Mentre per i terroristi è sufficiente essere "fortunati" una sola volta, gli Stati devono essere "fortunati" ogni giorno per sventare gli attentati. In tutto il mondo ciò ha portato a un enorme investimento sulla sicurezza, investimento tanto più necessario quanto sempre insufficiente. La difesa più efficace sarebbe in realtà di tipo offensivo: è questa la base della strategia americana. La situazione attuale e le sue prospettive nell'opinione di uno tra i massimi analisti italiani.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:46

Il terrorismo di matrice islamica come ogni forma di terrorismo non è un'ideologia, né una strategia. È una tattica ed una tecnica, cioè uno strumento utilizzato dai suoi dirigenti per raggiungere determinati fini politici. Le sue strategie, tattiche e tecniche sono separate dagli obiettivi politici perseguiti. Se questi possono essere considerati irrazionali, le prime obbediscono invece ad una fredda razionalità. Come in politica, occorre distinguere fra obiettivi dichiarati e obiettivi reali. La logica strategica del terrorismo consiste nell'uso razionale dell'irrazionalità, sia interno che esterno. Non è quindi di tipo tradizionale. I terroristi si ritengono generalmente eroi o martiri per una causa giusta, avanguardie della rivoluzione per creare un mondo migliore. Per i loro burattinai, invece, gli obiettivi reali sono di regola diversi, più terreni. Ad esempio, Bin Laden vuole conquistare il potere e le ricchezze della penisola arabica. Per mobilitare il consenso «contro gli Ebrei e i Crociati e gli Apostati» che corrompono l'Islam, utilizza lo stratagemma ideologico di una riscossa islamica attraverso un ritorno alle origini, cioè alla purezza originaria del Corano e della shari'a (o legge coranica). Pensa al futuro, guardando al passato. Utilizza la psicologia e le tradizioni per «dare l'acqua al pesce terrorista», a scopo di reclutamento e finanziamento. Gli aspetti psicologici sono centrali sia nel breve che nel lungo periodo. Gli attentati terroristici sono volti non solo a provocare perdite, danni e panico, ma anche ad entusiasmare le proprie fila e a consolidare il potere della leadership.

Il terrorismo transnazionale di matrice islamica ha caratteristiche peculiari, a parte la sua diffusione globale, non solo nei paesi islamici, ma anche nelle diaspore musulmane che vivono in Occidente. Ha un forte appeal di carattere religioso; utilizza la re-islamizzazione dell'Islam e i ricordi del suo glorioso passato per un progetto globale alternativo alla mondializzazione intesa come occidentalizzazione o come ricolonizzazione culturale del mondo; strumentalizza il ritorno di Dio nella politica come reazione dell'identità contro la globalizzazione, la modernizzazione, ecc. I suoi obiettivi politici sono illimitati o comunque non negoziabili. Non ci può essere quindi né una funzionale strategia di deterrenza (basata sulla schiacciante superiorità militare), né una vittoria militare seguita da un trattato più o meno informale di pace. La nuova minaccia terroristica ha di molto ridotto l'importanza dell'enorme superiorità tecnologica militare americana conseguente la fine della Guerra Fredda a seguito del collasso dell'Impero Sovietico (1). La vittoria contro il terrorismo islamico consiste nel ridurne la pericolosità e la portata. Inoltre, come la guerriglia ed ogni forma di terrorismo, quello islamico è l'arma "mascherata" del povero e del debole contro il forte. Beninteso, il suo bacino di reclutamento non è rappresentato solo dai campi profughi. Questa sua caratteristica tattica insieme allo strumento dell'"irrazionalità razionale" e alla tecnologizzazione permette al terrorismo di essere esso stesso utilizzato come strumento di una strategia di logoramento. Gli attori del terrorismo terroristi e sostenitori diretti e indiretti perseguono obiettivi diversi. Ad esempio, chi finanzia il terrorismo persegue finalità del tutto diverse da quelle dei capi delle reti terroristiche.

