Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:47:04

I negoziati in seno all’OPEC+ che avrebbero dovuto portare all’estensione temporale dei tagli alla produzione voluta dall’Arabia Saudita sono stati bruscamente interrotti per via della contrarietà degli Emirati Arabi Uniti. A partire da questo fatto, che ha spinto verso l’alto il prezzo del petrolio, sono cominciate le speculazioni riguardo lo stato dei rapporti tra Riyadh e Abu Dhabi.

 

Abu Dhabi vuole che le quote di tagli alla produzione assegnate a ciascuno Stato siano riviste perché, come ha spiegato Karen Young, sono basate sulla capacità produttiva registrata a ottobre del 2018 e da quel momento, grazie a consistenti investimenti, il potenziale emiratino è aumentato di quasi il 20%. Anche se infine venisse raggiunta un’intesa, il disaccordo tra Emirati ed Arabia Saudita è foriero di altre contese e dell’aumento della volatilità dei prezzi, si legge sull’Economist. Abu Dhabi e Riyadh sono in competizione su un numero crescente di questioni, ma continuano ad avere bisogno una dell’altra, sostiene Bader al-Saif (Carnegie Endowment). L’alleanza proseguirà come è proseguita dopo altri disaccordi (si pensi a Yemen, Qatar, Israele e Turchia) perché «i benefici sono maggiori dei costi». Al tempo stesso, ciò che sta avvenendo rappresenta più di un’incrinatura all’interno di una relazione bilaterale: assistiamo infatti a una «ricalibratura generale» delle dinamiche della regione evidenziate in maniera chiara dalla «crescente competizione economica nel Golfo e dalla voce sempre più assertiva degli Emirati».

 

Se torniamo indietro di poco tempo ci accorgiamo però che quello a cui stiamo assistendo è solo l’ultimo tassello della competizione tra Arabia Saudita ed Emirati. Avevamo infatti già osservato la decisione saudita di imporre alle multinazionali che operano nel Regno di avere sede in Arabia Saudita, creando un potenziale danno a Dubai; la sfida lanciata ad Emirates con il lancio di un progetto per una nuova compagnia aerea saudita; il piano di investimenti da oltre 130 miliardi di dollari per trasformare il Regno in un hub della logistica e dei trasporti, ponendolo anche in questo caso in contrasto con Dubai (e Doha); infine la sospensione dei voli per gli Emirati, ufficialmente a causa dei timori per la variante Delta del Coronavirus.

 

Come ha scritto Annelle Scheline su Responsible Statecraft «prese tutte insieme queste mosse indicano l’acuirsi delle tensioni tra i due Paesi, e in particolare tra i loro potenti principi ereditari, MbS dell’Arabia Saudita e MbZ di Abu Dhabi». Ma nonostante la precedente vicinanza tra i due leader la cosa non deve stupire, osserva Scheline: «MbS vede l’Arabia Saudita come il legittimo potere dominante della regione» e si muove conseguentemente per occupare la posizione che ritiene consona in ambito economico, una posizione che lo porta inevitabilmente ad avere interessi confliggenti con gli Emirati.

 

Kristian Coates Ulrichsen sul sito Gulf International Forum pone la questione in prospettiva storica. E osservandola da questo lato la sorpresa non è che ora emergano divergenze tra Riyadh e Abu Dhabi, bensì il fatto che nel decennio iniziato con le primavere arabe del 2010-2011 il Regno e gli Emirati siano stati così allineati. Negli anni precedenti, fin dalla fondazione degli Emirati Arabi Uniti da parte di Sheikh Zayed, le controversie erano all’ordine del giorno. Tuttavia secondo Ulrichsen il modo con cui le dinamiche si stanno svolgendo suggerisce che le dispute assumeranno connotati economici e non politici.

