Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:43
A Gennaio 2011 i Sudanesi del Sud con un referendum hanno scelto quasi all’unanimità l’indipendenza dal Nord. L’indipendenza sarà proclamata il prossimo 9 luglio. In questi mesi di transizione i governi del Nord e del Sud sono chiamati a trovare un’intesa su problemi di comune interesse: la nazionalità, la divisione dei debiti e della ricchezza, e sopratutto la definizione chiara dei confini tra i due stati.
Il modo pacifico ed esemplare nel quale si è svolto il referendum ha lasciato sperare che anche tutto il processo verso l’indipendenza sarebbe avvenuto nello stesso spirito. Purtroppo non è così e lo scenario attuale non è privo di preoccupazioni.
Il Nord, nella persona dello stesso presidente Bashir, si era impegnato a rispettare i risultati del referendum, aveva promesso di collaborare perché il nuovo Stato del Sud avesse successo e ci fossero buoni rapporti tra Nord e Sud. In realtà le relazioni continuano ad essere tese e spesso ci si è avvicinati alla rottura.
I problemi rimasti aperti prima del referendum sono lontani dall’essere risolti e il Nord continua a voler imporre il proprio punto di vista.
La situazione di Abyei, area ricca di petrolio, resta una questione aperta. Non si è infatti ancora svolto il referendum che si doveva tenere qui contemporaneamente a quello del Sud e con il quale la popolazione doveva decidere se fare parte del Sud o del Nord. Il Nord è deciso a non perdere il controllo di questa regione e pretende che al referendum partecipino anche i Missiriya, etnia nomade che da sempre porta le proprie mandrie a pascolare in queste terre durante la stagione asciutta. Mentre i Denka, da sempre residenti nell’area, dicono che il referendum riguarda solo loro.
Con Abyei, vi sono altre zone di confine che devono ancora essere assegnate e sono diventate teatro di scontri armati anche recentemente, come Tumsah e Hufrat An Nahas nel Western Bahr el Gazal.Altra questione cruciale aperta è la presenza del LRA (Lord ResistanceArmy) e di altre milizie armate operanti nel Sud, dietro le quali si ritiene vi sia il governo di Khartoum, accusato di usare di questi gruppi per destabilizzare la situazione del Sud prima ancora che nasca definitivamente lo Stato autonomo.
Il governo autonomo del Sud di fatto si comporta come un governo indipendente da prima del referendum, ma con molti problemi aperti.
Serpeggia in molti un senso di malcontento: SPLM è accusato di approfittare della maggioranza che ha in parlamento per portare avanti una politica esclusivista, anziché favorire la partecipazione degli altri partiti e allargare i consensi.
Nello scorso ottobre Salva Kiir, presidente del Sud, era riuscito a mettere pace tra i partiti e i gruppi ribelli che operavano al Sud. Ma dopo il referendum le divisioni sono riemerse, addirittura sono nati nuovi gruppi ribelli. Sono riemerse vecchie rivalità etniche, talora anche all’interno della stessa tribù. Recentemente sono aumentati i raids di bestiame, attacchi che lasciano ogni volta diecine di morti.
Il Governo del Sud elabora vari progetti, ma dipende troppo per la loro realizzazione dagli aiuti stranieri e dalle entrate del petrolio. Moltiplica gli uffici e le strutture, ma non ha ancora avviato un vero processo di crescita economica e sociale. A livello generale si avverte una certa passività: i lavori, anche pubblici, sono sovente affidati a stranieri che si rivelano spesso più efficienti e più economici. Si importano beni dall’esterno, anche quando potrebbero essere prodotti in loco.
Le Chiese cristiane hanno svolto un importante compito di accompagnamento nel processo politico del Sud, non solo perché i leader dei movimenti di liberazione erano e sono in genere cristiani di formazione, ma anche perché non hanno mai mancato di offrire un contributo nei processi di riconciliazione.
Anche in questa fase del dopo-referendum le Chiese hanno fatto sentire la loro voce, hanno espresso le loro preoccupazioni, specialmente di fronte alla frantumazione delle forze politiche, hanno richiamato il valore del bene comune, della pazienza, ricordando che un Paese non si costruisce in un giorno.
Il Sudan Council of Churches ha scritto recentemente un documento con cui incoraggia le forze politiche a porre mano concretamente alla ricostruzione del Paese.
La Chiesa cattolica sta compiendo un notevole sforzo per rispondere alle attuali circostanze. Prima era il “pericolo islamico e arabo” a tenere impegnati i cristiani, ora all’interno delle comunità si avverte una certa mancanza di tensione verso i valori e la pratica cristiani. C’è la corsa ad accaparrarsi posizioni e denaro, si moltiplicano le sette. La Chiesa cattolica avverte l’urgenza di ricucire lo strappo tra la fede e la vita, anche quella economica, sociale e politica. Anche per questo sono nate l’Università cattolica a Juba, l’Health Training Institute in Wau e il Teachers Training College in Malakal e in tutte le diocesi sono operanti emittenti radio cattoliche che si dimostrano strumenti importanti di evangelizzazione e promozione umana.
Le attese e le sfide, dunque, sono molte. Spesso si tratta di ripartire da zero. Purtroppo ancora in troppi cedono alla tentazione di ricorrere alle armi, mentre sarebbe necessario uno sforzo sempre maggiore e unitario per giungere a soluzioni pacifiche.
La comunità internazionale, le Chiese e tutte le persone di buona volontà, che hanno permesso di giungere al Comprehensive Peace Agreement e, poi, al referendum, hanno ancora un grande ruolo da giocare. La speranza è che i Sudanesi del Sud, che hanno dato prova di grande senso di responsabilità al momento del referendum, si ricompattino per garantire al Paese di nascere “in buona salute”.
Raga (Sud Sudan)