La corretta interpretazione delle scritture sacre è centrale nella lotta agli estremismi

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:56:18

Un estratto dell’intervento di Martino Diez, direttore scientifico della Fondazione Oasis, al seminario tenutosi il 22 e il 23 febbraio alla Mashikhat di al-Azhar al Cairo “sulla lotta contro il fanatismo, l’estremismo e la violenza in nome della religione”. Il seminario, presieduto dal vicepresidente di al-Azhar, 'Abbas Shuman, e dal Cardinal Jean-Louis Tauran, segna la ripresa del dialogo tra al-Azhar e il Vaticano.

[…] Il fanatismo religioso ha come caratteristica specifica, rispetto ad altre forme di estremismo, quella di servirsi del linguaggio della fede come forza di mobilitazione.

Non vi è nulla di sorprendente in questo: la religione è una delle grandi forze che sospingono l’uomo. Sembrerebbe facile liquidare la questione affermando che il fanatismo rappresenta un uso opportunistico della religione per scopi ad essa estranei, ad esempio di natura politica, ma in realtà le cose non sono così semplici: la maggior parte dei fanatici, compresi i loro capi, agisce in buona fede, senza ipocrisia. Rifiutarsi di fare i conti con questo dato di fatto significa condannarsi fin da subito a non comprendere il fenomeno.

I testi e la loro interpretazione

Il fanatico agisce dunque spesso in buona fede e nel farlo si serve di una serie di testi religiosi: per esempio, i comunicati di Isis sono intessuti di citazioni del Corano e degli hadith. Una delle questioni quindi, come è stato notato da molti, è quali siano le regole per una corretta interpretazione di questi testi. A breve noi cristiani cominceremo il tempo della Quaresima e ascolteremo un brano del Vangelo molto interessante, in cui si raccontano le tentazioni a cui Satana sottopone Gesù all’inizio del suo ministero pubblico (Mt 4,1-11). Se la prima di esse fa leva sul desiderio umano di Gesù di mangiare del pane, dopo aver passato quaranta giorni in digiuno, nella seconda tentazione Satana invoca un testo biblico – i versetti 11 e 12 del bellissimo Salmo 91 – per suggerire a Gesù di buttarsi dalla cima del tempio: «Sta scritto infatti “ai suoi angeli darà ordini al tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Alla provocazione Gesù risponde però: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Il breve brano evangelico mostra dunque che anche un testo rivelato, quale è per noi cristiani la Bibbia, può prestarsi a interpretazioni errate.

Analogamente, nell’epoca della prima fitna, ‘Alī così ammoniva ibn 'Abbas inviandolo a combattere i kharigiti: «Non citate loro il Corano, perché il Corano ha molti volti. Tu citi un versetto e loro ne citano un altro»[1]. Di fronte all’ambiguità originaria del testo, il compito è quindi definire le regole con cui leggerlo, mentre l’illusione più pericolosa è proprio pensare che non esistano regole.

Ma a chi spetta il compito di dettare le regole? Oggi in Occidente non è raro sentire non-musulmani spiegare ai musulmani come dovrebbero interpretare il Corano o gli hadith. Questo esercizio mi lascia personalmente molto scettico. Un conto infatti è analizzare un testo dal punto di vista scientifico, in forza dell’universalità della ragione umana che tutti ci accomuna; un’altra cosa però è proporre un’interpretazione vincolante a una comunità di fede a cui non si appartiene. Questo può avvenire, al limite, solo in punta di piedi e come una forma estrema di ospitalità.

Quello che invece si può certamente fare – e si deve fare, anche per rispetto delle vittime degli attentati terroristici – è, piuttosto che fornire delle risposte, porre delle domande. Come i musulmani interpretano questo o quel versetto, che ad esempio è utilizzato da Isis per giustificare le sue azioni criminali? Come rispondono alla sua propaganda? Se la sfida del jihadismo produrrà l’effetto di stimolare una riflessione in questi campi, il male che questo movimento ha seminato si trasformerà in un’occasione di bene. […]

La versione completa dell’intervento sarà pubblicata in un volume a cura del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e di al-Azhar.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

[1] Cfr. Jalāl al-Dīn al-Suyūtī, al-Itqān fî ‘ulūm al-Qur’ān, al-naw‘ al-tāsi‘ wa l-thalāthūn, fî ma‘rifat al-wujūh wa l-nazā’ir, Dār al-Kutub al-‘ilmiyya, Bayrūt 2010, p. 214.

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