Tra i membri del Consiglio degli ulama di al-Azhar, organo direttivo della moschea-università, è diffusa l’idea che l’Islam non richieda affatto all’uomo contemporaneo di ripristinare l’antico califfato, soprattutto se ciò significa usurpare le cose sacre altrui e aggredire le persone. Perché - come sostiene il Segretario generale dello stesso Consiglio, ‘Abbâs Shumân «il sunnismo non rende lecito lo spargimento di sangue» e l’Islam garantisce la libertà di culto ai cristiani e alle altre minoranze religiose. Se questo ancora non bastasse, il capo degli ulama di al-Azhar esperti in hadîth, Ahmad Ma‘bad, ricorda il monito coranico secondo il quale «chi uccide un credente intenzionalmente sarà ricompensato con la jehenna eterna, su di lui la collera e la maledizione di Dio, e gli sarà preparato un castigo atroce».
Contro Is, ma per ragioni diverse, è il ministro degli Affari religiosi egiziano, Muhammad Mukhtâr Jum‘a, che sospetta il califfo Abû Bakr al-Baghdâdî di operare nell’interesse di Israele e di impiegare le risorse in una guerra non autorizzata né dalla sharî‘a né dalla consuetudine, né dal diritto internazionale. Secondo il ministro al-Baghdâdî avrebbe origini ebraiche, il suo vero nome sarebbe Eliot Shîmûn e sarebbe un agente del Mossad.
Contro la violenza in nome di Dio si è espresso anche il muftì della Repubblica libanese, shaykh ‘Abd al-Latîf Deryân, nel discorso pronunciato nella moschea Muhammad Amîn Beirut in occasione della festa del Sacrificio. «Chi commette atrocità in nome della religione non conosce veramente la fede» ha sostenuto il muftì, auspicando una riforma della vita politica e sociale, delle istituzioni e del pensiero religioso e culturale. Una riforma necessaria a suo dire non solo per risolvere i dissensi, ma anche per accogliere l’invito di Abramo all’unità e a edificare il bene.
Articolo pubblicato su Avvenire il 12 novembre 2014.
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