È il caso degli attuali governi islamici, inefficienti e corrotti, che per mantenere il potere cercano un capro espiatorio nell'Occidente a cui viene addebitato un complotto contro l'Islam, la divisione dell'umma (massa dei credenti) in Stati e l'esclusione dell'Islam dalla modernizzazione e dalla globalizzazione. Essendo il terrorismo uno strumento per realizzare obiettivi politici, mutando la natura dei fini, mutano anche le modalità con cui l'arma del terrore viene usata. Il terrorismo islamico mira a colpire sia obiettivi soft, sia la popolazione civile o le infrastrutture critiche, sia segni di alto valore simbolico. Entrambi sono più facili da attaccare di sorpresa, sono più numerosi e la loro ridotta sorveglianza consente di procedere alla minuziosa preparazione degli attentati, che ad esempio al-Qaida è solita effettuare, e che dura mesi, quando non anni (2). Non si mirano obiettivi più hard ad esempio, centrali nucleari e chimiche e tanto meno le forze di polizia e militari per il loro maggiore livello di protezione. Le incognite maggiori che oggi il terrorismo presenta ed impone sono principalmente di due tipi. La prima riguarda gli effetti dei costi che le misure di prevenzione, protezione e sicurezza, poste in essere dagli stati a seguito degli attentati terroristici, hanno ed avranno "sulla", "per" la globalizzazione e sul "bene sicurezza" e soprattutto sulle libertà individuali. La seconda riguarda il pericolo che il terrorismo da catastrofico-convenzionale si trasformi in apocalittico-non convenzionale con l'acquisizione di armi di distruzione di massa (ADM).

"Per" la globalizzazione, perché il terrorismo attuale vede esaltate le proprie possibilità di espansione e successo da diversi nuovi fattori. Innanzitutto, le nuove tecnologie, in grado (soprattutto quando i terroristi disporranno di ADM) di conferire a singoli individui o a piccoli gruppi una capacità distruttiva che una volta possedevano solo i governi. Poi, la vulnerabilità delle moderne società ed economie, dovuta alla crescente porosità delle frontiere e all'interconnessione fra i vari componenti delle società e delle economie avanzate, caratteristiche peculiari di un mondo globalizzato. Attentati sistematici ai nodi critici dell'economia globalizzata potrebbero causare una recessione mondiale. Le connessioni ed interdipendenze esistenti costituiscono un fattore di forza e di flessibilità dell'economia internazionale, ma anche una fonte di vulnerabilità. Infatti, potrebbero amplificare i danni degli attentati e provocare per effetto domino il big-bang economico mondiale, temuto da Henry Kissinger (3). L'impatto sarà soprattutto indiretto e dovuto essenzialmente alle conseguenze che sulla globalizzazione avranno le misure di prevenzione antiterroristica. Potrebbe però divenire diretto qualora i terroristi entrassero in possesso di armi di distruzione di massa. Inoltre, tra i danni indiretti del terrorismo occorre considerare anche quelli prodotti dalle misure di sicurezza, in termini di ritardi per controlli, di restrizioni alla libertà di movimento, ecc. Ad esempio, le perdite subite dall'economia mondiale a seguito di un aumento di 20 minuti del tempo d'imbarco su tutti gli aerei ammonterebbero a 120-150 miliardi di dollari all'anno, pari allo 0,4-0,5% del PIL mondiale. Infine, l'informazione può amplificare i danni.

