Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:42:08
Quando il 9 gennaio 2005 il governo del Sudan e il Sudan People Liberation Army/Movement (SPLA/M) firmarono l’accordo di pace, la folla che gremiva lo Stadio Nyayo di Nairobi eruppe in un grido di esultanza. Dopo decenni di guerra fratricida, dopo milioni di morti e di rifugiati, la gente scorgeva un barlume di speranza. Poco contava che l’accordo fosse stato imposto dalla comunità internazionale. Poco interessava che ci sarebbe stato un referendum dopo sei anni. Tutto sembrava accettabile pur di avere la pace.
Negli anni scorsi, il Sud Sudan ha continuato a soffrire per la continua marginalizzazione del Nord. Ha sofferto nelle persone del Sud che vivono al Nord, specialmente a Khartoum, dove i sudanesi del Sud vengono considerati un gruppo di seconda categoria. Ha sofferto anche a causa dei suoi stessi amministratori, che male hanno usato le risorse – a volte ingenti – a loro disposizione.
Con l’avvicinarsi del referendum che doveva dare l’ultima parola sullo status giuridico del Sud, molti hanno temuto il ritorno alla guerra. In questi anni, il Sudan non è mai stato veramente in pace. La guerra in Darfur è continuata senza sosta, come continue sono state le violenze contro altre minoranze etniche e la politica di marginalizzazione messa in atto dal governo centrale. Anche le tensioni tra le etnie arabizzate del Nord, che contendono i pascoli che si trovano lungo il confine con il Sud, sono state usate ad arte. La demarcazione del confine, soprattutto della zona di Abyei, dove si trovano i maggiori giacimenti di petrolio, è andata a rilento così come lenta è stata la registrazione degli aventi diritto al voto.
Eppure, nonostante le immani fatiche per far svolgere una consultazione popolare in un territorio che è tra i più depressi del continente, con difficoltà infrastrutturali non comuni, il referendum si è svolto senza violenze particolari. Si sono registrati degli scontri tra pastori misserya e dinka che hanno causato la morte di alcune decine di persone, ma sono stati casi per fortuna circoscritti ad alcune zone.
Pochi giorni prima del voto il presidente sudanese Omar al Bashir aveva dichiarato che l’indipendenza del Sud sarebbe stata un errore, che avrebbe destabilizzato la regione. Il leader sudista Salva Kiir aveva da parte sua risposto che la guerra non era all’orizzonte e che il Sud avrebbe saputo farsi carico delle sue responsabilità per la crescita e lo sviluppo. Questo referendum, aveva spiegato, sarebbe stato «non la fine di un percorso, ma un inizio». Ben più del 60% degli aventi diritto di voto hanno messo nell’urna la scheda con la loro scelta e lo spoglio è iniziato subito. Il risultato ufficiale verrà annunciato solo a metà febbraio, ma ci sono pochi dubbi: il Sud vuole l’indipendenza.
In molti sono contrari alla divisione del più grande paese africano: il Nord Sudan, che vede svanire un’immensa riserva di materie prime, non solo di petrolio ma anche di diamanti, di minerali, di acqua. Va ricordato che la guerra tra Nord e Sud, durata quasi cinquant’anni, non è mai stata un conflitto di religione, ma una lotta per il controllo delle risorse; l’Egitto, che teme l’entrata in scena di un nuovo paese lungo il corso del Nilo e non vuole dividere con altri il controllo dell’acqua del fiume, un bene di cui ha un estremo bisogno. Poco prima del referendum anche i Fratelli Musulmani si sono espressi contro l’indipendenza del Sud perché leggevano in questo evento lo sbarramento al loro progetto di islamizzare il continente.
Ci sono però anche coloro che sostengono l’autonomia del Sud. Il Kenya ha inviato un folto gruppo di funzionari per aiutare la nascente amministrazione governativa a formare nuovi dirigenti. L’Uganda non nasconde il suo sostegno alla creazione di un nuovo stato che si aprirà certamente verso il Sud del continente. Anche la Cina, grande sostenitore del Nord, da cui ha acquistato petrolio e altri minerali per anni e a cui ha fornito armi e tecnologia, si è detta d’accordo con l’indipendenza del Sud. Pare, anzi, che sosterrebbe la costruzione del nuovo oleodotto che colleghi i campi petroliferi dal Sud Sudan a Lamu, nel Nord del Kenya, uno straordinario investimento finanziario che nessuno vuole mettere in pericolo con un rinnovato conflitto locale.
L’indipendenza del Sud preoccupa molti anche perché può costituire un pericoloso precedente per altre richieste di autonomia che si registrano in Africa. Quando raggiunsero l’indipendenza, cinquanta anni fa circa, i Paesi africani decisero di lasciare intatti i confini coloniali per evitare di venir schiacciati dalle troppe rivendicazioni locali e divisioni interne. Una decisione prudente per certi versi, ma che non rendeva giustizia alla storia. La guerra per l’indipendenza dell’Eritrea ne è un esempio. Ma ci sono molte altre aree calde: da Cabinda alla Casamance, dalla Grande Somalia alla sognata Oromia. Il Sudan venne tenuto insieme dalla miopia del potere coloniale, un condominio anglo-egiziano, che non volle accettare le richieste del Sud per un’autonomia politica ed economica di cui aveva diritto e che già allora rivendicava.
Stando agli accordi, l’indipendenza del Sud Sudan dovrebbe essere sancita legalmente in luglio, a sei mesi dal suo annuncio ufficiale, il tempo necessario cioè a terminare il processo burocratico di separazione dei due Stati. Nel frattempo il Sud dovrà attrezzarsi per il futuro: occorre costruire strade e altre infrastrutture per la comunicazione, costruire un sistema educativo, scuole di base, istituti professionali per i giovani che durante gli anni di guerra non hanno potuto formarsi adeguatamente. Le Chiese, soprattutto quella cattolica, hanno investito in strutture locali o sostenendo universitari all’estero, ma non hanno potuto che raggiungere una minoranza.
Ora la vera sfida è nelle mani del leader Salva Kiir, se cioè saprà guidare il Sud Sudan oltre il guado, costruendo una squadra di governo di persone giuste per questa ultima battaglia incruenta.