Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:49:12

La morte di Joury al-Sayyed, una bambina di dieci mesi deceduta all’ospedale di Mazboud, a sud-est di Beirut, dopo alcuni giorni di febbre, incarna la spirale in cui il Libano continua a sprofondare. Il Ministero della Sanità ha aperto un’indagine sulla vicenda, mentre la famiglia denuncia la mancanza di farmaci nell’ospedale in cui la piccola era ricoverata. 

 

La versione della famiglia non stupisce, visto che nel frattempo le farmacie hanno lanciato uno sciopero contro la carenza di medicinali. Questa si prolunga infatti ormai da un mese a causa del ritardo con cui il Ministero della Sanità ha pubblicato la lista dei farmaci che continueranno a essere sovvenzionati dalla Banca Centrale Libanese.

 

Almeno due ospedali pubblici hanno persino minacciato la chiusura a breve se non riceveranno i finanziamenti promessi. Si è occupato della vicenda il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, che ha intervistato il personale medico in sciopero da giovedì. Alcuni medici dichiarano di non poter nemmeno permettersi il carburante per arrivare al lavoro, dal momento che i prezzi sono aumentati di due terzi dalla fine di giugno.

 

La leadership libanese continua quindi a essere nell’occhio del ciclone sia a causa della crisi economica che delle nuove proteste delle famiglie delle vittime dell’esplosione al Porto di Beirut di quasi un anno fa. I manifestanti si sono scontrati con la polizia di fronte alla residenza del ministro dell’interno Mohamed Fehmi, ciò che ha provocato feriti dall’una e dall’altra parte.

 

Guidata dalla Francia, l’Unione Europea sta preparando uno schema di sanzioni per mettere pressione sulla classe dirigente libanese affinché questa formi un governo e porti avanti le riforme necessarie a rispondere alla crisi. L’Egitto di al-Sisi, invece, si è reso disponibile a concedere al Libano un finanziamento d’emergenza. Lo rende noto Reuters, scrivendo che nell’incontro con Saad Hariri, avvenuto mercoledì, il presidente egiziano ha inoltre incoraggiato il primo ministro libanese designato a formare il governo.

 

Lo stesso giorno, non a caso, Hariri ha incontrato il presidente Aoun, al quale ha presentato una lista di ministri per superare l’impasse che si protrae dallo scorso 22 ottobre. Tuttavia, giovedì sera la situazione è precipitata e Hariri ha pubblicamente rinunciato all’incarico dopo l’incontro con Aoun. La versione dell’ex premier è che Aoun abbia richiesto rettifiche sulle nomine ministeriali proposte da Hariri, per ovviare a una sottorappresentazione cristiana e voler minare gli accordi di spartizione confessionale del potere (Hariri al contrario accusa Aoun di volere una “fetta” troppo grande). «Il più grande problema del Paese» ha detto Hariri ad Al Jadeed TV «è Michel Aoun, che è alleato di Hezbollah». Aoun d’altro canto accusa Hariri di non aver avuto alcuna intenzione di negoziare e di aver deciso di dimettersi a priori. «Possa Dio salvare il Paese», ha concluso Hariri di fronte alle telecamere. In seguito agli ultimi avvenimenti la lira è nuovamente sprofondata e i sostenitori dell’ex premier sono scesi in piazza.

 

L’agonia del sistema sanitario in Iraq

 

Anche in Iraq il tracollo della sanità è uno specchio della crisi del Paese. Nei reparti di terapia intensiva non si muore solo di Covid-19. Paradossalmente, a uccidere è anche l’ossigeno che dal virus dovrebbe salvare. Per la seconda volta in tre mesi, infatti, un’esplosione ha investito un ospedale del Paese dei due fiumi. Dopo l’episodio analogo avvenuto ad aprile a Baghdad, è stata ora la volta dell’ospedale al-Hussein, nella città meridionale di Nassiriya. La deflagrazione di lunedì sera, presumibilmente dovuta all’immagazzinamento improprio delle riserve di ossigeno usate per far fronte alla pandemia, ha causato un incendio che ha inghiottito il reparto Covid-19 inaugurato solo poche settimane fa con 70 nuovi posti letto.

