Il fallimento delle primavere arabe è stato anche il fallimento dell’Islam politico. I partiti arrivati al potere nel 2011 non sono stati capaci di guidare i processi di transizione democratica favorendo (e subendo) il ritorno dell’autoritarismo

Ultimo aggiornamento: 24/10/2022 13:00:02

Il fallimento delle primavere arabe è stato anche il fallimento dell’islam politico. I partiti a riferimento islamico che sono arrivati al potere nel 2011 in diversi Paesi del Nord Africa non sono stati infatti capaci di guidare i processi di transizione democratica innescati dalle rivoluzioni, favorendo, e allo stesso tempo subendo, il ritorno dell’autoritarismo. Tale fallimento ha delle cause che non dipendono direttamente dai limiti di questi partiti: la fragilità economica dei Paesi che essi si sono trovati a governare; la forte instabilità generata dalle crisi scoppiate in tutto il Medio Oriente, dalla Siria alla Libia; la brutale efficacia delle forze controrivoluzionarie. Tuttavia, esso può essere interpretato anche come il risultato di un difetto strutturale. Nel suo celebre Il fallimento dell’islam politico, pubblicato nel 1992, Olivier Roy aveva sentenziato con solidi argomenti che «l’islam politico non resiste alla prova dell’esercizio del potere». Per il politologo francese, questa constatazione aveva due ragioni. La prima di natura intellettuale: il pensiero islamista si fonda su un circolo vizioso, dal momento che postula la necessità d’istaurare un sistema islamico quale condizione per l’esercizio della virtù da parte dei fedeli e contemporaneamente afferma che questo sistema non può sussistere senza la virtù delle persone che le compongono. Di conseguenza, quella che per definizione è la più politica delle interpretazioni dell’islam finisce per disinteressarsi di tutto ciò che costituisce veramente la politica (le istituzioni, l’assetto economico, i rapporti tra forze sociali), concentrandosi quasi esclusivamente sull’imposizione di un ordine morale. La seconda ragione individuata da Roy era di natura storica: nei pochi Paesi in cui si è realizzato, l’islamismo non ha prodotto alcuna “società nuova”. Non solo, potremmo aggiungere che ha dato vita a regimi fortemente coercitivi e repressivi, si pensi alla Repubblica islamica d’Iran, o addirittura al terrore più spietato, come ci ha mostrato l’esperienza dello pseudo-califfato dell’ISIS. Non è un caso che uno dei grandi teorici dell’islamismo, il pakistano Abu A‘la Mawdudi, abbia candidamente scritto che il modello dello Stato islamico ha qualche somiglianza con gli Stati fascisti e comunisti.

 

Tuttavia, negli stessi anni in cui Roy formulava la sua tesi, ideologi e movimenti dell’islam politico iniziavano un percorso che li avrebbe portati ad abbandonare l’utopismo rivoluzionario per abbracciare una via riformista, con l’ambizione di coniugare Stato islamico e democrazia. L’esempio più emblematico di quest’evoluzione è rappresentato dai Fratelli musulmani egiziani. Già negli anni ’60, la più nota delle organizzazioni islamiste aveva respinto il massimalismo di Sayyed Qutb, che vedeva nel rovesciamento dei regimi “empi” la condizione irrinunciabile per la reislamizzazione delle società, per affermare la priorità della predicazione dal basso. Di Qutb restava tuttavia in vigore la pregiudiziale anti-democratica, fondata sull’idea che il riconoscimento della sovranità divina implichi il rifiuto di qualsiasi regime fondato sulla sovranità popolare. All’inizio degli anni ’90, alcuni teorici islamisti, tra cui l’influente Yusuf al-Qaradawi, recentemente scomparso all’età di 96 anni, avviano una riflessione che sfocia nell’elaborazione di una sorta di “democrazia islamica”, un sistema che, a differenza dell’ordine vagheggiato negli anni ’70 e ’80, legittima l’esistenza dello Stato nazione, il potere legislativo di un Parlamento liberamente eletto e la cittadinanza paritaria tra musulmani e non-musulmani. Questo modello si basa sulla convinzione che sovranità divina e sovranità popolare non siano necessariamente antitetiche, ma possano essere armonizzate, a condizione che il popolo sovrano scelga di essere governato secondo la shari‘a e che un corpo di esperti religiosi (gli ulema) vigili sulla conformità tra leggi umane e legge islamiche. Col nome di “Stato civile a riferimento islamico”, è questo il progetto con cui i Fratelli musulmani si sono candidati a governare l’Egitto dopo la caduta di Hosni Mubarak.

