Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:21:53

La prigione di Hassaké, nel nordest della Siria, ospitava circa 3.000 prigionieri, la maggior parte dei quali combattenti dello Stato Islamico catturati al termine della battaglia di Baghuz che nel 2019 pose fine allo Stato Islamico come entità territoriale. Usiamo l’imperfetto perché è in questa prigione che giovedì scorso Isis ha lanciato un attacco in grande stile, senza dubbio il più importante degli ultimi tre anni: due autobombe hanno aperto un varco nella prigione, permettendo ai prigionieri di uscire dalle celle, uccidere le guardie e impossessarsi delle loro armi. Subito dopo, come ha affermato il generale John W. Brennan, comandante della coalizione anti-Isis, i miliziani hanno dato vita a una battaglia contro le forze curde di reazione rapida che controllano l’area. Come ha ricordato il Washington Post si tratta di una regione che “ospita” almeno 10.000 prigionieri dell’Isis, tenuti in carceri sovraffollate e spesso scarsamente difese. La battaglia alla prigione di Ghweiran prosegue tuttora, con le forze curde che hanno ripreso il controllo di un edificio grazie al sostegno statunitense sia aereo che terrestre. Stando a quanto dichiarato dal portavoce delle Syrian Democratic Forces, la battaglia ha finora causato la morte di 30 combattenti curdi e 200 terroristi, mentre non è chiaro quanti miliziani siano riusciti a fuggire. Lo scenario è complicato dal fatto che le rimanenti forze di Isis si sono acquartierate in un’area della prigione che ospita i minori, i quali secondo l’Associated Press sarebbero utilizzati come scudi umani. In totale, si legge in un approfondimento di Ben Hubbard, sarebbero 700 i bambini e ragazzi presenti nella prigione di Hassaké: «dormono in gruppi di 15 in celle senza finestre, […] stanno all’aria aperta e vedono il sole durante le uscite in un cortile recintato, ma non ricevono visite. Vanno dai 10 ai 18 anni e non hanno ricevuto nessuna istruzione da quando sono stati incarcerati tre o più anni fa». Tra loro, almeno 150 sarebbero stranieri non arabi che gli stati di origine si sono rifiutati di rimpatriare una volta individuati. Come ha inoltre affermato l’Onu, la maggior parte non è mai stata accusata di alcun crimine, motivazione che ha ulteriormente spinto Vladimir Voronkov, vice-segretario generale delle Nazioni Unite, a incoraggiare gli Stati di origine a rimpatriare queste persone.

 

Questa, in estrema sintesi, la cronaca della situazione. Ma come interpretare quanto sta avvenendo?

 

Il primo elemento da sottolineare (ed è stato detto numerose volte e in svariate sedi) è che i problemi sociali e politici che hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo dello Stato Islamico non sono stati risolti. E questo vale sia per l’Iraq e la Siria in generale sia nello specifico per l’amministrazione curda, che è fragile e deve fronteggiare contemporaneamente la presenza dello Stato Islamico, quella ostile della Turchia e quella dello Stato siriano, intenzionato a riportare la zona semi-autonoma sotto il suo controllo. In secondo luogo, come ha ricordato l’Economist, le fughe dalle prigioni «hanno giocato un ruolo centrale nella mitologia [e nell’ascesa, N.d.R.] dello Stato Islamico»: nel 2007 la fuga dal carcere di Badush ha liberato 140 detenuti, mentre cinque anni più tardi il gruppo terroristico ha lanciato la campagna “Rompere i muri”, una serie di attacchi coordinati alle prigioni irachene che è culminata nel luglio 2013 nell’assalto simultaneo alle prigioni di Taji e Abu Grahib che ha portato alla fuga di più di 500 membri o futuri membri del gruppo terroristico. L’attacco di questi giorni, dunque, ricorda quanto avvenuto prima che Isis acquisisse la sua dimensione territoriale. Ma soprattutto conferma, e lo sottolinea di nuovo Ben Hubbard insieme a Jane Arraf, che il ritorno – seppur in forma differente – di Isis nel teatro siro-iracheno è ormai una realtà.

