A Roma, 22 dei 37 luoghi di culto islamici sono gestiti da immigrati provenienti dal Bangladesh. Analisi di una realtà poco nota, ma molto significativa

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:54

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Sebbene l’Islam si proponga come religione universale, nella diaspora esso si struttura inevitabilmente seguendo peculiarità ed appartenenze etnico-nazionali. Se per gli arabofoni le divisioni nazionali non precludono la comunicazione linguistica, i musulmani provenienti dal Bangladesh evidenziano una maggiore specificità. Per questo, a causa di affiliazioni linguistiche, sociali e culturali, a frequentare sale di preghiera gestite da amministrazioni bangladesi sono in gran parte fedeli della stessa nazionalità.

 

Secondo l’Istat, al 1° gennaio 2019 i residenti bangladesi in Italia erano poco meno di 140.000, l’ottava comunità per consistenza demografica sul territorio nazionale. In ragione delle catene di richiamo, un quarto delle presenze si concentrano a Roma, dove i bangladesi costituiscono la terza comunità immigrata e la quarta “capitale del Bangladesh” nel mondo. In particolare, la prima comunità migrante si trova nel semiperiferico Municipio V.

 

La numerosità delle sale di preghiera gestite da amministrazioni bangladesi rivela un elevato grado di frammentazione, dovuta tanto a dati quantitativi quanto a dinamiche di potere intracomunitarie. Il caso della Capitale è paradigmatico: su 37 “moschee non ufficiali”, 22 sono amministrate da leadership bangladesi, ma, rispetto a quelle arabofone si caratterizzano per presenze numericamente inferiori[1]

 

Le sale di preghiera a gestione bangladese presentano una divisione netta tra amministrazione e guida spirituale. Gli imam, anch’essi bangladesi, sono “chiamati” dalle amministrazioni e spesso si spostano tra le moschee e le città italiane e estere. Le adesioni alle grandi associazioni islamiche nazionali, come UCOII, CII (che fa capo alla cosiddetta Grande moschea di Roma), Coreis sono in alcuni casi solo formali, in altri completamente assenti.

 

Profondità storica e geopolitica di lungo periodo

 

La diffusione delle moschee bangladesi sul territorio italiano e la loro consistenza numerica si spiega anche in ragione della differenziazione interna della collettività e di una competizione intra-comunitaria in cui si intersecano conflitti tra “migranti di successo”, affiliazioni a partiti politici della madrepatria e rivalità per la leadership, con la conseguente formazione di specifiche “clientele” di connazionali[2].

 

Per capire questa dinamica occorre ripercorrere brevemente la storia del Bangladesh. Va osservato in primo luogo, come ha affermato Piero Vereni, che «il Bangladesh ha un serio problema di “national branding”», che condanna i suoi cittadini a vivere incorporando lo sguardo negativo dell’altro. Per esempio gli arabofoni nutrono un senso di superiorità nei confronti dei musulmani bangladesi a causa della loro mancata padronanza della lingua araba e di un Islam che giudicano “spurio”. Tuttavia la questione linguistica è inscindibile dall’orgoglio identitario bangladese.

 

La fine del dominio britannico in India, nel 1947, comportò la costituzione di due entità statuali, India e Pakistan, il quale era a sua volta composto dalla parte occidentale (attuale Pakistan) e da quella orientale (attuale Bangladesh). Il Pakistan Occidentale esercitava un’egemonia de facto sull’attuale Bangladesh e nel 1948 il governo decise l’imposizione dell’urdu quale lingua ufficiale del Paese. Alcuni studenti universitari di Dhaka, assieme ad attivisti di varia estrazione sociale, organizzarono delle proteste di piazza, costituendo il Bangali Language Movement, il cui scopo era rivendicare una forma di autonomia politica attraverso la sottolineatura della specificità linguista bangladese. Nel febbraio del 1952, durante una manifestazione non autorizzata con cui il Language Movement chiedeva il riconoscimento del bengali quale lingua ufficiale, la polizia sparò sulla folla uccidendo quattro studenti e un bambino di nove anni. Il drammatico evento costituì il momento fondante dell’identità del Bangladesh e del processo di indipendenza dal Pakistan, mentre successivamente proprio il 21 febbraio sarebbe stato proclamato dall’UNESCO giornata delle lingue madri, una ricorrenza che viene festeggiata anche nelle “moschee” bangladesi d’Italia.