 

Gli Stati Uniti se ne vanno da Bagram, i talebani avanzano

 

Gli Stati Uniti hanno abbandonato di notte la base militare di Bagram, senza avvisare la controparte afgana che, secondo quanto affermato dal generale Mir Asadullah Kohistani, nuovo comandante della base, se ne è resa conto soltanto alle 7 del mattino seguente. Prima che le forze afgane potessero prendere il controllo dell’area le baracche sono state depredate. Una serie di foto pubblicate dal Guardian mostra lo stato della base dopo i saccheggi ed evidenzia che tra le cose lasciate indietro dagli Stati Uniti ci sono molti veicoli, inclusi quelli corazzati per resistere alle mine e agli IED.

 

Tra giovedì e venerdì i talebani si sono impossessati di un importante valico di frontiera nella zona occidentale, al confine con l’Iran, mentre il weekend precedente al ritiro americano da Bagram i talebani hanno conquistato altri distretti nelle province di Badakhshan e Kandahar, nel nord del Paese, dove più di 1000 soldati sono stati costretti a ritirarsi oltre il confine con il Tajikistan per mettersi in salvo dall’avanzata talebana. Secondo quanto riportato dalla BBC i talebani sono ora in controllo di circa un terzo dell’Afghanistan, mentre negli ultimi quindici giorni in cinque occasioni i soldati afgani sono stati costretti a cercare rifugio nel confinante Tajikistan. Le numerose battute d’arresto dell’esercito afgano, che si trova a fronteggiare senza aiuti esteri un livello di combattimento mai sperimentato, influiscono pesantemente sul morale delle truppe, ha scritto Kawoon Khamoosh. Le notizie fanno pensare che sarà molto difficile per l’esercito afgano resistere all’offensiva talebana: ulteriori preoccupazioni derivano dal fatto che numerose milizie (come quella incontrata e descritta da al-Jazeera nella provincia di Parwan) sono pronte a prendere il posto dell’esercito afgano, «con tutti i rischi di frammentazione interna e di ricadute regionali che questo comporterà», ha scritto Davide Cancarini. Un pericolo previsto anche da Stratfor, che ricorda la lunga storia di cambi di casacca delle milizie afgane: non sarebbe una sorpresa eccessiva se utilizzassero le armi per combattersi tra loro più che per combattere i talebani, col rischio di far sprofondare il Paese in una nuova guerra civile.

 

Ma al di là delle conquiste territoriali (certamente importanti perché ora i talebani controllano zone come Kunduz, che permette loro di avere accesso alla rotta commerciale verso l’Asia centrale), questi successi sono rilevanti perché garantiscono ai talebani nuove carte da giocare nel corso di futuri negoziati con il governo di Kabul.

 

Ancora una volta, mentre si apprestano a lottare per riconquistare il Paese, i talebani possono contare su un fidato alleato: il Pakistan e i suoi servizi segreti. È questo quanto emerge da un’analisi pubblicata su Limes (ma ribadita anche da un ex senatore pakistano), secondo la quale i talebani – coordinati per l’appunto dall’ISI pakistano – raccolgono fondi e reclute in diverse province pakistane. Islamabad spera infatti che a Kabul possa insediarsi un governo che non sia né filo-americano né filo-indiano. Un obiettivo – aggiunge Limes – condiviso con la Cina, che da anni parla direttamente con i taliban, facendo accordi per il prossimo futuro». Gli interessi cinesi? Sostanzialmente due: primo, l’Afghanistan è importante per «il trasporto e le potenziali fonti di energia» e, secondo, la preoccupazione che l’instabilità possa avere effetti negativi per Pechino, in particolare influenzando il separatismo musulmano nello Xinjiang. Proprio per questo l’Afghanistan «è il perfetto esempio di come sarà sempre più difficile per la Cina evitare di rimanere ingarbugliata nelle questioni politiche e di sicurezza locali delle regioni dove [Pechino] ha considerevoli interessi economici», si legge sul Financial Times.

