La moschea, luogo di preghiera dell'Islam, l'origine storica e le sue caratteristiche architettoniche

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:45

In questi ultimi tempi si è fatto un gran parlare di questioni relative al mondo musulmano, alla sua fede, alle sue istituzioni e a tante problematiche attinenti al modo in cui sia possibile – e auspicabile – un incontro fra istanze diverse, un incontro che non solo non sottragga niente a nessuno, bensì sia in grado, semmai, di aggiungere qualcosa.

Uno dei nodi centrali relativi al fenomeno della recente ondata di immigrazione musulmana in Europa è certamente quello della moschea e del posizionamento di tale struttura nel contesto sociale, culturale, economico e politico della comunità ospite. È uno dei problemi più sentiti dalle comunità musulmane e come tale è doveroso affrontarlo, magari proprio partendo dalla domanda più semplice: che cos’è una moschea?

Interno sala di preghiera di Sultan Hasan, CairoPur senza entrare troppo nello specifico, occorre cercare di fornire poche ed essenziali informazioni in grado di indirizzare lungo binari di correttezza il dibattito, fin troppo acceso ma spesso altrettanto disinformato. Tutti sanno che il Corano – eterno e increato – è il testo sacro dell’Islam, fonte imprescindibile per ciò che concerne molti aspetti dell’esperienza di vita islamica. Ora, in modo sorprendente e forse di primo acchito paradossale, l’istituzione della moschea non compare inequivocabilmente e a pieno titolo nel libro sacro dell’Islam. Vi si menziona sì il masjid, ovvero la moschea, ma semanticamente col significato di “tempio”, il più delle volte riferito alla Ka’ba oppure a Gerusalemme, e non con l’accezione che comunemente diamo oggi al termine di “luogo di culto musulmano” (definizione prevalente, ma vedremo, anche di per sé fuorviante...).

Nel Corano si scorgono qua e là accenni o richiami a luoghi che possono essere intesi come moschea, ma senza riferimento a una struttura architettonica necessaria e organicamente definita. Si parla, invece, e molto, di preghiera. I cinque principi basilari, o elementi essenziali ovvero arkân, sono: la professione di fede (shahâda), la preghiera (salât), il mese di digiuno rituale diurno (ramadân), il pellegrinaggio alla Mecca una volta nella vita ove si verifichino le condizioni possibili per il suo espletamento (hajj) e l’elemosina o beneficienza obbligatoria (zakât).

La preghiera è una pratica fondamentale nell’Islam; se in una primissima fase (nel periodo della predicazione alla Mecca) questa sembra facoltativa, dopo l’Egira a Medina essa assumerà un ruolo sempre più importante e sarà resa obbligatoria. Preghiera da compiersi volgendosi verso una precisa direzione (com’è noto in prima istanza Gerusalemme e poi la Mecca) e in stato di purezza, ottenuto attraverso un’abluzione totale o parziale, in modo da presentarsi degnamente di fronte a Dio. Non è priva di significato la circostanza che secondo la tradizione musulmana Maometto riceva la rivelazione profetica mentre si trova in meditazione (ma potremmo dire anche, appunto, preghiera) in una caverna sul monte Hirâ’ nei dintorni della Mecca, ad espletare quelli che gli islamologi chiamano “esercizi di devozione” e che noi possiamo definire, in termini che ci sono più familiari, “esercizi spirituali”.

La pratica della preghiera, dunque, si pone come un fatto fondante nell’esperienza di vita musulmana. Ma fin qui siamo, prettamente, su un piano personale. C’è di più. La necessità di creare una comunità solida e coesa nella sua fede appare una preoccupazione costante nell’opera profetica di Maometto: ciascuno dei precetti basilari dell’Islam, ad eccezione della professione di fede, enunciazione eminentemente dogmatica, può e deve essere letto come la ricerca di una superiore comunità e di un progressivo rafforzamento della stessa attraverso pratiche nelle quali il singolo si sublima nell’incontro con Dio, ma accanto e insieme al proprio fratello. Ecco la preghiera che viene compiuta da tutta la umma (comunità), il venerdì, in modo da cementare e accrescere il senso di appartenenza. Preghiera indispensabile per il fedele, come indispensabile è il confronto con l’altro.