 

Benché pensata per superare l’idea dello Stato islamico, e i timori che questa suscitava sia nei regimi in carica che nelle opposizioni anti-islamiste, da subito questa formula è sembrata un espediente retorico tanto vago quanto ambiguo. Così, durante la campagna per l’elezione di un nuovo parlamento e poi del nuovo presidente della Repubblica i Fratelli musulmani si presentano come i garanti del nuovo ordine democratico egiziano e allo stesso tempo invocano nei loro comizi il califfato e la shari‘a, mentre, una volta ottenuto il potere, promulgano una Costituzione che punta abbastanza chiaramente all’islamizzazione dello Stato. Si sa come è finita: con nuove, imponenti manifestazioni di piazza, questa volta indirizzate contro il governo islamista, e il rovesciamento del presidente Morsi da parte dell’esercito.

 

Solo in apparenza più promettente è la traiettoria di Ennahda, considerata, non del tutto a ragione, la filiale tunisina dei Fratelli musulmani. Negli anni ’90, il fondatore e attuale leader del partito, Rashid Ghannushi, è stato uno dei teorici più sistematici e raffinati dell’idea di “democrazia islamica”. A differenza di Qaradawi e di altri ideologi islamisti, Ghannushi non si è però fermato a questa concettualizzazione. Dopo la Rivoluzione del 2011 ha proseguito la sua riflessione, arrivando dove gli altri ideologi non avevano osato spingersi: alla piena legittimazione del pluralismo politico, dello Stato di diritto e delle libertà individuali, e al riconoscimento, almeno de facto, del fondamento secolare del potere. In un saggio del 2012, intitolato La democrazia e i diritti umani nell’islam, l’intellettuale e attivista tunisino dichiarò perfino che il suo partito avrebbe accettato anche un risultato elettorale in cui «a vincere fossero stati i comunisti». Quest’evoluzione è culminata nel decimo congresso del partito, tenutosi nel maggio del 2016, nel quale Ennahda ha annunciato di non fare più parte dell’Islam politico, e di essere ormai un partito “democratico musulmano”. La svolta è giunta però a un prezzo piuttosto alto, e non solo in termini elettorali. Abbandonato l’obiettivo di istituire uno Stato islamico, più per l’opposizione delle altre forze politiche e della società civile tunisina che per ragioni ideali, Ennahda ha a tal punto investito sulla necessità di cooperare con soggetti diversi da perseguire il compromesso a ogni costo, finendo per rovesciare il proprio utopismo in un pragmatismo immobilizzante.

 

Il processo evolutivo dei partiti islamisti non è stato più fortunato in Marocco, dove dopo dieci anni al governo il partito della Giustizia e dello Sviluppo (PJD) è quasi sparito dal parlamento, raccogliendo soltanto 13 seggi alle ultime elezioni legislative, contro i 107 ottenuti nel 2011 e i 160 conquistati nel 2016. E anche l’AKP turco, precipitosamente elevato nei primi anni 2000 a modello di convivenza non solo tra islam e democrazia, ma anche tra islam e sviluppo economico, è oggi sinonimo di clientelismo, revanchismo imperiale e deriva autoritaria.

 

La fragilità delle convinzioni democratiche islamiste è emersa con chiarezza nell’estate del 2021, al momento del ritiro americano dall’Afghanistan, quando l’Unione mondiale degli Ulema, istituzione di riferimento per movimenti e ideologi dell’islam politico, ha celebrato come una grande vittoria la ricostituzione dell’emirato talebano. Proprio la concomitanza tra il declino dei partiti islamisti e la rinascita dei Talebani mette in luce l’impasse in cui si trova l’islam politico: impossibilitato a realizzare i propri obiettivi per via istituzionale e incapace di portare a termine la transizione verso il modello della “democrazia musulmana”, all’islamismo resta solo la via dell’insurrezione, che però è efficace soltanto in alcuni contesti locali segnati da un collasso istituzionale (l’Afghanistan, l’Africa saheliana e subsahariana, Gaza), mentre ha perso vigore come forza di resistenza globale contro l’influenza occidentale e sembra afasico davanti ai grandi cambiamenti che stanno sconvolgendo il nostro mondo.

 

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata con il titolo All’islamismo resta solo la via dell’insurrezione su Scenari in edicola con il quotidiano Domani dal 14 al 21 ottobre.

 

 

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