Divieto di guadagno smodato e di usura, obbligo di elemosina a favore di poveri: sono queste le basi della vita economica e finanziaria dell’Islam, ricavate direttamente dai versetti coranici. In essi non c’è una condanna della ricchezza né delle differenze sociali, sentite come naturali e permesse da Dio

Questo articolo è pubblicato in Oasis 11. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:42

Il Corano, libro sacro dell’Islam, vieta ogni tipo di guadagno smodato, l’usura, l’alea e prescrive un’elemosina rituale a favore dei poveri, degli indigenti, dei debitori, per il riscatto dei prigionieri e per altri fini caritatevoli [9,60]. Tuttavia, l’ideale di giustizia sociale proposto non contempla affatto l’eliminazione delle differenze sociali, percepite come naturali e volute da Dio. Si tratta piuttosto di un modello di comunità, diretto dai principi divini, in cui i più fortunati donano parte dei propri beni a beneficio dei più poveri.

La morale coranica è ispirata, contrariamente alle esortazioni a scegliere la povertà tipiche del Vangelo e del Cristianesimo primitivo, a un forte senso del “giusto mezzo”: distribuire tutti i propri beni è considerata azione peccaminosa al pari dell’avarizia [Cor, 17,26-27.29; 25,67]. Manca nell’Islam un ideale ascetico di rinuncia: la penitenza e il digiuno sono pratiche lodevoli purché limitate nel tempo, ogni forma di monachesimo è rigettata; il credente viene invitato a godere di quanto Dio gli ha concesso [Cor, 4,32; 20,81], la ricchezza – purché realizzata con mezzi legali – è una grazia [Cor, 16,71] e in una famosa tradizione si fa dire a Muhammad che «quando Dio benedice un uomo con l’agiatezza, vuole vederne le tracce su di lui». In altre parole si dipinge come benaccetto a Dio il lusso nelle vesti, l’uso dei profumi, e tutti i simboli esteriori del benessere, cosicché l’Islam viene a costituire un polo diametralmente opposto a ogni etica economica puritana.

A partire dal IX secolo il Sufismo propone un ideale di vita basato sulla rinuncia al mondo, la povertà, l’abbandono a Dio. Di fronte all’emergere di un tale modello, proprio nel momento in cui il mondo islamico si trovava al suo apogeo economico, si assiste alla nascita, soprattutto in ambito sunnita-hanafita, di una serie di manuali che difendono la preminenza, agli occhi di Dio, del lavoro e di ogni attività umana. Non siamo tuttavia di fronte a un’etica del lavoro tout court, perché permane una gerarchia dei mestieri in base a cui le professioni considerate nobili – in particolare quella del mercante – hanno la netta prevalenza sui lavori manuali e su alcuni mestieri (come tintori e conciatori) cui è associato uno statuto sociale inferiore. Nel Corano tanto l’usura [ribâ, 30,39; 3,130; 2,275] quanto l’alea [gharar, 2,219; 5,90-91] sono investite da una dura censura che è insieme giuridica e morale. Pur considerando che si tratta di una condanna di principio dietro cui si cela una tolleranza di fatto, in un contesto culturale in cui gli ambiti dell’etica, del diritto e dell’economia tendono a sovrapporsi e a interagire tra loro, questa censura ha avuto sensibili riflessi nell’evoluzione dei contratti, in particolare di quelli di vendita e di società.

La prima conseguenza dell’interpretazione dei passi coranici relativi all’usura e all’alea comporta che i contratti di scambio, prestazione e controprestazione non devono presentare elementi di incertezza e devono uguagliarsi, affinché ciascuna delle parti tragga un beneficio che sia proporzionato, equo e giustificato in relazione sia all’attività posta in essere sia allo scopo che si intende realizzare. In base a una linea interpretativa affermatasi nella giurisprudenza islamica, gli interessi pecuniari – sia sotto forma di prestazione corrispettiva e periodica per il godimento di un capitale, sia per il ritardato pagamento di un debito – rientrano nell’ambito di applicazione del divieto di ribâ. Dal punto di vista islamico la nozione di un interesse predeterminato, che non tiene conto del reale beneficio che il debitore trae dal capitale, è di per sé contraddittoria. Per far fruttare i capitali si preferiscono quindi modelli partecipativi, nei quali, in base a forme contrattuali societarie, il creditore prende parte ai benefici ottenuti e ai rischi sopportati dal debitore. Tali forme contrattuali partecipative, che non ritardarono ma anzi favorirono lo sviluppo economico del mondo islamico medievale, sono oggi applicate dalle banche islamiche.  