 

Nel 1971 la guerra di liberazione raggiunse il suo culmine, coinvolgendo gli Stati Uniti a supporto del Pakistan e l’India a fianco dei bangladesi. Il 16 dicembre di quell’anno, dopo un conflitto che costò tre milioni di vite umane, fu sancita l’indipendenza del Bangladesh.

 

Ma la storia riservò al Paese fasi ancora molto tormentate. Sheikh Mujib Rahman, leader del partito di sinistra Awami League, Presidente e Primo Ministro del Bangladesh indipendente, considerato il padre della patria, fu assassinato nel 1975 dopo aver tentato di esautorare il Parlamento. Seguirono 25 anni di dittature militari, dapprima con il regime del generale Ziaur-Rahman (1976-1981), poi con quello guidato dal generale Ershad (1982 al 1990), durante i quali si rafforzarono nel Paese le componenti islamiche[3].

 

L’emigrazione bangladese

 

Negli stessi anni molti studenti universitari si schierarono apertamente contro i regimi in carica, ma uscirono sconfitti dalla lotta. Per loro si aprì la strada dell’esilio, potendo usufruire dello status di rifugiati o del diritto all’asilo politico. Per una ambivalenza che lega spesso colonizzati e colonizzatori, fu la Gran Bretagna la meta privilegiata del loro esodo. Ma la loro emigrazione si sviluppò anche in direzione di altri Paesi dell’Europa centrosettentrionale e anche dell’Europa orientale, alla quale erano legati dall’adesione filosocialista del governo dell’Awami League nella prima parte degli anni ’70.

 

Gli anni ’90 costituirono un momento di rottura rispetto alla fase precedente. Se, dal punto di vista della politica interna, il Bangladesh si dibatteva tra processi di restaurazione democratica e interventi militari, l’emigrazione verso i Paesi europei centro-settentrionali incontrò una fase di stallo a causa di sopraggiunte restrizioni in materia di accoglienza. Le mutate condizioni politiche dovute alla caduta del muro di Berlino e dei governi comunisti arrestarono i flussi verso l’Est Europa. In questo complesso quadro geopolitico si aprì la strada dell’emigrazione in Italia, favorita dalle facilitazioni contenute nella legge 39/1990, la cosiddetta Legge Martelli. Molti cittadini bangladesi giunsero in Italia concentrandosi da subito nella capitale, soprattutto nel rione Esquilino. Tra di essi, vi erano ex-militanti di formazioni studentesche socialiste abituati alle lotte politiche, ciò che spiega il loro ruolo in alcune occupazioni di edifici in disuso, come le sedi dismesse della Centrale del latte, del Palazzo delle esposizioni e dell’ex pastificio Pantanella, il cui sgombero nel 1991, particolarmente seguito dai media, rivelò che ben 1.370 occupanti, più del 40% del totale, erano bangladesi[4].

 

Non è un caso che proprio nei contesti di occupazione nascano alcune delle prime “moschee non ufficiali” in Italia, alla fine degli anni ’80, una delle quali presso l’ex-Pantanella.

 

Dalla lotta al consenso, dai temi laici alle sale di preghiera

 

Per molti uomini provenienti dal Bangladesh, la pratica delle occupazioni si situava in continuità con le lotte politiche nel Paese di origine. Alcuni di loro assunsero ruoli di guida nei movimenti per il diritto alla casa, al lavoro, per la tutela delle minoranze e degli immigrati in particolare. Si trattava in molti casi di rivendicazioni laiche, avanzate da associazioni quali la Bangladesh Association in Italy, ItalBangla, Dhuumcatu, che si occupano di sostenere la collettività bangladese nel contesto migratorio.

 

Alcuni degli stessi attivisti hanno coniugato l’impegno politico alle fortune economiche, imprenditoriali e commerciali, ciò che li ha fatti emergere nella collettività come “migranti di successo”. Gestiscono bancarelle nei mercati rionali o muovono le fila del commercio più informale “da strada”, occupandosi di generi alimentari, prodotti ortofrutticoli, vestiario, oggettistica varia. Sono anche presenti nella ristorazione, con bar e fast-food che si fregiano dell’aggettivo “indiano” o sono titolari di esercizi quali internet point, phone point, money transfert.