Corte della moschea di Ibn Tulun, CairoStoricamente si tende ad accreditare l’ipotesi che la preghiera si svolgesse agli inizi un po’ ovunque e dove capitava, molto spesso all’esterno, e che solo a Medina (quindi dopo l’egira del 622) i seguaci di Maometto abbiano cominciato a incontrarsi a tale scopo nella corte della sua abitazione. Di certo c’è il ruolo importante svolto da chi la preghiera comunitaria la guida, assumendo il compito di pronunciare la khutba (predica, o, meglio, pubblica allocuzione), momento alto non solo in ambito religioso ma anche civile e politico.

I numerosi hadîth (detti e fatti riguardanti la vita esemplare del Profeta) relativi alla preghiera e le tradizioni che si sono tramandate in merito all’istituzione di un luogo di culto sono abbastanza concordi nel segnalare come la struttura non abbia in realtà una vocazione univoca. Essa funzionava come quello che oggi definiamo uno “spazio polivalente” o “polifunzionale”, dedicato all’incontro, al riposo, alla lettura, alla discussione e, certo, alla preghiera. Non va poi sottovalutata la possibile ascendenza dal majlis (parlamento), ovvero dalla tenda nella quale si svolgeva il consiglio tribale e che aveva il carattere di un luogo sacro e inviolabile (se poi l’impiantito fosse stato coperto da tappeti o stuoie, cosa che le fonti non precisano, avremmo una conferma dell’importanza dei tappeti, su cui diremo qualcosa più oltre), ciò che ne accentuerebbe molto il ruolo di centro di esercizio del potere. Non si spiegherebbe altrimenti la maqsûra (una struttura lignea mobile; potremmo definirla un transennamento) che viene eretta solamente nelle maggiori moschee, quelle congregazionali, col duplice fine di garantire sicurezza al califfo e al contempo la tranquillità necessaria a prendere delicate decisioni estemporanee riguardanti la vita della comunità.

Altre funzioni svolte nella moschea sono quelle dell’insegnamento e dell’amministrazione della giustizia. L’insegnamento, in particolar modo del Corano e della sua esegesi, si svolgeva (e si svolge) nelle moschee; infatti l’istituzione della madrasa quale edificio specializzato a fini educativi è relativamente tardo, risalendo al XII-XIII secolo. Pure la giustizia, esercitata dal califfo, poteva avere il suo fulcro nella moschea (ci saranno momenti storici nei quali nella moschea stazioneranno delle guarnigioni militari) o nel palazzo, il quale, come vedremo, era a questa imprescindibilmente legato, soprattutto nelle più antiche realizzazioni: a Kufa, a Baghdad o al Cairo (Ibn Tulûn) solo per fare qualche esempio. A chi scrive – viaggiatore nelle terre d’Oriente da oltre tre decenni – è capitato più d’una volta di riposarsi al fresco di una cupola o sedersi in una corte a leggere un libro o seguire da lontano una scolaresca immersa nello studio: serenamente e naturalmente.

Veduta aerea della Grande Moschea omayyade (751)La dimensione religiosa c’è eccome, ovunque, ma non è enfatizzata. Lo storico dell’arte poi osserva come spesso si circoli liberamente anche con le calzature fino al luogo deputato alla preghiera segnalato in molti casi dalla presenza di tappeti. I tappeti – è stato scritto altrove – sono probabilmente il primo altare (un altare mobile) di cui si sia dotata l’umanità e costituiscono la segnalazione non di un territorio sacro, ma di uno spazio nel quale il fedele ha l’opportunità di presentarsi al cospetto di Dio. E che diventa sacro non per la presenza del fedele ma per il suo atto di preghiera. Lo segnala il tappeto (ma anche una stuoia fatta nel più povero dei materiali), solo ed esclusivamente nel momento della preghiera. È la preghiera, ovviamente, non il tappeto, il veicolo del sacro. E, per inciso, non certo di proibizione delle immagini (iconoclastia) si deve parlare in relazione alla moschea, ma forse più semplicemente (noi lo crediamo fermamente) di uno stimolo tradotto attraverso una decorazione giocata su più livelli (geometrico, floreale astratto – quello che si chiama arabesco, ovvero “arabesche” a tralci vegetali derivati dalla classica palmetta) e sublimato dall’immancabile epigrafia.

