Voci dall'Islam /3. L'aspirazione ad uno Stato islamico puro in cui la shari'a sia perfettamente applicata percorre ancora oggi larga parte dell'opinione musulmana e anzi chi vi si oppone è considerato apostata. Ma c'è un grande paradosso che va rivelato.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:52

Il problema principale nell'idea di uno Stato islamico che imponga la shari'a come legge positiva o linea di condotta ufficiale è che, vista l'inerente soggettività e conseguente diversità di tutte le interpretazioni del Corano e della sunna, un tale sforzo necessariamente farebbe affidamento sulla specifica interpretazione accettata da chi detiene il potere politico, con l'esclusione di altre interpretazioni che potrebbero essere ugualmente valide per altri credenti. In altre parole, l'impossibilità per lo Stato di applicare la shari'a è dovuta alla natura della shari'a come sistema normativo religioso e alla natura dello Stato come istituzione politica. Eppure il paradosso permane: da un lato i musulmani non solo continuano ad aspirare, almeno in teoria, all'illusione di un puro Stato islamico in cui la shari'a sia applicata come unica legge, ma molti di loro considerano persino la semplice opposizione all'idea di uno Stato islamico come equivalente all'apostasia un crimine capitale punibile con la morte. Dall'altro lato, la grande maggioranza delle società islamiche post-coloniali ha, di fatto, evitato di porre la shari'a come sistema legale e base delle politiche pubbliche nei propri Stati indipendenti e i pochissimi Paesi che ci hanno provato, come Iran, Pakistan e Sudan, stanno riscontrando seri problemi nel farla funzionare nella pratica. Insomma, le società islamiche non sembrano né voler abbandonare l'illusione che la shari'a potrebbe e dovrebbe essere la sola legge sotto cui vivere, né sembrano volere o essere capaci di attuarla veramente attraverso le istituzioni dello Stato in quanto tale. Questo paradosso può essere mediato, mi sembra, fornendo una giustificazione logica islamica per la neutralità religiosa dello Stato, per mezzo della quale la shari'a può giocare un ruolo positivo nell'ambito pubblico, senza che lo Stato la imponga come legge positiva e linea di condotta pubblica. Vorrei per prima cosa porre l'accento sul fatto che gli Stati che nella storia hanno governato sui musulmani sono sempre stati di fatto secolari, né avrebbe potuto essere altrimenti. Il secolarismo va qui inteso come un tipo particolare di relazione profondamente contestuale tra religione e Stato, variabile di caso in caso e che mette lo Stato nella posizione di rivendicare una legittimità religiosa senza appropriarsi dell'autorità religiosa in quanto tale. La seconda argomentazione contro l'errore di uno Stato islamico che pretenda di imporre la shari'a come legge positiva è che quest'ultima è più dannosa di uno Stato secolare per la libertà di religione e l'integrità dell'esperienza religiosa dei cittadini musulmani e non musulmani. Tanto per cominciare, mentre i musulmani hanno sempre continuato ad aspirare al modello dello Stato del profeta a Medina (622-632 d.C.), è chiaro che quell'esperienza non potrà né essere ripetuta, né logicamente paragonata a qualsiasi altro periodo della storia islamica passata o del futuro delle società islamiche. Oltre al fatto straordinario dell'esistenza fisica del profeta, che durante quel periodo di tempo continuava a ricevere e a spiegare la Rivelazione, a esercitare il suo personale carisma e la sua guida morale, lo Stato a Medina era composto da comunità tribali molto unite, formate da nuovi convertiti profondamente motivati che vivevano all'interno di uno spazio estremamente limitato. In altre parole, lo Stato di Medina era basato più sull'autorità morale del profeta e sul conformismo sociale all'interno di una piccola comunità che sul potere coercitivo dello Stato, come accade in altre società umane. Il modello dello Stato del profeta a Medina non può essere applicato nel contesto presente di nessuna società islamica perché è stato un fenomeno unico ed è finito con la morte del profeta. I Quattro Califfi Per quanto riguarda il resto della storia islamica, è altresì chiaro che la legittimazione islamica dello Stato è sempre stata causa