Dopo il Boom Petrolifero

Dal punto di vista islamico, il divieto d’interesse implica che non può esserci guadagno senza compartecipazione al rischio. Il sistema bancario islamico cerca quindi, in accordo con i dettami coranici, di eliminare l’interesse sostituendolo con il principio della compartecipazione al rischio. L’attività bancaria islamica comincia, su scala ridotta, grazie a iniziative individuali nei primi anni ’60 del secolo scorso. La successiva crescita del sistema bancario islamico negli anni ’70, in seguito al boom petrolifero, è invece favorita e appoggiata da alcuni stati islamici, attraverso modifiche alla propria legislazione bancaria o l’emanazione di leggi ad hoc. Un concreto passo verso la creazione di un sistema bancario islamico è costituito dalla firma, nel 1974 a Gedda, di un accordo tra ventisette stati islamici per la creazione di un istituto finanziario islamico intergovernativo con il compito specifico di promuovere lo sviluppo usando strumenti finanziari islamici. L’anno successivo nasce la Banca Islamica per lo Sviluppo (Islamic Development Bank, IDB). Studi recenti hanno recensito circa 300 banche islamiche presenti in oltre 70 paesi (islamici e non), che amministrano capitali per 500 miliardi di dollari.

Per lo più le banche islamiche operano in concorrenza con le banche convenzionali; solo in Pakistan, Iran e Sudan l’intero settore bancario è stato completamente islamizzato.  La banca islamica, come qualsiasi altra banca, ha come obiettivo la mobilizzazione del risparmio a favore degli investimenti. È organizzata come una società per azioni il cui capitale iniziale viene fornito dagli azionisti. Le funzioni delle banche e degli altri intermediari islamici sono molto simili alle controparti convenzionali. Gli economisti islamici hanno dimostrato che esistono modalità e strumenti alternativi al tasso d’interesse (sia passivo che attivo) con cui svolgere tali funzioni. La conformità all’Islam delle operazioni poste in essere dalla banca islamica è garantita da un organo denominato “Consiglio di controllo sciaraitico”, la cui principale funzione è la valutazione dell’attività economica della banca in riferimento alla coerenza con i principi e le regole della legge islamica. Dal punto di vista della gestione del capitale attivo, la banca islamica per concedere crediti ai clienti utilizza un certo numero di prodotti finanziari che non prevedono la corresponsione di interessi. Nel sistema finanziario islamico i depositi a vista (conti correnti e depositi di risparmio) non partecipano ai rischi dell’attività bancaria: pertanto essi non fruttano alcun guadagno, ma sono garantiti.

I depositi finalizzati agli investimenti, invece, partecipano ai rischi e di conseguenza ai profitti. Il capitale investito assume la forma di compartecipazione ai profitti e alle perdite (Profit and Loss Sharing – PLS) derivanti da attività imprenditoriali o finanziarie, tramite contratti societari. I principali contratti sono la mudâraba (partnership passiva) e la mushâraka (partnership attiva). La mudâraba (partnership passiva), simile al contratto in uso nel Medioevo, viene stipulata tra la banca che fornisce il capitale e un agente-manager (l’imprenditore che ha richiesto un finanziamento). Gli utili vengono ripartiti tra le parti secondo quote fissate al momento della firma del contratto. L’eventuale perdita finanziaria ricade per intero sul capitalista, mentre l’agente corre il rischio di svolgere la sua attività senza alcun compenso. A meno di violazioni del contratto o inadempienze l’agente non garantisce la restituzione del capitale affidatogli né la produzione di utili. Nella forma utilizzata dagli istituti di credito islamici in funzione di raccolta del capitale, i risparmiatori svolgono il ruolo di fornitori di capitale e la banca di agente. I fondi di investimento islamici possono essere generali o limitati a particolari progetti. A differenza della mudâraba, la mushâraka (partnership attiva) prevede la compartecipazione nella gestione e nell’apporto di capitale, nonché nella ripartizione degli utili e delle perdite.

Gli utili vengono ripartiti tra i contraenti nella proporzione stabilita dal contratto, mentre la compartecipazione alle perdite avviene in base alla quota di capitale posseduta. Il credito alle imprese su base partecipativa costituisce una sostanziale alternativa al mutuo ad interesse, in cui al rimborso del capitale si aggiunge il pagamento degli interessi, di ammontare non predeterminato e svincolato dall’esito dell’impresa in cui il capitale è stato investito. Viceversa nel sistema islamico, il debito dell’imprenditore verso la banca è costituito da una somma variabile a seconda dei risultati dell’impresa. Pertanto, l’imprenditore sarebbe maggiormente motivato a portare a compimento positivamente il progetto, poiché dal profitto finale dipendono i benefici finanziari che egli trae dall’operazione. È inoltre fondamentale la capacità del cliente di convincere la banca della validità del progetto per cui chiede il finanziamento. Dunque centrale non è – come nei sistemi convenzionali – la posizione finanziaria del cliente e la sua capacità di tener fede al credito, ma la fattibilità e rimuneratività del progetto che egli sottopone alla banca.