Il complesso di questa decorazione è tesa a liberare la mente del fedele, a svuotarla dalle aspettative profane del contingente per trascinarla e spingerla verso la trascendenza. Inoltre, con più piani prospettici e con un programma esornativo caleidoscopico e mai veramente concluso e limitato da una cornice che lo interrompe (l’indeterminatezza del disegno, la possibilità di replicarlo all’infinito è uno dei cardini dell’esperienza artistica islamica, sempre e ovunque), si esalta l’unicità di Dio nella Sua infinita e inesausta potenza creatrice. Illimitate sono le forme e le variazioni dell’arte islamica.

Tornando alla moschea, la sua genesi come spazio anche civile (è il foro della civiltà islamica) è documentata dal fatto che non a caso urbanisticamente nell’Islam essa sia collegata al palazzo califfale (che doveva essere vicino al cuore della comunità dalla quale riceveva legittimazione; per esempio il tesoro pubblico era conservato nella moschea, non nel palazzo...), ma anche al mercato e allo hammâm (bagno termale), pure quest’ultimo luogo ritualmente indispensabile, ma divenuto rapidamente anche centro di aggregazione sociale, ieri come oggi.

L’hammâm è il luogo deputato per le cerimonie e le feste di addio al celibato e al nubilato! Architettonicamente una moschea non ha alcun vincolo. Le più antiche, nelle zone mediterranee della prima espansione come la Siria, riprendono la struttura basilicale cristiana orientata, con una semplice rotazione di 90° di modo da trovarsi in perfetto asse qiblî (la direzione verso cui volgere la preghiera) con la Mecca. Si possono ancora citare le moschee irachene di nuova istituzione – che conosciamo solo attraverso le indagini archeologiche – anch’esse semplicissime: una corte, porticata o meno, e a un’estremità una “sala” coperta da una tettoia in genere piatta. Il perimetro è spesso fortificato, proprio a sottolineare che quella è la sede della comunità.

Nessuna consacrazione è necessaria: ciascun luogo può essere adibito a moschea, ferma restando l’esigenza di rispettare la volontà di trascendenza del fedele e anche le differenze di genere, per cui fin dagli esordi alle donne veniva riservata un’area specifica. Dal punto di vista della sua origine storica la moschea non necessita di altro: i principali complementi, ovvero il mihrâb (la nicchia che indica qual è effettivamente la parete qiblî), il minbar (ossia il pulpito, spesso ligneo e mobile, posto sul lato destro del mihrâb) e il manâr (il minareto) sono strumenti entrati a definire una moschea solo in un secondo momento e, in senso tecnico, nessuno dei tre è strutturalmente indispensabile alla definizione di moschea. Sull’origine del mihrâb si è molto dibattuto; pare che il profeta Maometto usasse una lancia per segnare la direzione della preghiera (un uso di cui si troverebbe una eco anche nella prima monetazione), mentre la nicchia, probabilmente non una rientranza concava, almeno nei primissimi esempi architettonici costruiti ex novo, si fa risalire a un modello cristiano, quello dell’abside, ovviamente in forma contratta; ipotesi fortemente avversata dal Monneret de Villard. In alternativa il mihrâb è assimilato alla nicchia dove si conservava la Torah nelle sinagoghe, pur se non possiamo dimenticare di citare le forti e stringenti analogie con edifici di culto preislamico yemeniti. L’esempio più classico è quello della bellissima sinagoga di Dura Europos (254 d.C.) ora ricostruita al Museo Nazionale di Damasco. Ma nessuna norma, mai, obbliga il mihrâb ad assumere una tale morfologia: il fedele deve semplicemente identificare immediatamente quale sia la parete qiblî verso la quale orientare le proprie orazioni.