di conflitto e di guerra civile fin dalla morte del profeta Muhammad nel 632. La maggioranza dei musulmani sunniti crede che il regno dei primi quattro califfi di Medina (sede del primo Stato nell'Arabia occidentale) abbia continuato lo Stato ideale islamico e la comunità dei tempi del profeta. Ma secondo i musulmani sciiti i primi tre califfi di Medina furono usurpatori illegittimi della carica, alla quale avrebbero avuto diritto solo 'Ali (cugino del profeta, che divenne il quarto califfo di Medina) e i suoi discendenti da Fatima (l'unica figlia ancora in vita del profeta). Per tutto il suo regno come quarto califfo (656-61), 'Ali fu impegnato in un'aspra guerra civile contro il clan omayyade e altre fazioni, compresi alcuni dei suoi stessi sostenitori, conosciuti come i Kharigiti (il gruppo scissionistico), che lo condannarono per aver accettato la mediazione con gli Omayyadi. Dopo l'assassinio di 'Ali, per mano di uno dei Kharigiti nel 661, il clan omayyade stabilì una monarchia che, da Damasco (Siria), guidò fino al 750 l'impero musulmano in espansione. Gli Abbasidi lanciarono la loro sfida vittoriosa alla dinastia omayyade nel nome della legittimità islamica, ma lo Stato abbaside (750-1258) fu anch'esso una monarchia che regnò da Baghdad (Iraq) più secondo calcoli politici che in base ai principi della shari'a. Lo stesso vale per gli altri Stati di varie dimensioni e durata che hanno guidato le società islamiche da allora: dalla Spagna, all'Africa settentrionale e occidentale, dall'Asia centrale all'India, compreso l'Impero Ottomano che fu infine abolito nel 1923-24. La tensione tra legittimità islamica e calcolo politico fu solitamente mediata in differenti fasi della storia attraverso un mutuo compromesso tra gli 'Umarâ' (i governanti) e gli 'Ulamâ' (gli esperti di shari'a), per mezzo del quale i primi riconoscevano la supremazia teorica della shari'a, mentre i secondi concedevano ai governanti l'autorità politica pratica. Occasionalmente alcuni governanti si impegnavano a una più rigorosa attuazione della shari'a, come avvenne durante i primi anni della dinastia abbaside, il Regno ibadita kharigita di Tlemsen in Marocco (761-909), gli Almoravidi in Marocco e in Spagna (1056-1147) e la dinastia ismailita sciita dei Fatimidi in varie zone del Nord Africa (969-1171). È difficile accertare l'ampiezza e l'efficacia di questi episodi di applicazione della shari'a a causa della mancanza di fonti storiche indipendenti e sufficientemente dettagliate. Ma è ragionevole supporre che la natura altamente decentralizzata dello Stato e dell'amministrazione della giustizia, in quei periodi della storia, non abbia permesso quel genere di attuazione sistematica e completa della shari'a che è richiesta o pretesa dai musulmani di molti paesi moderni. Una delle difficoltà fondamentali, che ha vanificato gli sforzi per costituire uno Stato che attuasse effettivamente la shari'a, è stata la mancanza di istituzioni politiche e legali per assicurare il rispetto da parte dello Stato stesso e dei suoi amministratori di quanto la shari'a esige da loro. Anche se gli 'Ulamâ' erano ritenuti essere i guardiani della shari'a non avevano mezzi per imporsi sui governanti, tranne fare appello ai sentimenti morali e religiosi. Un altro fattore era che gli 'Ulamâ' erano troppo preoccupati di salvaguardare l'unità delle loro comunità e garantire la pace e l'ordine pubblico per far valere con la forza le loro richieste sui governanti, soprattutto in periodi di conflitto interno e minaccia esterna. I pochi eruditi che affrontarono espressamente questioni costituzionali e legali, come al-Mawardi (morto nel 1058) in Al-Ahkam al-Sultaniyya (principi di governo) e Ibn Taimiyya (morto nel 1328) in Al-Siyasa al-Shar'iyya (politica islamica), si limitarono a elaborazioni su cosa dovrebbe succedere, in forma di consiglio ai governanti, senza parlare invece di cosa sarebbe accaduto se il governante non si fosse conformato alla shari'a come obbligo di stato. Modello Impraticabile Mi sembra chiaro, da questa breve analisi, che gli Stati che governarono sui musulmani per tutta la loro storia furono secolari, nel senso di un mutuo compromesso tra 'Umarâ' (governanti) e 'Ulamâ' (esperti di shari'a). In particolare, le