Da dove nasce lo Stato Islamico e a cosa punta? L’analisi di un filosofo esperto di etica della guerra individua l’origine e le principali conseguenze politiche del califfato: la posizione della Cina; la strana inedita convergenza tra sauditi e sciiti di fronte a un nemico comune; il nuovo ruolo dei curdi.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:27

Alla proliferazione di movimenti sunniti di resistenza si è aggiunto da poco lo “Stato Islamico”. Quest’ultimo è il risultato delle trasformazioni del gruppo “L’Unicità e il Jihad” fondato negli anni ’90, diventato nel 2006 il braccio armato di Al-Qaeda in Iraq. Dopo l’uccisione dei suoi capi, nel 2006 e nel 2010, si è reso indipendente da al-Qa’ida. Lo Stato Islamico è più modesto di Al-Qa’ida, in quanto mira a instaurare l’islamismo in un solo paese sotto forma di istituzione statale. Ciò era impossibile fino a dieci o dodici anni fa, ma lo è diventato dal momento che gli Stati Uniti non hanno più la volontà né la forza di condurre una guerra di terra che, d’altro canto, non corrisponderebbe ai loro obiettivi politici. L’altra differenza con Al-Qa’ida è il radicamento di IS nella lunga storia del mondo musulmano e del Medio Oriente arabo. Il colpo di genio è stata la restaurazione del califfato, detenuto a lungo dai turchi, che lo abolirono nel 1924. Lo Stato Islamico ci richiama così al califfato arabo abbaside, con capitale Baghdad, distrutto nel 1258 dai Mongoli. Una volta consolidata la sua base territoriale, esso dovrebbe espandersi, sostenendo la fondazione di emirati vassalli in Mali, Nigeria, Libia e nel Caucaso russo. Approfittando del risentimento dei sunniti iracheni, un tempo dominatori ma fino a ieri dominati, IS ha ottenuto l’adesione delle tribù sunnite irachene e dei vecchi dirigenti del regime baathista, soprattutto i militari. Esso fornisce alla popolazione sunnita un potere forte nel quale riconoscersi e che li protegge. Lo Stato Islamico ha un leader, Abu Bakr Al-Baghdadi, il “califfo”. Successore del Profeta, capo religioso, politico e militare, è circondato da una costellazione di vassalli e di guerrieri devoti che lottano per la costruzione di uno Stato in cui sarà applicata la Legge di Dio e confessata l’unicità di Dio, di cui Maometto è profeta. Al-Baghdadi è una personalità potente, che unisce una cultura araba classica e un genio politico a una spietata ferocia. Oggi ha 43 anni ed è stato in prigione dal 2006 fino al 2009 (inizio della primavera araba), quando fu rilasciato per ragioni sconosciute e si ritrovò in seguito in Siria. La cosa più probabile è che qualcuno abbia notato la sua levatura, che la sua liberazione sia stata l’esito di un calcolo e che i recenti progressi della sua carriera non siano soltanto il frutto del caso, né della sola volontà di Allah. Se la sua lealtà fondamentale va alla religione, il califfo non è certamente uno sciocco e sa fin dove può arrivare e a quali condizioni. Sono tre le conseguenze politiche del califfato. Primo: con l’avanzata militare su Baghdad, il califfo ha innanzitutto permesso l’esclusione del dittatore sciita Al-Maliki, sotto il cui governo la Cina era diventata il primo cliente e investitore in Iraq. I cinesi sarebbero anche le prime vittime degli emirati jihadisti africani. Secondo: il califfato, che sembra minacciare al tempo stesso sauditi e sciiti, è diventato il loro nemico comune, permettendo agli Stati Uniti di avvicinarsi all’Iran per sganciarlo dall’alleanza russo-cinese, senza infastidire i sauditi. Inoltre, per via dei suoi atti barbarici, il califfo consente di far convergere le opinioni americane ed europee su una lotta comune. I mezzi militari impiegati sono destinati a soddisfare l’opinione occidentale e rallentano il califfato invece che minacciarne l’esistenza. Terzo: una volta caduto Al-Maliki, le truppe di al-Baghdadi si sono rivolte contro i curdi. I cristiani sono stati un danno collaterale, perché occorreva attraversarli per raggiungere i curdi. Perché attaccare soprattutto i sunniti? La politica di Washington è mantenere un Kurdistan abbastanza forte da assicurarsi la docilità della Turchia, ma non tanto forte da alienarsela. La politica di Assad e dei russi, invece, è stata quella di abbandonare il Kurdistan siriano e di facilitare l’ascesa di un grande Kurdistan. Questo ha paralizzato l’azione della Turchia e ha permesso la sopravvivenza di Assad. L’azione del califfato tende a riportare i curdi a un livello di potere che permetta di riprendere un’azione combinata occidentale-sunnita contro Assad. Infine, i turchi lasciano vivere il califfato autorizzando il contrabbando di idrocarburi che ne assicura finanziamento. Il califfato mette Washington in una posizione complessa, ma gli permette anche di riprendere l’iniziativa politica e di nuocere ai cinesi. Il suo sostegno di fatto al califfato non esclude un’azione segreta antiterrorista di grande ampiezza, insieme a misure per limitare la sua espansione e quella di altri attori (come i turchi), che potrebbero approfittare della situazione. Gli Stati Uniti, che avevano creduto a lungo in una trasformazione dell’Islam, probabilmente non ci sperano più. Hanno forse optato per una politica di secolarizzazione? In questa prospettiva, il sostegno a IS sarebbe una politica culturale “del peggio”, alla quale il califfato si presta. La messa in scena planetaria di tanti episodi orribili produrrà forse il discredito progressivo dell’islam anche all’interno degli stessi Paesi musulmani?