L'Islam in Cina, fra "cinesizzazione" e repressione

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:50

La Grande Moschea di Xian è forse uno dei luoghi più antichi dell'Islam in Cina. Posta nella zona est dell'antica città imperiale, capitale della dinastia Tang (618 - 906), secondo alcuni la sua fondazione risale addirittura ai parenti stretti del profeta dell'Islam. Al di là delle leggende, resta il fatto che la fede musulmana è arrivata in Cina nel tardo VII secolo, via terra, percorrendo la Via della Seta e giungendo a Xian (l'antica Chang'an), o via mare, giungendo ai porti di Canton, Hangzhou, Zhangzhou. A differenza di quanto è avvenuto in Medio Oriente e nell'Africa del Nord, l'Islam in Cina si è diffuso in modo pacifico e attraverso la via del commercio. Alcuni scontri e diatribe con milizie arabe nell'VIII secolo non hanno cambiato la situazione di tranquilla convivenza fra arabi, persiani musulmani e popolazione locale.

I musulmani hanno sempre vissuto una certa tranquillità grazie alla cura che l'impero aveva per il commercio con l'Asia centrale e attraverso di essa con l'Occidente.

È anche vero che il mondo cinese confuciano ha sempre disprezzato tutto quanto aveva a che fare col commercio e se, da una parte, ha permesso la presenza di musulmani stranieri, non si è mai interessato alla loro religione e anzi ha sempre cercato di "educarli" e "cinesizzarli", renderli cioè meno "barbari" e più illuminati dalla cultura Han, la cultura cinese del Fiume Giallo. A causa di questo disprezzo non si trova nella cultura cinese alcuno scritto sulla religione islamica fino al XVI secolo. E questo anche se nel periodo Yuan (1279-1368) e Ming (1368 -1644) diverse personalità musulmane hanno fatto parte della corte imperiale. Essi però sono ricordati per i loro contributi come astronomi, dottori, ammiragli, ma non per la loro religione.

Solo nel XVI secolo appare qualche scritto incentrato sulla fede islamica, quando alcuni musulmani cinesi, le cui famiglie erano state convertite da secoli, hanno cominciato a mostrare e a spiegare come la fede islamica non era lontana dagli insegnamenti di Confucio, pur criticando il grande saggio per il suo rifiuto di riconoscere il Dio unico [Per questa parte confrontare la voce Islam in China in M. Eliade, ed. in chief, The Encyclopedia of Religion, New York 1993, voll. 7 e 8, pp. 377-383].

Tale atteggiamento di superiorità della cultura cinese portato avanti perfino da Mao Zedong spiega perché dopo così tanti secoli l'Islam non è molto diffuso in Cina. Gli stessi elementi rituali del mondo islamico (proibizione di bere alcolici e di mangiare carne di maiale) fanno a pugni con la tradizione culinaria e familiare della Cina che ha in questi due prodotti gli ingredienti fondamenti di ogni festa e vita quotidiana.

Quanto l'Islam si sia "cinesizzato" lo dimostra proprio la Grande Moschea (Ta Qing Zhen Si), che non si differenzia in nulla da un tempio buddista o taoista: cortili, pagode, giardini, tetti a punta e in fondo a tutto una grande sala per la preghiera. La struttura attuale del tempio è quella costruita nel XVIII secolo ed è il frutto di una sempre maggiore cinesizzazione cui i musulmani si piegarono per essere accettati e lasciati liberi di esprimere la propria fede almeno nel recinto degli edifici sacri.

L'Islam cinesizzato è tipico di un gruppo etnico detto degli Hui, diffuso soprattutto nel Ningxia (Cina centrale), nello Shaanxi, nel Qinghai e a Pechino. I membri si aggirano sui 15 milioni. La loro è una fede che si basa sugli insegnamenti del Corano, che pratica la preghiera alla moschea, ma che non si interessa della politica e non osa criticare la politica religiosa attuale del governo, ma l'accetta come un condizionamento inevitabile, anzi la esalta per la sua liberalità.

Un elemento strabiliante di questa "cinesizzazione" è il sostegno che viene dato alle moschee "per sole donne" dove l'insegnamento viene offerto da signore Imam e non da maschi. Secondo alcuni studiosi questa innovazione è in realtà una ripresa dell'Islam antico, che aveva dottori coranici donne, poi scomparse per l'influenza dell'Islam wahabita, più fondamentalista.

Come per tutte le religioni ufficialmente riconosciute dal governo, anche l'Islam ha le associazioni patriottiche che controllano e gestiscono la vita delle comunità: gli Imam, le pubblicazioni del Corano, i pellegrinaggi annuali alla Mecca. Tutto questo però, sembra non fare problema a questo tipo di Islam addomesticato, alla cui minoranza il governo concede anche di non seguire la politica del figlio unico, dà sovvenzioni economiche per l'hajj (il pellegrinaggio alla Mecca), garantisce posti all'università, ma non permette l'educazione religiosa ai figli prima dei 18 anni.

Anche i musulmani come tutte le religioni durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976) hanno subito le violenze più efferate su persone e luoghi di culto. Perfino la Grande Moschea di Xian è stata pressoché rasa la suolo e ricostruita negli anni '80 con il contributo del governo (e di alcuni paesi arabi).