difficoltà che quegli Stati ebbero nell'attuare la shari'a erano dovuti alla natura della shari'a stessa e non poterono essere superate nel tempo. Né gli 'Umarâ', né gli 'Ulamâ' potevano combinare le due funzioni di esercitare l'autorità politica coercitiva ed essere, al tempo stesso, i dotti guardiani della shari'a. In altre parole, nella storia islamica non esiste un precedente storico per un cosiddetto "Stato islamico" e il modello sarà ancora più impraticabile in futuro, in parte per la natura insita nella shari'a di sistema religioso normativo. L'idea di uno Stato islamico è concettualmente incoerente e, in pratica, molto pericolosa per l'integrità dell'esperienza religiosa dei musulmani stessi, oltre a comportare una serie di violazioni dei diritti delle donne e dei non-musulmani, di cui qui non parliamo. L'incoerenza di tale idea risiede nel fatto che uno Stato è necessariamente un'istituzione politica, e non una persona in carne e ossa capace di credere nell'Islam o in qualche altra religione. In altre parole, "islamico" può essere usato per riferirsi a Stati in cui i musulmani costituiscono una chiara maggioranza della popolazione, ma l'aggettivo "islamico" logicamente si applica a persone, più che a uno Stato inteso come istituzione politica. Il fatto che uno Stato si dichiari islamico, proclamando l'Islam religione di stato o affermando che fa della shari'a una fonte esplicita di legislazione, non riflette con precisione una qualità islamica dello Stato stesso come istituzione politica. A meno che non si voglia accettare ogni pretesa di islamicità da parte di uno Stato, si pone poi la questione di chi abbia l'autorità di stabilire i caratteri dell'essere islamico e secondo quali criteri. Così, non è probabile né che l'Arabia Saudita accetti l'affermazione dell'attuale governo iraniano di essere una repubblica "islamica", né che l'Iran accetti che la monarchia saudita possa mai essere "islamica", a prescindere dalla sua pretesa di attuare la shari'a come unico sistema legale del Paese. Infine, è chiaro che le forme di organizzazione politica e sociale secondo cui i musulmani vivono oggi, e i tipi di economia in cui agiscono e da cui dipende la loro sussistenza, rendono persino la storia molto più recente degli Stati imperiali ottomano e moghul in Medio Oriente e India troppo lontana per essere rivissuta o riesumata nell'attuale mondo post-coloniale di economia globale, interdipendenza e integrazione politica. Di conseguenza, le pretese di stabilire uno Stato islamico in cui applicare la shari'a sono oggi pericolosamente ingenue, se non ciniche e manipolatrici. Vista la natura della shari'a, come storicamente intesa dai musulmani, il moderno Stato territoriale non dovrebbe né cercare di attuarla come legge positiva e linea di condotta pubblica, né pretendere di interpretarne la dottrina e i principi per i suoi abitanti musulmani. Allo stesso tempo, la relazione organica tra la shari'a, la cultura e le politiche di ogni società musulmana, implica che i principi della shari'a continueranno a essere rilevanti a diversi livelli per le questioni di politiche concrete e di legislazione. Infatti, dal momento che i principi della shari'a continueranno a influenzare fortemente le coscienze dei musulmani fin dalla prima infanzia, quei principi devono trovare espressione nelle politiche dello Stato, ed è giusto che sia così. È semplicemente impossibile e, a mio avviso, non è neppure desiderabile cercare di impedire che la shari'a influenzi il comportamento politico e pubblico dei musulmani. Ma questo non può significare la diretta imposizione dei principi della shari'a come tali attraverso le istituzioni ufficiali dello Stato. In altre parole, ciò che è problematico è che i principi della shari'a come tali siano attuati come legge positiva; ma i principi etici e i valori della religione sono di fatto necessari per il giusto funzionamento della società. [Questo articolo è una rielaborazione di Abdullahi A. An-Na'im, The Future of Shari'ah and the Debate in Nortern Nigeria, in Comparative Perspectives on Shari'ah in Nigeria, ed. P. Ostien, J. M. Nasir and F. Kogelmann. Ibadan: Spectrum Books Limited, 2005, pp. 327-357].

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