 

Il successo di questi uomini, ammirati dai connazionali per le loro capacità imprenditoriali e per il coraggio politico, è alla base di dinamiche competitive in ragione delle quali parte della collettività si “schiera” per l’uno o per l’altro, dando luogo a “reti di clientele” nelle quali viene canalizzato il consenso. Nel contesto migratorio italiano, il bangladese “comune” si affida a un leader piuttosto che a un altro in base ad affinità politiche, per strategie legate a specifici obiettivi o per determinati interessi personali: la ricerca del lavoro, il superamento dei disagi dello spaesamento migratorio, l’assistenza nelle pratiche della burocrazia.

 

È questo processo che sta alla base della frammentazione dell’Islam bangladese in Italia. Gli stessi “imprenditori di successo” si ritrovano infatti a capo delle associazioni culturali, di volontariato o di promozione sociale che amministrano i luoghi di culto dell’Islam. Tra conflitti, alleanze, rivalità essi contribuiscono a un fervore associativo e politico molto intenso. Se si volesse tracciare l’adesione politica delle leadership che gestiscono le sale di preghiere in Italia s’identificherebbero gruppi riconducibili ad almeno tre partiti: la Bangladesh Awami League, erede della formazione di Sheikh Mujibur Rahman, di tendenza socialista e nazionalista; il Bangladesh Nationalist Party, di idee conservatrici; la Jamaat-i-Islami, che ispirandosi a valori islamici ha un forte legame con il Muslim Council of Britain di Londra. La situazione è ulteriormente complicata dalla presenza di un movimento transnazionale, l’Islamic Forum of Europe. Il fatto che una parte non irrilevante dei musulmani bangladesi appartenga o si ispiri al movimento tabligh diviene secondario rispetto alle dinamiche competitive messe in moto dai businessmen. Dotati di forte personalità e di capacità di leadership affinate in anni di dure lotte contro i regimi in patria e per la “sopravvivenza” a Roma, questi uomini si ritrovano a rivaleggiare tra loro per questioni di prestigio, per accreditarsi presso istituzioni e interlocutori italiani, per legittimarsi nei confronti dei bangladesi “comuni”, per guadagnare consenso e visibilità. Così, la scelta di aprire sale di preghiera diventa un criterio per legittimare il potere e alimentare personalismi e fazionalismi.

 

È da un contesto di questo tipo che si generano le divisioni tra i musulmani bangladesi, i quali frequentano una sala piuttosto che un’altra a seconda della propria sensibilità religiosa ma anche delle affiliazioni politiche e dei legami con specifici leader. Le diverse comunità non sono interessate all’“unione dei musulmani” in un unico luogo di culto, magari più “dignitoso” di uno scantinato o di un ex-supermercato. Lo dimostra quanto accaduto del dicembre del 2014 nel Municipio V di Roma, quando su pressione di Fratelli d’Italia il Consiglio municipale approvò un ordine del giorno per la realizzazione di una moschea unica nel quartiere di Tor Pignattara, che avrebbe dovuto sostituire le quattro sale di preghiera, tutte a gestione bangladese. La proposta, tesa ufficialmente a dare visibilità alla presenza musulmana, dotandola di un luogo adeguato per la preghiera, puntava in realtà a rispondere ai timori securitari dei residenti italiani della zona. Ma il progetto non trovò alcun consenso tra i musulmani bangladesi di Tor Pignattara, che ritenevano insensato e ingiusto essere costretti in uno stesso luogo di culto assieme a musulmani con i quali, a parte la nazionalità, non si condivideva altro: non visioni dottrinali, non idee politiche, né reti relazionali o rapporti fiduciari[5].

 

Il ruolo sociale delle “moschee” bangladesi

 

Ma quali funzioni svolgono le sale di preghiera bangladesi? A parte le preghiere, una attività particolarmente diffusa è l’insegnamento del Corano per i bambini, spesso proposto in orario pomeridiano oppure nelle giornate di sabato e domenica.