 

Spina nel Fianco

Tutta un'altra aria nella zona del Xinjiang (Nord-Ovest della Cina), abitata dagli Uiguri, una etnia di derivazione turca, stanziata lì da secoli e musulmana, che a fasi alterne nel passato e nel presente ha lottato per l'indipendenza e l'autonomia, resistendo alla "cinesizzazione". Qui Pechino ha potuto solo colonizzare la regione spingendo alla migrazione la popolazione Han a cui vengono affidati posti nella burocrazia, il commercio, le banche, dando loro facilitazioni fiscali e lasciando gli Uiguri in una situazione di semi-emarginazione sociale. Il Xinjiang è stato sempre una spina nel fianco di Pechino. Dal 1911 al 1949 vi è stato perfino il tentativo di dichiarare una Repubblica indipendente del "Turkestan orientale". Questo nome è rimasto ai gruppi uiguri che combattono per l'indipendenza dalla Cina (Movimento Islamico del Turkestan Orientale), e che nel recente passato hanno eseguito attentati contro sedi del Partito, a bus e discoteche in città come Urumqi, Wuhan e Pechino, facendo decine di morti.

La Cina continua a rispondere con la repressione: negli ultimi anni centinaia di Uiguri sono stati condannati a morte o fatti sparire senza alcun processo. Insieme alla sottomissione demografica della popolazione uigura (circa nove milioni), vi è una vera e propria occupazione militare da parte dell'esercito cinese e una rete di spionaggio per il controllo di scuole, aziende, mercati.

Tale controllo è divenuto ancora più asfissiante dopo l'11 settembre 2001. Il timore che Osama bin Laden abbia dei seguaci anche fra gli Uiguri ha spinto Pechino a usare la mano pesante, stabilendo leggi speciali per la sicurezza e arresti a non finire. Per frenare l'ondata di fondamentalismo, nel 2001 la Cina ha pure fondato il gruppo Organizzazione di Shanghai per la Sicurezza, di cui fanno parte, oltre alla Cina, la Russia e i cinque Paesi dell'Asia Centrale, anch'essi alle prese con il terrorismo islamico. Essendo la regione ricca di petrolio, la Cina propone da anni una "Marcia verso il Far West" a investitori stranieri e cinesi, per soffocare nello sviluppo economico l'insorgere di terrorismo.

Il 12 aprile 2005 l'organizzazione Human Rights Watch ha pubblicato un dossier di denuncia contro i metodi da guerriglia usati da Pechino per reprimere espressioni religiose e istanze democratiche degli Uiguri [cfr.: Devastating Blows. Religious Repression of Uighurs in Xinjiang], giustificati come lotta contro il terrorismo. Il dossier si basa su documenti ufficiali del Partito Comunista Cinese e su denunce ed atti stilati dalla pubblica sicurezza della regione, fino allora rimasti segreti. I dati raccolti mostrano che le autorità statali impediscono a tutti gli Imam una predicazione regolare e li costringono a tenere delle "sessioni di auto-critica". La polizia sorveglia le moschee, allontana dalle scuole gli insegnanti che professano una fede religiosa, censura poeti e scrittori che trattano temi legati alla religione anche in modo vago. Secondo un giornale ufficiale dello Xinjiang, nel 2005 la Cina ha arrestato 18.227 Uiguri per «minacce alla sicurezza nazionale» [cfr. AsiaNews.it, 23 gennaio 2006].

Il controllo asfissiante è però quasi impossibile, a causa della grande estensione del territorio (circa sette volte l'Italia), della dispersione della popolazione (in tutto 19,5 milioni), e delle frontiere quasi inesistenti con i Paesi dell'Asia Centrale. Anzi: dai vicini Kirghizistan e Uzbekistan giungono nel Xinjiang pericolosi predicatori del fondamentalismo e armi per la rivolta nazionalista.

Anche lo sviluppo economico e l'invito aperto a ditte straniere a giungere nel Xinjiang sta divenendo un'arma a doppio taglio. Grazie infatti ai rapporti economici, i musulmani Uiguri riescono a mettersi in contatto con altri musulmani della Turchia, del Pakistan, dell'Afghanistan. Fino all'anno scorso essi andavano fino in Pakistan a ricevere il visto per l'Arabia Saudita e l'hajj. Il pellegrinaggio alla Mecca era pure l'occasione di costruire rapporti e solidarietà internazionale con altri musulmani nel mondo e scoprire una fede più integralista.

Nel tentativo di controllare tale flusso, da quest'anno la Cina ha obbligato l'Arabia Saudita a concedere i visti per il pellegrinaggio solo a cittadini cinesi che si rivolgono al consolato saudita a Pechino e solo a chi si presenta con il permesso dell'Associazione Patriottica Islamica. La nuova regola vale per gli Uiguri e per gli Hui. Il governo cinese è infatti preoccupato che anche fra gli Hui, di solito "tranquilli", si faccia strada un integralismo sempre più forte che rischia di creare tensioni sociali. In molte zone Hui, una volta famose per il loro Islam liberale, si vedono sempre più spesso partecipazioni massicce alla preghiera, donne velate, con un sempre maggior numero di giovani che vogliono studiare l'arabo e il Corano.

Pechino rimane divisa fra una politica "liberale", che la mette in buona luce in tutti i paesi islamici, e un controllo ferreo. Ma si assicura l'amicizia dei due paesi che più esportano il fondamentalismo, l'Arabia Saudita e l'Iran. Con essi la Cina ha rapporti economici sempre più vasti, grazie al suo crescente fabbisogno di petrolio. In cambio la Cina è divenuta il loro avvocato nella comunità internazionale, frenando all'ONU mozioni di embargo contro Teheran e chiudendo volentieri un occhio sulle critiche mondiali all'Arabia Saudita a proposito dei diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Bernardo Cervellera, Realtà e stranezze dell'Islam cinese, «Oasis», anno III, n. 5, marzo 2007, pp. 102-104.

 

Riferimento al formato digitale:

Bernardo Cervellera, Realtà e stranezze dell'Islam cinese, «Oasis» [online], pubblicato il 1 marzo 2007, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/realta-e-stranezze-dell-islam-cinese.

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