paladino della resistenza. E anche alla destra israeliana fa comodo questa escalation. Non voglio pensare che tutto questo sia stato intenzionale, ma la tensione ricompatta il fronte politico israeliano e dunque cambia le carte in tavola. Ma la questione di Gerusalemme si trascinava da tempo, ed è riesplosa. Io poi continuo a credere che in queste cose ci sia anche una certa dose di casualità.

 

Intanto, dopo alcuni giorni di bombardamenti, le forze israeliane potrebbero iniziare un’offensiva di terra a Gaza. Cosa si aspetta da questo eventuale intervento?

 

Non mi aspetto nulla. Non sarebbe la prima volta che assistiamo ad un’operazione di terra a Gaza e non mi pare che queste operazioni abbiano prodotto risultati positivi. Ci saranno altri morti, violenze, accuse reciproche… ma nessun sostanziale cambiamento tra i due fronti, purtroppo. L’imposizione con la forza non produrrà alcuna soluzione. Da entrambe le parti. Queste sono scelte dettate dalle rispettive agende politiche che, come sempre, hanno il respiro corto. Ci saranno molti morti in più, ma nessun cambiamento reale.

 

Immediatamente prima che cominciassero le espulsioni forzate a Sheikh Jarrah era stato annunciato il rinvio delle elezioni palestinesi. Quanto ha pesato questa decisione nel far crescere la tensione?

 

Ha pesato. Ha creato molta frustrazione e a beneficiarne è stato Hamas, che ora punta a presentarsi come portavoce dei palestinesi. Per un’ironia della sorte, il motivo del rinvio è stato l’impossibilità di garantire il voto a Gerusalemme Est. Ed è proprio qui che la situazione si è incendiata di nuovo.

 

Lei è in Terra Santa da molti anni e ha visto molte crisi simili a questa. Sono episodi ciclici sempre uguali a se stessi o vede qualche differenza?

 

Userei l’idea dei corsi e ricorsi storici di Vico.  Come in una spirale, ci sono eventi che continuamente ritornano anche se naturalmente ogni volta si aggiunge qualche elemento di novità. Si tratta di crisi periodiche. L’ultima di questo genere è stata quella del 2014. Poi, grazie a Dio, per qualche anno non si sono più avuti scontri gravi. Spero che questa sia l’ultima volta, ma temo di no.

 

Hamas mobilita ancora come qualche anno fa?

 

No, anche se gli ultimi eventi gli hanno ridato slancio. Ma certamente non ha più lo stesso credito che aveva 10-15 anni fa. A Gaza se potessero cambiare lo farebbero volentieri.

 

Dopo tanti anni, non si fa strada l’idea che la violenza non solo non ripara i torti subiti, ma li aggrava?

 

Non sono molto sicuro. Una parte, quella più intellettuale, ha coscienza di questo. Ma l’uomo della strada meno. C’è tanta frustrazione, tanta stanchezza e tende a prevalere l’idea che alla forza occorra rispondere con la forza. Il dialogo è percepito come un segno di debolezza.

 

La crescita della destra israeliana sicuramente non aiuta…

 

È un fenomeno radicato. Una destra non solo politica, ma religiosa, rende tutto più complicato, perché quando la politica si mischia con la religione è più difficile arrivare a un compromesso, che dovrebbe essere l’arte della politica.

 

Ci troviamo a commentare sempre le stesse cose e le avranno fatto questa domanda un’infinità di volte. Che cosa deve intervenire per sbloccare la situazione e rompere il ciclo della violenza?

 

L’escalation è favorita da una concomitanza di fattori e per uscirne occorre una concomitanza di fattori. Le cose non cambiano se non c’è qualche convenienza. Bisogna creare le condizioni che rendano conveniente il dialogo, anche dal punto di vista economico. Occorre coinvolgere la comunità internazionale, anche se non ho mai capito esattamente cosa sia la comunità internazionale… Diciamo che i grandi attori internazionali dovrebbero spingere anche sugli aspetti economici oltre a quelli politici. E poi servirebbe una leadership capace di visione e questo è uno dei grandi problemi. Le cose non cambiano mai da sole. Cambiano se c’è un leader carismatico capace di creare unità e dare un orientamento.

 

Quando sono stati firmati gli “Accordi di Abramo”, si è insistito sulla marginalità assunta dalla questione israelo-palestinese. In un certo senso gli ultimi fatti mettono in discussione quest’idea, ma d’altro canto è vero che il problema non ha più lo stesso peso che aveva nei decenni scorsi. Veramente, dal punto di vista politico, si può fare come se nulla fosse?

 

Non si può far finta di niente, ma che la questione sia marginale è un fatto. Con l’effetto creato dai media un evento che oggi è drammatico fra una settimana può non esserlo più. Bisogna vedere nei tempi lunghi come evolvono le cose. Che il mondo arabo non sia particolarmente interessato alla causa palestinese non è una grande novità. Ma in un modo o nell’altro bisognerà farci i conti. Oggi prevale la rivalità tra Iran e Arabia Saudita, o la questione energetica, mentre in Occidente ci si concentra sulla questione dei migranti e sui problemi interni. Con la caduta delle grandi ideologie l’importanza percepita della questione israelo-palestinese è progressivamente scemata. Resta però una ferita aperta, e in quanto tale periodicamente torna a fare male.

 

Come vivono i cristiani questo momento?

 

I cristiani non sono un popolo a parte. I cristiani arabi sono arabi e vivono i problemi di tutti. In questo momento a soffrire in modo particolare è la piccola comunità di Gaza. Sono in contatto continuo con loro. Stanno tutti bene ma la tensione è molto alta. Per esempio vicino alla scuola del Rosario ci sono i tunnel, che sono stati bombardati e quindi la scuola è stata direttamente interessata.

La domanda è come porsi di fronte a questa situazione in un atteggiamento il più costruttivo possibile. Le denunce vanno fatte e sono necessarie. Ma bisogna anche darsi delle prospettive. È chiaro che questa situazione durerà a lungo e non saremo noi a risolverla. Però bisogna starci dentro. Come starci? Come vivere tutto questo? Sono le grandi domande a cui non è sempre facile rispondere.

 

Papa Francesco ha rilanciato con forza l’ideale della Fratellanza. Al di là dei grandi eventi, come si fa a incarnarlo nella vita di tutti i giorni, soprattutto in contesti particolarmente conflittuali?

 

È una grande sfida. Bisogna evitare il rischio molto reale di passare da evento a evento, anche se questo può essere immediatamente gratificante. Costruire la fratellanza nella vita di ogni giorno non è semplice. Non è il momento dei grandi gesti. Occorre invece costruire i legami sul territorio, a partire dalle piccole cose. Ci sono le vie tradizionali, come le nostre scuole per esempio. Sono percorsi faticosi, complessi, pieni di contraddizioni, ma sono anche esempi concreti di come si possa vivere insieme, educandosi insieme. E poi bisogna cercare di creare occasioni d’incontro con la leadership locale. Non soltanto unirsi nel condannare, ma fare qualche cosa insieme. Ci sono tanti esempi positivi, in Siria, in Iraq, ma anche qui, che non fanno chiasso, non fanno opinione. In questo momento è il massimo a cui si può arrivare, ma bisogna continuare a farlo per tenere vivo l’ideale e farlo crescere.

 

*Intervista a cura di Michele Brignone

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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