 

Se nella gran parte dei casi ci si limita a una formazione teologica di base, peraltro affidata a insegnanti di cui non sono quasi mai certificabili le competenze[6], in altri la formazione dei minori risponde alle esigenze dei genitori di trasmettere ai figli nati in Italia dei rudimenti di “cultura” bangladese. Così, in alcune sale di preghiera si tengono corsi di lingua bengali, di storia del Bangladesh e di geografia del Paese. Il sostegno ai bambini prevede in alcune sale di preghiera l’aiuto nello svolgimento dei compiti scolastici assegnati per casa.

 

Una attività formativa di una certa rilevanza è rivolta ai migranti bangladesi di recente approdo, con l’organizzazione di corsi di lingua italiana. Ciò può avvenire in partenariato con istituzioni pubbliche, come nel caso del Tor Pignattara Muslim Centre, in cui studenti dell’Università Tor Vergata prestano volontariamente il proprio tempo per l’insegnamento della lingua italiana. I nuovi immigrati, indirizzati da reti relazionali, si rivolgono inoltre alle amministrazioni dei luoghi di culto per questioni pratiche, come la ricerca di una stanza, di un posto letto, di opportunità lavorative. Sempre per gli adulti sono previsti corsi che si prefiggono di far conoscere la Costituzione e di promuovere la cittadinanza attiva. Talvolta, grazie a reti associative, vengono organizzati incontri di formazione-informazione sui diritti sul lavoro, sulla sanità, sull’istruzione dei bambini.

 

Le sale di preghiera si sostengono in gran parte con l’impegno economico delle leadership e delle loro reti. I frequentatori contribuiscono a seconda delle disponibilità. Il sistema delle offerte garantisce il mantenimento della struttura (affitto, manutenzione) e il pagamento di alcune persone che la tengono aperta o ne curano la pulizia. I luoghi di culto assicurano inoltre una forma di welfare per i bisognosi, come il sostegno a donne vedove o separate, l’organizzazione di funerali (più o meno formali), la delicata gestione dell’invio di salme in Bangladesh. È ancora alle amministrazioni delle sale islamiche che molti cittadini bangladesi si rivolgono per assistenza legale e aiuto burocratico nei rapporti con le istituzioni, per esempio per il rinnovo del permesso di soggiorno o di altri documenti. Si riscontrano casi in cui locali adiacenti alla sala di preghiera vengono affittati a professionisti a prezzi favorevoli, con l’accordo di impegnarsi a ricevere i fedeli che frequentano quel luogo. In questo modo i musulmani afferenti a una certa “moschea” possono usufruire delle competenze di medici, avvocati, commercialisti: attività e servizi di notevole importanza per i fedeli musulmani bangladesi che si inscrivono nella competizione tra leadership di cui si è detto sopra.

 

Conflitti e aperture verso la società italiana

 

Sentimenti di diffidenza da parte di diverse componenti della società italiana – dalla politica alla “gente comune”, dalle istituzioni al mondo del lavoro – provocano in molti musulmani bangladesi una percezione di ostilità. La cosiddetta legge anti-moschee, votata nel 2015 dalla Regione Lombardia (e dichiarata incostituzionale) è un esempio di un atto istituzionale avvertito come vessatorio. Si è arrivati talvolta a proteste eclatanti. Un caso che ha avuto ampia risonanza mediatica è quello della chiusura a Roma, tra giugno 2016 e febbraio 2017, di sette sale di preghiera, cinque delle quali bangladesi, messa in atto dalle autorità municipali e dalla polizia per inottemperanza delle norme sulla sicurezza, mancata dichiarazione del cambio di destinazione d’uso, mancate autorizzazioni per costruzioni e/o demolizioni di opere edilizie, come pareti divisorie e servizi igienici. Tra settembre e ottobre 2016 una parte della collettività musulmana ha reagito organizzando preghiere in piazza per rivendicare il diritto alla libertà religiosa sancito dalla Costituzione. La quasi totalità era costituita da associazioni bangladesi, guidate dal Coordinamento delle Associazioni Islamiche del Lazio (CAIL) e da alcuni musulmani italiani. Le prime tre manifestazioni sono state organizzate nel territorio del Municipio V: il 16 settembre presso la sede del Municipio, il 23 in piazza dei Mirti, il 30 a largo Preneste. Le ultime due hanno avuto maggiore risalto poiché organizzate in aree centrali: il 7 ottobre a piazza Vittorio (dopo che si era programmato di pregare in piazza Venezia) e soprattutto il 21 ottobre al Colosseo[7].