 

In un discorso di circa mezzora giovedì il presidente americano Joe Biden ha difeso la sua scelta di completare il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan entro il 31 agosto, affermando che gli Stati Uniti hanno raggiunto gli obiettivi che si erano posti al momento dell’intervento: non l’avvio di un processo di nation-building, ha detto Biden, bensì l’eliminazione di Osama bin Laden e la guerra ad al-Qaida. Ma ora «gli Stati Uniti non possono più permettersi il costo umano o la distrazione strategica (corsivo nostro) di combattere la guerra in Afghanistan».

 

Sprofondo Libano

 

«Il Libano è a pochi giorni dall’esplosione sociale»: così si è espresso il primo ministro ad interim Hassan Diab. Ne abbiamo già parlato in altre edizioni del nostro Focus attualità, ma ricordiamo brevemente l’entità della crisi, peggiorata dalla pandemia e dall’esplosione di quasi un anno fa al porto di Beirut: la moneta libanese ha perso oltre il 90% del suo valore, azzerando il potere d’acquisto dei cittadini, con più della metà della popolazione che vive in povertà e la disoccupazione in crescita. Elementi che hanno portato la Banca mondiale a definire quella libanese una delle tre crisi economiche più gravi dal 1800.

 

Le riserve di valuta estera sono state prosciugate e come ha scritto questa settimana la BBC ciò implica anche la difficoltà a pagare i fornitori stranieri. Un caso particolarmente grave è quello riguardante i rifornimenti di medicine: alcuni centri di assistenza sanitaria hanno già esaurito i medicinali necessari per la cura dei tumori e delle malattie cardiache. Come ha scritto Ben Hubbard sul New York Times la crisi aggiunge un elemento di instabilità in un Paese «al centro del Medio Oriente, che un tempo era un hub culturale e finanziario e adesso ospita almeno un milione di rifugiati dalla vicina Siria».

 

E mentre le code per rifornirsi di carburante continuano ad allungarsi (Ben Hubbard nel suo reportage racconta le storie di alcune persone incontrate nelle lunghe ore di attesa necessarie per il rifornimento), il contrabbando prende piede e penalizza ulteriormente l’economia libanese. I contrabbandieri, infatti, trovano vantaggioso acquistare benzina in Libano a un prezzo fortemente sussidiato, per poi rivenderlo sul mercato nero siriano. Anche il ministro dell’Energia libanese ha dovuto riconoscere lo squilibrio del sistema che rende questa pratica profittevole, si legge sul Washington Post.

 

In questa fase diventa fondamentale il supporto che il Libano può ricevere dall’estero. Tutto è complicato dal fatto che il governo in carica a Beirut è dimissionario da ormai un anno, ma le parti politiche non riescono a trovare un accordo per formarne uno nuovo e legittimato. Qualcosa comunque si muove: rispondendo a una richiesta esplicita da parte dell’esercito libanese, il Qatar ha annunciato che fornirà 70 tonnellate di cibo al mese alle forze armate libanesi, mentre il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, preoccupato anche che la crisi possa portare a un rafforzamento della presenza iraniana in Libano, si è offerto di fornire aiuti umanitari.

 

A livello diplomatico potrebbero esserci sviluppi significativi: dopo l’incontro svoltosi a margine del G20 in Italia tra i capi delle diplomazie di Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita, gli ambasciatori americano e francese a Beirut si sono recati in visita in Arabia Saudita per «spiegare quanto sia urgente che le autorità libanesi formino un governo efficace e credibile per implementare le necessarie riforme» senza le quali è impossibile accedere in particolare ai finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale. Il tentativo francese e americano è di coinvolgere l’Arabia Saudita, la quale finora, a differenza di quanto avvenuto in passato, non ha voluto esporsi nel salvataggio del Libano.