 

Isis ha infatti notevolmente aumentato il numero degli attacchi: oltre a quello alla prigione di Ghweiran, nell’ultimo mese ha preso di mira le forze irachene (solo l’attacco a Diyala ha provocato la morte di 11 soldati), ha diffuso un video con la decapitazione di un poliziotto e organizzato degli scontri nei pressi di Raqqa.

 

Intanto in alcune zone della Siria, dove Isis peraltro non è presente, o lo è solo in minima parte, la situazione della minoranza cristiana non fa che peggiorare. Lo ha documentato il New York Times, che evidenzia come nella città di Idlib, dopo l’arrivo degli islamisti, siano rimasti ufficialmente soltanto tre cristiani.

 

Gli houthi attaccano ancora

 

A più di una settimana di distanza si continuano a valutare gli effetti e le conseguenze dell’attacco degli houthi ad Abu Dhabi e dei successivi bombardamenti che hanno colpito lo Yemen provocando numerose vittime. Se la speranza degli Emirati è che l’attacco subito convinca gli Stati Uniti a porre maggiore pressione sul gruppo militante sciita, quanto avvenuto mostra anche che «il ridimensionamento del proprio ruolo militare in Yemen non ha posto fine all’esposizione di Abu Dhabi. Sostenere i suoi alleati locali o coltivare le relazioni con l’Arabia Saudita porrà sempre scelte difficili davanti alla leadership emiratina», ha affermato il ricercatore Emile Hokayem al Financial Times. È sulla stessa linea il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, secondo cui in realtà «dopo il ritiro, Abu Dhabi ha continuato a sostenere [i suoi alleati locali] per perpetuare la sua influenza e proteggere i suoi interessi in Yemen».

 

Gli houthi evidentemente hanno la medesima convinzione, dato che lunedì hanno provato a colpire la base militare di Al Dhafra, che ospita 2000 soldati americani in territorio emiratino. I sistemi di difesa hanno intercettato i missili in arrivo, che non hanno perciò causato morti o feriti. È in fondo chiaro quale sia l’obiettivo degli houthi nel prendere di mira non più solo i sauditi: far crollare l’immagine di Paese estremamente sicuro che gli Emirati si sono guadagnati. E Yahya Sarea, portavoce militare degli houthi, l’ha detto piuttosto chiaramente: investitori e società straniere dovrebbero lasciare gli Emirati, ormai «diventati una nazione insicura che sarà attaccata regolarmente finché continuerà la sua aggressione e l’assedio al popolo yemenita». Massima espressione di questa tattica sarebbe un attacco al sito Expo2020 di Dubai, che gli houthi hanno già minacciato. Le ultime mosse degli houthi sono molto rischiose, ma sono state decise perché più che dall’isolamento diplomatico il gruppo è preoccupato dalle sconfitte sul campo (in particolare nella provincia di Marib e Shabwa), si legge in un’analisi pubblicata dal Washington Institute for Near East Policy.

 

Tuttavia, anche se gli houthi fingono di non preoccuparsene, c’è un filo che parte da Marib e Shabwa, passa per Abu Dhabi, e arriva a Vienna, dove sono in corso i negoziati sul nucleare iraniano. Come ha infatti scritto Hussein Ibish per l’Arab Gulf States Institute in Washington, non solo gli attacchi agli Emirati sono una reazione alle sconfitte sul campo, ma è impossibile ignorare il ruolo dell’Iran nel fornire mezzi e know-how necessari per attaccare gli Emirati. Di fatto, «gli houthi hanno reso globale la battaglia per Shabwa».