 

Va segnalato d’altro canto un clima di positiva collaborazione da parte di molte associazioni islamiche bangladesi nei confronti della società italiana. In parte questo atteggiamento rientra negli sforzi tesi a superare i noti pregiudizi generati ed enfatizzati da episodi terroristici. Per altro verso, eventi specifici e progetti peculiari hanno permesso azioni efficaci e capillari, seppure circoscritte, legate all’alleanza delle “moschee” con realtà associative legate alla valorizzazione dei territori, come per esempio Benvenuti in Italia a Torino e Ecomuseo Casilino a Roma. Questi progetti hanno comportato l’apertura dei luoghi di culto alla cittadinanza in particolari giornate, visite guidate per la popolazione studentesca di diverso grado ed eventi divulgativi.

 

Positiva è l’iniziativa di alcuni imam che propongono la khutba (sermone) in lingua italiana o con traduzione in italiano. Lo stesso sermone vede le guide spirituali impegnate in un significativo lavoro d’inclusione sociale dei fedeli musulmani nella misura in cui scelgono di trattare temi della realtà diasporica: professare l’Islam in un Paese in cui si è minoranza dal punto di vista religioso; le relazioni coi non-musulmani; l’incontro con la società italiana; il buon vicinato. Lodevoli sono anche le varie iniziative nel mese di Ramadan con inviti a partecipare a iftar condivisi.

 

I processi di apertura alla società italiana si devono anche ai cosiddetti immigrati di seconda generazione. Figli di genitori bangladesi ma formatisi in Italia, essi costituiscono un elemento fondamentale di innovazione. Molti di loro sono attivi nelle sale di preghiera, dove svolgono un prezioso lavoro di mediazione tra l’Islam “dei padri” e la società italiana. Talvolta si collocano dietro le quinte, in altri casi assumono ruoli di primo piano. Molti di loro aderiscono all’associazione dei Giovani Musulmani d’Italia, con la quale collaborano a progetti nelle e per le scuole (per es. nel progetto Incontri del Centro Astalli). Nel giugno 2019, con l’appoggio delle istituzioni accademiche, hanno organizzato un iftar all’Università Sapienza (il primo in un’università italiana). Scopo primario promosso dall’associazione è far percepire l’Islam come una religione italiana piuttosto che quella “degli altri”. Obiettivo non utopico ma minato da un dato allarmante: una buona parte degli oltre 6.000 bangladesi che tra 2013 e 2016 hanno lasciato l’Italia per la Gran Bretagna è costituita da giovani, molti dei quali partono dopo il ciclo obbligatorio di studi, spesso dopo aver acquisito la cittadinanza italiana.

 
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Bibliografia essenziale

Maidul Islam, Limits of Islamism. Jamaat-e-Islami in Contemporary India and Bangladesh, Cambridge Univesity Press, New Delhi 2015.

Andrea Priori, Romer probashira. Reti sociali e itinerari transnazionali. Bangladesi a Roma, Meti Edizioni, Roma 2012.

Carmelo Russo, Musulmani di Roma. Spunti di riflessione da una etnografia, in Carmelo Russo, Alessandro Saggioro (a cura di), Roma città plurale. Le religioni, il territorio, le ricerche, Bulzoni, Roma 2018, pp. 285-371.


[1] Carmelo Russo, Musulmani di Roma. Spunti di riflessione da una etnografia, in Carmelo Russo, Alessandro Saggioro (a cura di), Roma città plurale. Le religioni, il territorio, le ricerche, Bulzoni, Roma 2018, pp. 285-371.

[2] Andrea Priori, Romer probashira. Reti sociali e itinerari transnazionali. Bangladesi a Roma, Meti Edizioni, Roma 2012, pp. 287-288.

[3] Maidul Islam, Limits of Islamism. Jamaat-e-Islami in Contemporary India and Bangladesh, Cambridge Univesity Press, New Delhi 2015.

[4] Andrea Priori, Romer probashira, pp. 57-62.

[5] Carmelo Russo, Musulmani di Roma, pp. 344-345.

[6] Sara Colantonio e Carmelo Russo, I profili degli imam, in Maurizio Ambrosini, Paolo Naso e Claudio Paravati (a cura di), Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 69-76.

[7] Carmelo Russo, Musulmani di Roma, pp. 363-365.

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