 

Le proteste in Iran per i tagli alla corrente elettrica

 

Il 3 luglio l’emittente della Repubblica Islamica dell’Iran (IRIB) ha comunicato la ripresa delle attività della centrale nucleare di Bushehr dopo che queste erano state interrotte per due settimane di manutenzione all’impianto. Ciò non è bastato a placare le diffuse proteste popolari contro le interruzioni di corrente elettrica, che da maggio a questa parte si sono fatte più frequenti nell’ultima settimana. I blackout sono in parte riconducibili alle condizioni climatiche estreme che hanno causato problemi alla rete elettrica di molti altri paesi della regione, come pure alla pianificazione delle autorità iraniane che tentano di far fronte alla domanda eccedente la capacità energetica nazionale, spiega Iran International, emittente persiana con base a Londra. Dopo che Teheran e altre città sono state lasciate al buio senza preavviso durante il weekend, anche i media e il parlamento hanno criticato la gestione della situazione. In un raro gesto, il Presidente uscente Rouhani si è scusato pubblicamente, ma ha invitato la popolazione a collaborare.

 

Le sfide del nuovo governo israeliano

 

Dopo la questione dell’insediamento illegale di Evyatar, è ora il voto sull’estensione ai Palestinesi cittadini israeliani  del divieto di ricongiungimento familiare  (The Citizenship and Entry into Israel Law Emergency Order, 2003) a mettere alla prova il nuovo governo israeliano. Il voto era previsto per lunedì 5 luglio, ma le discussioni sono proseguite tutta la notte. Dopo che la Ministra degli Interni Shaked ha annunciato il raggiungimento di un compromesso e il Primo Ministro Bennett si è riferito al voto come a un voto di fiducia, la mozione non è sorprendentemente passata, con 59 voti contrari e due astenuti di Ra’am. L’editoriale di Haaretz riflette sull’accaduto ed evidenzia come la proroga della legge sia stata ostacolata dall’opposizione di Netanyahu, che un tempo voleva farne una legge costituzionale (Basic Law), e appoggiata invece dai partiti governativi di sinistra che storicamente la osteggiavano. Inoltre, l’episodio getta luce anche sulla strategia di compromesso adottata dal primo partito arabo al governo per influenzare la politica israeliana dal suo interno.

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Ankara e il Cairo si avvicinano: quale futuro per i Fratelli musulmani?

 

Questa settimana, diversi quotidiani arabi si sono interrogati sul futuro dei Fratelli musulmani. Il tema è diventato oggetto di grande dibattito da quando, questa primavera, Turchia ed Egitto hanno avviato un percorso per riallacciare le relazioni diplomatiche, in crisi da quando nel giugno 2013 l’esercito egiziano era intervenuto per destituire l’allora presidente Muhammad Morsi, decretando la fine della breve esperienza di governo dei Fratelli musulmani. Da quel momento, la Fratellanza è stata oggetto di una dura repressione e molti suoi membri hanno trovato rifugio in Turchia. Il loro destino è ora in bilico, perché il riavvicinamento tra il Cairo e Ankara potrebbe peggiorare la loro già difficile situazione.

 

Il quotidiano emiratino al-‘Ayn, tradizionalmente ipercritico verso l’organizzazione islamista, titola “La nave della Fratellanza turca… senza porto e senza comandante” e commenta la notizia secondo cui Ibrahim Munir, facente funzione della guida generale della Fratellanza, in esilio a Londra, ha deciso di chiudere l’ufficio amministrativo della confraternita in Turchia. «Conflitti e divisioni hanno devastato l’organizzazione terroristica, trasformandola in un cancro» scrive al-‘Ayn, spiegando che al rapido crollo della Fratellanza in Turchia hanno contribuito il riavvicinamento tra Ankara e il Cairo, e il cattivo rapporto dei Fratelli turchi con l’ufficio di Londra. E conclude che «l’organizzazione terroristica della Fratellanza si è spaccata […] non solo nella regione araba, ma anche in Occidente».