Utilizzo Limitato a Causa dei Rischi

Gli economisti islamici insistono sull’importanza socio-economica dei metodi basati sulla compartecipazione ai profitti e alle perdite, tuttavia il loro utilizzo da parte delle banche islamiche rimane ancora piuttosto limitato a causa dei rischi connessi e dei costi di gestione dei progetti. Più consistente è la quota dei metodi non partecipativi.  Non tutte le attività delle banche islamiche possono essere ricondotte al sistema partecipativo. Le modalità di finanziamento non partecipativo si basano su contratti di vendita o di locazione di beni reali e servizi. In questo caso il tasso di remunerazione è fissato in anticipo e viene inglobato nel prezzo d’acquisto o nel canone di locazione; in tal modo il finanziamento risulta meno rischioso rispetto ad una partecipazione azionaria o ad un finanziamento in modalità PLS. Il fatto che il tasso di remunerazione sia predeterminato può far apparire queste forme contrattuali simili al prestito ad interesse. Gli economisti islamici insistono sulle differenze: in primo luogo, essi sostengono che i contratti non-partecipativi messi in atto dalle banche islamiche non comportano l’erogazione di prestiti, ma si basano su transazioni che hanno per oggetto beni reali o servizi; in secondo luogo, fanno notare che viene stabilito un prezzo del bene o servizio erogato e non un tasso di interesse. Una volta fissato, il prezzo non può essere modificato nel caso di ritardi nel pagamento dovuti a circostanze impreviste.

Questo, da una parte tutela l’interesse dei clienti, ma dall’altra può creare problemi di liquidità alla banca nel caso di deliberati ritardi nei pagamenti. Le banche islamiche si avvalgono di alcune tipologie di contratti di vendita come forme di finanziamento, in particolare del bay‘ mu’ajjal (vendita rateale) e del bay‘ al-murâbaha (vendita a premio fisso o mark-up); il leasing, sia operativo (ijâra) che finanziario; l’istisnâ‘ (contratto di fabbricazione), ossia un contratto attraverso il quale una delle parti ordina all’altra di fabbricare e fornire un bene con data di consegna e prezzo stabiliti; il salam, un contratto di vendita in cui il pagamento viene anticipato rispetto alla consegna del bene o servizio che avviene ad una data futura e determinata. Ultimi nati tra gli strumenti finanziari islamici sono i sukûk, obbligazioni simili ai bond ma in linea con i dettami del Corano: stanno registrando una crescita esponenziale. Emessi per la prima volta nel 1990 in scala ridotta, nel 2006 sono diventati 199 bond, per un valore di 27,17 miliardi, nel 2007 erano 206 per complessivi 47 miliardi di dollari, mentre nel primo trimestre del 2008 sono stati emessi 44 bond per 2,3 miliardi [1]. 

Le prospettive di crescita per i prossimi 5 anni della finanza islamica sono stimate oltre il 15% annuo, il doppio rispetto a quelli della finanza tradizionale. A questo importante tasso di crescita si aggiunge il fatto che entro i prossimi 5 anni il sistema bancario islamico dovrà essere regolato uniformemente in tutta l’area Euro, creando così un nuovo canale nei rapporti tra le istituzioni finanziarie islamiche e quelle occidentali.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
© RIPRODUZIONE RISERVATA

[1] Finanza, le banche  islamiche non conoscono crisi, «Il sole24ore», in , 2009-01-11.

Bibliografia   Maxime Rodinson, Islam e capitalismo, Einaudi, Torino 1968. Biancamaria Scarcia Amoretti (a cura di), Profilo dell’economia islamica, Centro Culturale al-Farabi,  Palermo 1988. Gian Maria Piccinelli, Banche islamiche in contesto non islamico. Materiali e strumenti giuridici, I.P.O. “C.A. Nallino”, Roma 1996. Rodney Wilson, Economics, Ethics and Religion: Jewish, Christian and Muslim Economic Thought,  MacMillan, London 1997. Ersilia Francesca, Teoria e pratica del commercio nell’Islam medievale, Università degli Studi di  Roma “Tor Vergata” - IPO “C.A. Nallino”, Roma 2002. Clement M. Henry – Rodney Wilson, The Politics of Islamic Finance, Edinburgh University Press, Edinburgh 2004. Munawar Iqbal – Ausaf Ahmad, Islamic Finance and Economic Development, Palgrave MacMillan, New York 2005. Marco Mauri – Rony Hamaui, Economia e finanza islamica. Quando i mercati incontrano il mondo del Profeta, Il Mulino, Bologna 2009.

Tags