 

L’Afghanistan appeso a un filo

 

Continuano gli appelli delle Nazioni Unite per l’Afghanistan. Il Segretario Generale Antonio Guterres ha richiamato il Consiglio di Sicurezza dicendo che «l’Afghanistan è appeso a un filo» e per questo è urgente «autorizzare tutte le transazioni necessarie per svolgere le attività umanitarie». Occorre fornire alle istituzioni finanziarie e ai partner commerciali l’assicurazione che operando per scopi umanitari sia impossibile incappare nelle sanzioni, ha proseguito Guterres. Secondo Vicki Aken, direttrice per l’Afghanistan dell’International Rescue Committee, «la situazione umanitaria va di male in peggio»: una fetta sempre maggiore della popolazione afghana è incapace di programmare quando sarà il suo prossimo pasto e i tassi di malnutrizione raddoppiano di settimana in settimana. Eppure, il cibo c’è: a mancare è il denaro per acquistarlo. La situazione infatti ha una sua natura peculiare: non è soltanto una crisi umanitaria, bensì la combinazione di quest’ultima con il collasso economico e con il fallimento dello Stato. E ciascuna di queste crisi, ha affermato Ciaran Donnelly, rafforza le altre in un perfetto circolo vizioso.

 

Nel mese di gennaio gli Stati Uniti hanno annunciato oltre 300 milioni di dollari in aiuti umanitari, ma come ha scritto Ben Fox per l’Associated Press, c’è una crescente pressione affinché Washington faccia di più. Per esempio sbloccare i circa 7 miliardi di dollari di fondi afghani congelati presso la Federal Reserve americana. Si tratterebbe di un flusso economico fondamentale per l’Afghanistan, ma il mancato riconoscimento del governo talebano e le sanzioni rendono la decisione politicamente sensibile. E poi c’è una questione legale che complica ulteriormente il quadro: le famiglie delle persone uccise l’11 settembre 2001 hanno presentato una richiesta di utilizzo di quei fondi per pagare la causa che hanno intentato contro al-Qaida e i Talebani.

 

Un altro colpo di Stato in Africa

 

Recentemente avevamo parlato del colpo di Stato in Mali, il terzo in 18 mesi in Africa occidentale. I conti vanno di nuovo aggiornati, spostandosi di poco a oriente di Bamako. È infatti toccato al Burkina Faso vedere l’ascesa di un militare ai vertici dello Stato, in una scena che in Africa occidentale è ormai definita «banale» da Jeune Afrique. Il presidente Roch Kabore è stato infatti deposto dall’esercito, che ha sciolto anche governo e parlamento, sospeso la Costituzione e chiuso le frontiere. Il potere è stato assunto dal colonnello Paul-Henri Damiba, precedentemente nominato proprio da Kabore come responsabile della sicurezza di Ouagadougou. Stando a quanto si legge sul sito della CNN, è dallo scorso agosto che il golpe era in preparazione e la motivazione principale a spingere i militari a prendere il potere è l’insoddisfazione nei confronti dei metodi con cui il governo civile gestiva la sicurezza e la difesa dagli attacchi jihadisti. Preoccupata da questi problemi, e stanca per le continue vittime del terrorismo, una parte della popolazione ha celebrato positivamente il colpo di Stato.

 

In breve

 

Perché un’invasione russa dell’Ucraina sarebbe un grosso problema per la Turchia? Per la cooperazione tra Ankara e Kiev in materia di armamenti e perché crescerebbe il potere russo nel Mar Nero (Middle East Eye).

 

Nadia Akacha, capo di gabinetto del presidente tunisino Kais Saied, ha rassegnato le dimissioni per divergenze di vedute con il Capo dello Stato (Al Jazeera). Secondo il Financial Times, Saied sta conducendo la Tunisia su un sentiero molto pericoloso ed è fondamentale che affronti la crisi economica.

 

Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha iniziato a incontrare figure palestinesi di alto livello. Secondo al-Monitor Lapid starebbe gettando le basi per la ripresa del negoziato di pace.

 

Il Libano ha firmato un accordo con la Giordania per trasferire elettricità nel Paese passando per la Siria (curiosamente mentre l’accordo veniva siglato si è verificato un blackout). Sempre in Libano l’ex-primo ministro Saad Hariri ha annunciato il ritiro dalla vita politica e invitato il suo partito a boicottare le prossime elezioni (France 24).

 

Per motivi organizzativi interni questa settimana il Focus attualità non contiene la rassegna dalla stampa araba. Per questi stessi motivi purtroppo settimana prossima il nostro appuntamento sarà sospeso.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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