 

Il quotidiano filo-saudita al-Sharq al-Awsat propone una riflessione più ampia, affermando che “La morte dell’Islam politico è iniziata in Marocco”. Il giornalista saudita Muhammad al-Quwayz ha elogiato l’astuzia politica di re Mohammad VI che, all’indomani delle Primavere arabe, ha saputo arginare i Fratelli musulmani lasciandoli governare. Nel 2011 Mohammed VI aveva infatti indetto le elezioni con un anno di anticipo incaricando poi Abdelilah Benkirane, segretario generale del primo partito del Paese, l’islamista Giustizia e sviluppo di formare il governo. Lo stesso sarebbe accaduto dopo le elezioni del 2016. Secondo il giornalista, il merito del re è aver concesso una chance all’Islam politico che, salito al potere, ha dato prova di non saper governare. «I popoli scontenti si sono illusi per generazioni che i partiti islamisti avessero la soluzione a tutti i loro problemi […] e [Mohammad VI] ha deciso di dimostrare la falsità di quell’illusione impedendo ai Fratelli di sfruttare la Primavera araba per diffondere il caos».

 

Opposta è la posizione del quotidiano filo-islamista ‘Arabī21, che tuttavia non nasconde le difficoltà della Fratellanza. Shaykh Essam Talima, esponente dei Fratelli musulmani egiziani, fa una diagnosi dello stato di salute della confraternita e lancia l’allarme sulla necessità di iniziare al più presto un intervento di riorganizzazione del movimento. Lo shaykh ritiene infatti che nella Fratellanza ci sia un problema «a livello di idee, relazioni, e progetti», e un difetto nella sua «visione dell’oppressione e dell’altro, della leadership e dell’istituzione». La Fratellanza avrebbe perciò «il dovere di ascoltare i problemi e le lacune segnalati da chi fa parte del movimento, ma cercare la soluzione all’esterno del gruppo» perché chi è dentro è incapace di dare delle risposte adeguate. Un altro aspetto su cui la Fratellanza dovrebbe lavorare è la riorganizzazione dei rapporti interni: se fino a qualche tempo fa i Fratelli egiziani si vantavano di essere un gruppo molto compatto, a differenza dei Fratelli di altri Paesi arabi, ora non è più così.

 

Sempre su ‘Arabī21, lo scrittore turco Ismail Yasha (sostenitore del partito turco Giustizia e Sviluppo) difende la decisione della Turchia di riavvicinarsi all’Egitto come scelta di politica estera del Paese, ma tiene comunque a precisare che l’opinione turca rispetto al «regime golpista» del Cairo non è cambiata: «Abdel Fattah al-Sisi rimane un golpista criminale che ha tradito il primo presidente eletto deponendolo e uccidendolo a sangue freddo, ha usurpato la volontà del popolo egiziano con la forza delle armi e trasformato il Paese in un grande palcoscenico per le esecuzioni». E conclude chiedendo a Dio una benedizione per i colleghi egiziani che vivono in esilio in Turchia (e a cui le autorità turche hanno chiesto di interrompere tutte le attività di opposizione a Sisi) perché la loro battaglia mediatica abbia successo e possano tornare in Egitto quando il «regime golpista» sarà caduto.     

 

Anche al-‘Arabī al-Jadīd s’interroga sul futuro dei Fratelli musulmani e titola “Il ritorno in politica dei Fratelli”. Secondo l’autore dell’articolo, Erdoğan non ha abbandonato i Fratelli al loro destino, ma si starebbe coordinando con loro e con gli Stati Uniti in vista di un loro ritorno in politica. Nella visione del giornalista, sarebbe irragionevole rimescolare le carte nella regione senza restituire ai Fratelli musulmani un posto nella vita politica egiziana, almeno come forza di opposizione. Secondo il giornalista, a segnalare l’esistenza di un’intesa tra il governo di Sisi e la Fratellanza sarebbe la mancata esecuzione delle condanne a morte recentemente emesse contro alcuni capi del movimento, ai quali sarebbe stata concessa la grazia.

 

Con la collaborazione di Miriam Zenobio

 

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