 

Le vittime sinora registrate sono superiori alla capienza del reparto e continuano ad aumentare dal giorno dell’esplosione: 92 i morti accertati, ma si scava ancora per riesumare altri corpi dalle macerie. I raccapriccianti racconti dei testimoni dipingono «un inferno», come molti giornali l’hanno definito, in cui, oltre ai medici e ai pazienti, hanno perso la vita anche i parenti delle vittime, accorsi per cercare di salvare i propri cari.

 

La tragedia si colloca in una più ampia crisi di governance, la cui portata è evidenziata dalle proteste che dal 2019 ad oggi continuano a caratterizzare l’Iraq.

Meno di due settimane fa i manifestanti hanno riempito le strade per protestare contro i blackout e la gestione delle risorse idriche. Si tratta di due questioni cui i governi iracheni post-Saddam non sono ancora riusciti a far fronte, e che si aggiungono alle interferenze delle potenze straniere nella politica interna irachena anche attraverso milizie attive sul territorio.

 

Queste hanno buon gioco nell’offrire servizi di assistenza negli ambiti in cui il governo è carente, come quello sanitario, ma si sono anche rese responsabili di una serie di attacchi e uccisioni ai danni dei giovani manifestanti. Ad esempio, come riporta Middle East Eye, una delle voci più note del movimento di protesta, Ali al-Makdim, scomparso venerdì scorso, è stato ritrovato sabato sera con segni di tortura, e questo ha innescato altre manifestazioni. Il primo ministro al-Kadhimi lo ha visitato in ospedale.

 

I problemi dell’Iraq non finiscono purtroppo qui. Infatti, nonostante sia stato dichiarato sconfitto nel 2017, lo Stato Islamico continua a essere attivo nel Paese, in particolare nelle aree rurali e montuose, che sfuggono al controllo del governo centrale. Lo racconta un reportage del Guardian realizzato al seguito di un’operazione dell’esercito iracheno a caccia delle cellule jihadiste. Queste, seppur ormai ridotte al minimo e in uno stato di nomadismo, non rinunciano a portare a termine attacchi e uccisioni mirate. Alcuni ufficiali dell’esercito imputano all’organizzazione persino gli attacchi alla rete elettrica che hanno contribuito ai cali di corrente e alle conseguenti manifestazioni.  

 

Un altro problema irrisolto è la corruzione strutturale. Ne è consapevole il Presidente iracheno Salih, il quale ha dichiarato che, a prescindere dalle conclusioni cui giungerà la commissione di inchiesta, sarebbe stata anche questa una delle cause l’incendio. Il Washington Post riferisce le segnalazioni dell’Agenzia irachena per la Difesa dei Civili, la quale sostiene di aver ripetutamente allertato la direzione dell’ospedale intimandole di mettere in sicurezza le scorte di ossigeno. Il primo ministro ha ordinato una serie di sospensioni ed arresti nell’amministrazione ospedaliera e figure chiave sono state chiamate a riferire in parlamento, come indica in prima pagina il quotidiano emiratino The National.

 

I manifestanti, però, non si danno pace. Il Guardian riporta alcune dichiarazioni dei residenti in rivolta: «L’abbiamo portata per salvarle la vita» dice il nipote di una vittima che era ricoverata nel reparto Covid, «non per sacrificarla [nell’incendio]». E si chiede «Cos’è diventato questo Paese?».

 

Il Sultano va a Riyadh mentre continua lo stallo interno all’OPEC

 

Domenica 11 luglio, i grattacieli di Riyadh si sono illuminati di rosso e verde per salutare l’arrivo del sultano omanita Haitham bin Tariq. Accolto nella città di Neom dal principe Mohammad bin Salman, il sultano ha firmato un protocollo d’intesa con Re Salman che stabilisce la creazione di un consiglio di coordinamento per rafforzare le relazioni tra i due Paesi in materia di commercio, cultura e trasporti. La visita evidenzia una trasformazione nelle alleanze del Golfo, si legge su Bloomberg, che vede il Sultanato omanita, tradizionalmente neutrale, avvicinarsi al Regno saudita nel tentativo di diversificare un’economia troppo dipendente dal petrolio. Riyadh, da parte sua, dimostra di voler riavvicinarsi ai Paesi da cui si era tenuta a distanza per via dei loro rapporti con l’Iran, come l’Iraq, il Qatar e l’Oman, per l’appunto, in un momento in cui la storica alleanza con Abu Dhabi è incrinata da una crescente competizione.

