Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:39

Se l’Egitto identifica la primavera con sham al-nasim, il festival della fioritura, nella penisola araba la stagione solitamente si preannuncia con tempeste calde di sabbia, riyadh al-khamasin. Qui non c’è spazio per il gelsomino tunisino o la fioritura egiziana. Invece, gli interventi divini, la spada e l’oro nero indicano che le rivoluzioni sono spesso spazzate via con le tempeste di sabbia. Da gennaio 2011, il regime saudita assiste con sconcerto alla Primavera Araba in Tunisia e Egitto ma quando questa ha raggiunto la piccola isola del Bahrein e il proprio territorio petrolifero, le strategie classiche dell’obbedienza divina ai regnanti, il pesante intervento della polizia e le concessioni economiche si sono rivelati per sufficienti a bloccare la fioritura della primavera araba in Arabia Saudita. Il regime ha messo in campo tutte le sue strategie religiose, di sicurezza ed economiche per reprimere sul nascere i primi segnali virtuali di allarme prima che potessero manifestarsi in proteste reali. In questo articolo esamino le politiche interne saudite durante la cosiddetta Primavera araba (gennaio 2010-) per sopprimere i primi segnali di una turbolenza virtuale e reale. Sostengo che ancora una volta il regime saudita invoca un discorso religioso che esalta l’obbedienza ai regnanti e gli insegnamenti settari wahabiti contro lo sciismo per sopprimere la protesta soprattutto nella Provincia Orientale, ricca di petrolio, e in altre parti del regno. Sebbene la strategia religiosa sia importante, l’appoggio esterno è altrettanto fondamentale in quanto dà alla popolazione locale un segnale chiaro circa le conseguenze di eventuali turbolenze, creando così il timore di un intervento militare straniero. Questo è diventato importante nell’ultimo decennio in seguito all’occupazione dell’Afganistan, dell’Iraq e forse della Libia nei prossimi mesi. L’appoggio straniero al regime saudita agisce come deterrente in una popolazione fortemente contraria dalla presenza straniera americana sul proprio territorio. Tale presenza può essere giustificata solo in situazioni estreme e su invito del regime, com’accaduto nel 1990 quando è stato richiesto l’intervento occidentale contro l’occupazione di Saddam Hussein in Kuwait. Molti sauditi sono riluttanti a impegnarsi in un’azione che contempli l’intervento militare straniero per sopprimere le proteste contro il regime o proteggere i pozzi petroliferi. L’articolo conclude che la strategia religiosa interna, a lungo termine, potrebbe non essere una protezione sufficiente contro il vento di cambiamento. Il cambiamento dell’equilibrio politico arabo e internazionale nella regione potrebbe non continuare ad essere dalla parte del regime saudita. Il futuro non può essere così facilmente prevedibile come i segni delle turbolenze domestiche stanno dimostrando sia in Arabia Saudita, sia nei paesi limitrofi (Bahrein, Yemen e Oman). […] Il testo integrale dell'intervento sarà disponibile sul prossimo numero della rivista Oasis