Ancora più lontano da un uso esclusivamente religioso è l’impiego del minbar (sopra tradotto con pulpito, sebbene si possa adattare bene anche il termine trono): Maometto usava una corta scaletta con due gradini e un terzo per la seduta, gradini che già con Mu‘âwiya divennero sei. Questo seggio veniva portato in battaglia (forse a imitazione di una tradizione analoga dei sasanidi, oppure seguendo un uso tribale preislamico) e costituiva un chiaro segno di potere politico-militare e di legittimazione del ruolo di guida della comunità. Poi, ma solo poi, diviene anche indispensabile strumento di riconoscimento pure religioso nel momento in cui il Califfo/Imam pronunciava la khutba.

Cairo. La corte del complesso di Faraj ibn Barquq (1400-1411)Il minareto è probabilmente la struttura meno caratterizzante la moschea in senso storico (e c’è da sorridere pensando ad alcune recenti polemiche in merito...), ma col passare del tempo – e ispirandosi, questa volta sì, alle torri campanarie cristiane delle quali mantiene agli esordi la forma di torre massiccia e squadrata – diviene anche un segno visivo di tutto rilievo. Ma una moschea è una moschea anche senza minareti! Di fatto la moschea (ispirata o meno all’abitazione medinese di Maometto) può limitarsi a una sala coperta nella quale prevale l’asse trasversale o lato lungo, di modo da permettere al maggior numero possibile di fedeli di situarsi su una stessa linea di preghiera. Tradizionalmente nelle moschee c’è anche una corte circondata da porticati su tre lati.

Ferme restando le scarse se non nulle esigenze di tipo rituale riscontrabili nell’Islam («Tanto quanto la liturgia cristiana è stata dinamica, quella islamica è stata statica», Monneret de Villard, Introduzione allo studio dell’archeologia Islamica, Venezia-Roma, 1966, 112), potremmo concludere che una moschea può essere un qualsivoglia edificio. Questo rende molto interessante la prospettiva, o meglio ancora la sfida, rappresentata dalla possibilità di edificare architetture di moschee moderne ed evolute, non necessariamente ancorate a tradizioni importanti ma ormai divenute in buona parte stantie e prive di fascino. Insomma, la moschea è un luogo imprescindibile per la comunità musulmana, fondamentale per rispondere all’esigenza della preghiera comunitaria del venerdì e non solo; ma sulla sua forma ci si può esercitare con molta intelligenza nel pieno rispetto delle esigenze delle varie comunità che interagiscono in un medesimo contesto urbano.

Fotografie per gentile concessione dell'autore.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

*Giovanni Curatola (Firenze, 1953) è un orientalista formatosi alla scuola veneziana di Ca’ Foscari e perfezionatosi dopo la laurea a Londra e Oxford. Professore ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte Musulmana presso l’università di Udine, tiene corsi anche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Fra le numerose pubblicazioni si ricordano Tappeti (1981), Le Arti nell’Islam (1990), Iran. L’arte Persiana (2004) e la cura del volume: Iraq. L’arte dai sumeri ai califfi (2006).


Bibliografia

Ugo Monneret de Villard, Introduzione allo studio dell’archeologia islamica: le origini e il periodo omayyade, Istituto per la Collaborazione Culturale, Venezia-Roma 1966.

Oleg Grabar, Arte islamica. La formazione di una civiltà, Electa, Milano 1989. Robert Hillenbrand, Islamic Architecture: Form, Function and Meaning, Edinburgh University Press, Edinburgh 1994.

Giovanni Curatola, L’arte islamica, Corriere della Sera, Milano, 2009.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Giovanni Curatola, Alla scoperta della moschea, centro di preghiera e foro di civiltà, «Oasis», anno VI, n. 11, giugno 2010, pp. 120-128.

 

Riferimento al formato digitale:

Giovanni Curatola, Alla scoperta della moschea, centro di preghiera e foro di civiltà, «Oasis» [online], pubblicato il 1 giugno 2010, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/islam-moschea-luogo-di-preghiera-e-foro-di-civilta.

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