Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:07

Nel giugno scorso, su iniziativa dello shaykh di al-Azhar Ahmed al-Tayyeb, alcuni membri della celebre università religiosa cairota hanno prodotto insieme ad alcuni intellettuali egiziani «di varia estrazione culturale e religiosa» un comunicato sul futuro dell’Egitto. Il testo ha trovato vasta eco nei media nel Paese soprattutto per via delle sue aperture in direzione di uno Stato democratico, ma ha suscitato più di un perplessità, soprattutto in Occidente, tra chi vi vede solo un’operazione in vista delle prossime elezioni. In realtà il manifesto non è probabilmente riducibile alla sola dimensione “elettoralistica”, né interpretabile alla luce di un paragone sempre rischioso tra la lettera del testo e le reale intenzioni dei suoi firmatari. Benché rivolto a tutte le forze politiche egiziane affinché riconoscano il diritto del popolo «alla libertà, alla dignità, all’uguaglianza e alla giustizia sociale», esso va letto innanzitutto come un documento programmatico attraverso il quale al-Azhar cerca di ricollocarsi sulla scena pubblica egiziana dopo la rivoluzione del 25 gennaio. Dopo tentennamenti e silenzi iniziali la grande moschea-università prende posizione sull’attuale frangente storico, candidandosi a orientarlo in virtù del suo tradizionale ruolo di faro religioso, culturale, morale e civile. Gli estensori del comunicato chiedono in particolare la restituzione alla moschea della sua indipendenza dal potere politico, in particolare per ciò che riguarda l’elezione dello shaykh. Essi si rifanno così a un’età dell’oro dell’istituzione, quella appunto della non-subordinazione allo Stato egiziano, secondo un leitmotiv della sua auto-comprensione, non priva di accenti mitici. Nella rilettura della storia egiziana, il documento fa più volte riferimento all’impulso progressista e innovatore che in passato la moschea ha saputo imprimere alla società e alla cultura del Paese, nel rispetto del suo patrimonio culturale e religioso. Qui le autorità di Al-Azhar si inseriscono idealmente nella linea dei grandi protagonisti della stagione del riformismo islamico del secolo scorso. Ma l’aspetto che ha suscitato più reazioni è senza dubbio la visione politica contenuta nella dichiarazione. I dotti di al-Azhar si esprimono senza remore a favore dell’edificazione di una democrazia compiuta, fondata sulla «separazione dei poteri», su «elezioni libere», sui «diritti e doveri di tutti gli individui in condizioni di parità», «sull’etica del dialogo». Quanto al ruolo dell’Islam, non ci sono silenzi “strategici”. La dichiarazione fa cenni espliciti alla necessità di considerare «i principi generali della sharî‘a fonte essenziale della legislazione» e al dovere di Al-Azhar di chiarire le basi di una «politica ispirata ai principi della sharî‘a (siyâsa shar‘iyya)». Certo, non si dice cosa queste formule significhino concretamente, ma la ragione di tale omissione va cercata in una più generale incertezza dell’attuale riflessione politica sunnita dopo la stagione delle teorie islamiste sullo Stato islamico. Sulla libertà religiosa non ci sono aperture e il documento si limita ad invocare il pieno rispetto della libertà di culto. Qualche ambiguità si trova semmai nella traduzione inglese e francese pubblicata sul sito ufficiale dell’Ente egiziano per l’informazione, dove i termini più specificamente attinti al linguaggio tecnico islamico vengono resi con termini più neutri (per esempio siyâsa shar‘iyya, è tradotto con “politica legale”). Sarebbe d’altra parte irrealistico aspettarsi proprio da al-Azhar dichiarazioni a favore dell’arretramento dell’Islam e della sharî‘a dalla scena pubblica egiziana. La sfida che la moschea dovrà accettare non è tanto l’alternativa tra l’applicazione e la non applicazione della sharî‘a, quanto quella di spiegare in che termini l’Islam, e la sua legge, rispondono al desiderio di libertà e giustizia del popolo egiziano.