 

Questa si è manifestata nel disaccordo sulla proroga dei tagli alla produzione di greggio nell’ambito dell’OPEC+, che dura dal 5 luglio e non ha ancora trovato soluzione. I mercati attendono il raggiungimento di un compromesso tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mentre la disputa, insieme alla diffusione della variante Delta del virus, ha fatto scendere il prezzo del petrolio.

 

Segni di distensione si sono registrati a metà settimana, grazie alle dichiarazioni del ministro dell’energia emiratino, che ha riconosciuto il progresso dei colloqui, specificando però che un accordo non è stato ancora raggiunto.

 

Oltre al crescente rifiuto di Abu Dhabi di piegarsi a Riyad, la questione solleva una serie di considerazioni economiche ed istituzionali. Courtney Freer, ricercatrice al Middle East Centre della London School of Economics, sottolinea ad esempio come la disputa tra i due Paesi del Golfo metta alla prova l’efficacia e l’attendibilità di cornici istituzionali come il Consiglio di Coordinamento tra Arabia Saudita ed Emirati, l’organo deputato alla risoluzione dei conflitti del Consiglio di Cooperazione del Golfo e l’OPEC+ stesso.   

 

Nikolay Kozhanov e Karen E. Young per il Middle East Institute prevedono che l’accordo OPEC+ non durerà molto più di un anno, dal momento che le divergenze e le disparità tra Paesi produttori potranno solo aumentare. Da quando è stato innestato sul precedente OPEC, l’OPEC+ ha visto Mosca affiancarsi a Riyad alla guida del cartello, con la prima interessata alla stabilità, la seconda alla crescita. Tuttavia, la Russia si è comportata secondo i due ricercatori da «enfant terrible», esigendo trattamenti di favore ed eccezioni che l’hanno resa la maggiore violatrice dell’accordo, mentre agli altri Paesi produttori veniva richiesta una disciplina molto più rigida. La riluttanza emiratina ad accettare questi favoritismi a proprio discapito è alla base dell’esigenza di Abu Dhabi di alzare l’asticella della produzione. «L’organizzazione sopravviverà all’attuale conflitto saudita-emiratino», concludono Kozhanov e Young, «ma dopo il 2022 si aprirà una nuova stagione».

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

La disfatta collettiva del Libano

 

Nelle ultime settimane la crisi che il Libano sta vivendo da quasi un anno si è aggravata ulteriormente e non lascia presagire nulla di buono.

Il politologo libanese Gerard Dib ha dipinto su al-Nahār (uno dei principali quotidiani arabofoni del Libano) un ritratto impietoso del suo Paese, che sta assistendo a un collasso a tutti i livelli e non vede soluzioni di salvataggio all’orizzonte. La scena pubblica è dominata dal caos, spiega Dib, i medicinali sono ormai introvabili, gli ospedali non riescono più a curare i pazienti, la benzina scarseggia e si registrano continue interruzioni della corrente elettrica, aumentano i movimenti di protesta quotidiani, e si verificano sempre più spesso attacchi alle proprietà pubbliche e private. Secondo il politologo, questa situazione è il risultato delle sanzioni occidentali alla Siria e del boicottaggio arabo, misure messe in atto per evitare che il Libano cada definitivamente nella sfera d’influenza iraniana, russa o cinese. Il libano è dunque diventato oggetto di contesa tra due assi: quello occidentale e quello orientale. Il suo timore è che il Paese possa diventare un nuovo Sudan o una nuova Bosnia Erzegovina con lo spettro della guerra civile e a seguire una secessione interna.

 

Per Nabil Boumonsef, vicedirettore di al-Nahār, quello che stanno soffrendo i libanesi in queste settimane «ha di gran lunga superato i peggiori standard di vita nei Paesi più poveri del mondo e negli Stati più falliti» con il rischio che il Paese sprofondi nel Medioevo.

