Le esperienze diverse di Bush e Obama hanno dimostrato come non esista una ricetta per guidare gli Stati Uniti nella regione

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:19

In quelle piazze contro la guerra di George W. Bush in Iraq eravamo in tanti. Correva l’anno 2003 e il mondo appariva assai più semplice di oggi, dopo che la vittoria alle elezioni americane del tycoon Donald Trump ha scosso il mondo. Tredici anni fa, sembrava semplice capire che la prova di forza innescata da Washington non avrebbe portato nulla di buono. Che nessun popolo, neanche il più forte e avanzato, poteva decidere come e chi dovesse governarne un altro, che la forza militare non poteva essere la soluzione delle crisi. Diplomazia, dialogo, valori morali erano gli strumenti che potevano creare stabilità, risolvere i conflitti e portare la pace tra i popoli del mondo. Tredici anni dopo, possiamo dire in parte quelle piazze avevano ragione: il caos, la violenza e il terrorismo che imperversano nell’Iraq odierno sono la dimostrazione quotidiana e inquietante del fallimento dell’avventura neocon. La disgregazione a fuoco lento dell’Iraq e del suo tessuto sociale non sono la sola crisi cui abbiamo assistito in questi 13 anni in Medio Oriente. Di mezzo ci sono state le sollevazioni arabe del 2011, la caduta dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, del tunisino Zine el-Abidine Ben Ali, la guerra in Libia e la morte di Muammar Gheddafi. E soprattutto c’è stata e c’è la Siria. Nel frattempo, dall’altra parte dell’Oceano, a osservare e interagire con queste crisi a capo di quella che per due decadi è stata considerata la potenza egemone della regione – e del globo – non c’erano più i neoconservatori e George W. Bush, ma i democratici liberal di Barack Obama. Il presidente uscente sembrava incarnare la giusta via che molte piazze del mondo del 2003 invocavano. Avverso all’uso della forza, aperto al dialogo, carismatico e pronto a usare quel carisma per comunicare i valori ritrovati di un’America che sembrava aver imparato a caro prezzo dai propri errori. Un’immagine messa alla prova negli anni seguenti, durante i quali il presidente si è presto reso conto che per combattere il terrorismo senza “boots on the ground” è necessario ricorrere ad altri mezzi come i droni, più tecnologici e precisi ma non meno letali dei conflitti tradizionali. O quando nei primi mesi del 2011 le sabbie mobili del Medio Oriente hanno cominciato a muoversi dopo decenni in cui sembravano essersi cristallizzate. È stato facile per la nuova Amministrazione salutare l’avvento dei grandi moti di piazza a Tunisi e al Cairo. Ed è stato facile assistere i ribelli militarmente in Libia, lasciando la leadership dell’operazione agli alleati europei, quando appariva sufficiente togliere di mezzo un dittatore sanguinario come Gheddafi per fare strada a una nuova era di stabilità e democrazia. Così non è stato. Perfino quell’intervento militare così limitato e relativamente disinteressato, soprattutto se paragonato con Afghanistan e Iraq, non ha portato i risultati sperati. In Libia, come in Iraq, ci sono caos, signori della guerra e terroristi. Forse è stata proprio quell’ennesima delusione a condizionare la reazione di Obama in Siria, il Paese che in pochi anni si è trasformato nella più grande crisi umanitaria e politica dalla fine della Guerra Fredda. Forse è stata proprio l’esperienza libica e l’evidente incapacità dell’America a condizionare gli eventi mediorientali che hanno portato Obama a riprendere con maggiore slancio quel che dall’inizio era il disegno della sua politica estera: aprire all’Iran, intavolare un dialogo tra i recalcitranti storici alleati del Golfo e Teheran, creare un nuovo equilibrio in Medio Oriente cui non occorressero la sorveglianza e la tutela continue degli Stati Uniti. E iniziare a guardare al Pacifico e all’Asia, aree in cui si concentrano gran parte dei futuri interessi americani. Tutto questo facendo tacere le armi e utilizzando diplomazia, dialogo e buona volontà. Ciò per cui era stato eletto e per cui molti otto anni fa hanno festeggiato la sua vittoria. Neanche allora è andata così. A dimostrarlo ci sono mezzo milione di morti, milioni di sfollati e una guerra civile che invece di risolversi sembra complicarsi ogni giorno di più. Come le rovine dell’Iraq sono ancora lì a ricordarci il fallimento della dottrina Bush in Medio Oriente, le rovine della Siria sono oggi la tragica prova del fallimento della dottrina Obama. Il fallimento dell’idea che diplomazia e dialogo sono i soli infallibili strumenti per risolvere le dispute internazionali, per far venire a più miti consigli dittatori e monarchi sanguinari. Non sappiamo che cosa sarebbe stato della Bosnia, del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Libia senza intervento americano. In alcuni casi, è davvero difficile pensare che sarebbe stato meglio. Osservando la Siria oggi è dura pensare che sarebbe stato peggio. Al dì là delle tensioni con storici alleati, della crescente minaccia terroristica e delle incognite geopolitiche, l’eredità che Barack Obama lascerà al suo successore Donald Trump sarà proprio questa: la consapevolezza che non esiste una sola ricetta vincente per guidare l’America nel mondo e soprattutto il Medio Oriente. Gli Stati Uniti, così odiati e allo stesso tempo spesso invocati dalle popolazioni locali, possono creare disastri intervenendo, ma anche rimanendo ostinatamente in disparte. L’America, super potenza che alcuni ritengono in declino, non più – se mai lo è stata – onnipotente, ma comunque ancora profondamente necessaria, è intrappolata in un ruolo che da tempo non desidera più.