Sul fronte opposto, il quotidiano libanese filo-sciita al-Akhbār ha invece pressoché ignorato la crisi in atto, limitandosi a riportare scarne notizie di cronaca politica.

 

Non è però solo la stampa libanese a essersi occupata della crisi del Paese. La questione infatti ha occupato le prime pagine di diversi quotidiani arabi. Al-Sharq al-Awsat ha pubblicato un editoriale dell’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, il quale abbraccia la tesi espressa dal patriarca maronita Bechara Ra‘i in occasione della celebrazione del centenario delle relazioni tra il patriarcato maronita e il regno dell’Arabia Saudita. Per uscire dalle sabbie mobili il Paese deve far leva su ciò che accomuna tutti i libanesi. Al-Ra‘i identifica il comune denominatore nell’appartenenza araba, che unisce da sempre i cristiani e i musulmani, in netta contrapposizione a Hezbollah che vorrebbe invece portare il Libano nella sfera d’influenza iraniana.

 

La giornalista e attivista libanese Farhat Joumana scrive su al-‘Arabī al-Jadīd (giornale indipendente con sede a Londra) che quanto accaduto in Libano è da considerarsi una «disfatta collettiva» iniziata il 4 agosto scorso con l’esplosione del porto di Beirut, e attacca la leadership libanese che ha cercato di insabbiare la verità, depistare le indagini e ha ignorato tutte le richieste di revoca dell’immunità.

 

La Turchia 5 anni dopo il tentato golpe

 

I quotidiani che simpatizzano per l’Islam politico hanno tutti ricordato il quinto anniversario del tentato colpo di stato in Turchia nel 2016. Arabī21 ha pubblicato una dettagliata cronologia degli eventi che si sono susseguiti la notte del 15 agosto 2016, correlata da una raffigurazione di Erdoğan che esulta vittorioso insieme a un gruppo di persone ritratte in piedi su un carro armato. Lo stesso quotidiano ha dato voce a Ismail Yasha (sostenitore del partito turco Giustizia e Sviluppo) che ha elogiato il popolo turco per essere sceso in piazza contro i golpisti e aver sventato il «sanguinoso tentativo di mettere fine alla democrazia e alla volontà popolare». Yasha ha anche denunciato la presenza di «cellule dell’entità parallela (in riferimento ai sostenitori di Gülen, accusati di aver orchestrato il colpo di Stato nel 2016) nei partiti politici dell’opposizione e nelle università. Cellule che il governo non è ancora riuscito a estirpare».

 

Al-Jazeera ha dato la parola all’ambasciatore turco in Qatar Mustafa Kuksu, che, nonostante il suo ruolo istituzionale, ha ricordato in termini epici la notte del 15 luglio 2016: «il popolo turco e le varie forze politiche hanno scritto un’epopea eroica immortale, diventata un modello per altri popoli che si trovano ad affrontare dei colpi di Stato militari». Dopo essersi dilungato su di una presunta cospirazione internazionale per soggiogare il popolo turco alla tirannia del governo militare, l’ambasciatore ha celebrato i successi conseguiti dalla Turchia negli ultimi cinque anni sia a livello geopolitico che economico e ringraziato l’emiro del Qatar per il sostegno dato al suo Paese.

 

In breve

 

Il giornalista di Reuters Danish Siddiqui è stato ucciso in Afghanistan mentre seguiva uno scontro tra le forze regolari di Kabul e i talebani in una zona di confine con il Pakistan.

 

Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha criticato il ritiro americano dall’Afghanistan, accusando gli Stati Uniti di essere responsabili dell’instabilità della regione (New York Times).

 

Le relazioni tra l’Arabia Saudita e l’Etiopia sono peggiorate dopo che Riyadh ha preso la parte di Egitto e Sudan nella disputa relativa alla Grande Diga del Rinascimento Etiope – GERD (al-Monitor).

 

La corte di giustizia europea ha stabilito che vietare di portare il velo islamico sul luogo di lavoro non è un atto discriminatorio (Le Point).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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