Nelle democrazie occidentali la libertà di informazione è fondamentale. È sia una loro forza che una loro vulnerabilità. Gli effetti sia psicologici sia economici degli attentati vengono amplificati dai media sempre alla ricerca dei modi con cui aumentare la loro audience e, quindi, il loro valore di mercato evocando sensazioni forti ed immagini spettacolari. La gestione dell'informazione istituzionale finalizzata a contenere il panico assume importanza almeno pari a quella che la public diplomacy ha nelle relazioni internazionali del XXI secolo. Ma tale informazione potrà essere efficace solo in presenza di una solida cultura della sicurezza. Oltre all'incertezza di non sapere dove, come e quando i terroristi colpiranno (il che impedisce una strategia di deterrenza e di contenimento), il vantaggio strategico del terrorismo consiste nel fatto che il rapporto fra i costi dell'attacco e quelli della difesa sono enormemente squilibrati a favore del primo (4). L'attacco alle Twin Towers ha avuto un costo inferiore a 1 milione di dollari ed ha provocato danni diretti per 50 miliardi di dollari, a cui si devono aggiungere non solo quelli indiretti (trasporto aereo, ecc.), ma anche l'impatto negativo dell'"economia della paura" a livello globale (5). Quest'ultima distorce la razionalità delle scelte, deprimendo consumi e investimenti. I suoi effetti sono dirompenti, anche perché la percezione di vulnerabilità dell'opinione pubblica è di gran lunga maggiore di fronte ad un evento altamente improbabile, ma spettacolare e potenzialmente catastrofico, rispetto all'incidente quotidiano ad elevata frequenza e dagli effetti cumulativi molto superiori a quelli degli attentati. Ad esempio, le vittime dell'11 settembre sono state circa 3 mila, rispetto ai 40 mila morti all'anno negli incidenti stradali negli Stati Uniti. Tra l'incertezza della minaccia terroristica ed i costi per la sicurezza interna di uno stato vi è un rapporto di diretta proporzionalità. O meglio, di una proporzionalità sostanzialmente esponenziale. Infatti, all'aumentare dell'incertezza terroristica, lo stato deve investire nella sicurezza proporzionalmente molto di più. Inoltre, tra terrorismo e stato esiste una profonda asimmetria. Mentre per i terroristi è sufficiente essere "fortunati" una sola volta, gli stati devono essere "fortunati" ogni giorno per sventare gli attentati. Ciò ha portato ad una "privatizzazione" del "bene sicurezza" (6), che richiede una stretta collaborazione fra pubblico e privato.

Davanti alla minaccia terroristica, gli stati optano generalmente per una difesa dei propri obiettivi sensibili. Ma, proteggendo un obiettivo, si genera l'esternalità negativa di rendere più probabile l'attacco di altri (o obiettivi interni meno protetti o, anche, obiettivi esterni in altri Stati). La sicurezza è oggi un quasi-public good o un local-public good. Per di più, l'impossibilità di proteggere tutto in modo completo fa sì che la difesa più efficace sia in realtà quella offensiva o invasiva alla radice del terrorismo: dall'aumento dello strumento dell'intelligence, alla caccia ai terroristi e alla localizzazione di cellule terroristiche, all'attacco alle basi e alle reti, alla protezione dei confini, ad esempio impedendo la formazione di cellule o la loro radicalizzazione interna. Beninteso, gli stati dispongono di risorse praticamente illimitate. Finora hanno sempre avuto la meglio sul terrorismo. Anzi, la ricostruzione post-attacco è stata quasi sempre occasione di aumento della produttività e di stimolo alla crescita economica. Comunque, gli stati non possono evitare di sostenere i costi dell'elevata domanda di sicurezza, enormemente cresciuta dopo l'11 settembre (7). Infatti, la loro stessa legittimità dipende dalla capacità di fornire un adeguato livello di sicurezza ai cittadini. Qualsiasi carenza al riguardo ha implicazioni molto rilevanti. Il risultato delle elezioni spagnole a seguito dell'attentato terroristico a Madrid dell'11 marzo 2004 ne è un chiaro esempio. Per fare ciò, gli Stati introdurranno non solo ulteriori limitazioni alle libertà e ai diritti civili incluse, come ha detto implicitamente il 5 agosto scorso il premier britannico Tony Blair, azioni anti-terroristiche extragiudiziali ma tenderanno soprattutto a ripristinare regolamentazioni, controlli e limitazioni alle libertà di movimento e di traffico, che potrebbero mettere in crisi la globalizzazione. Contrasterebbero con la deregolamentazione e la liberalizzazione, premesse e, al tempo stesso, conseguenze della globalizzazione (8).

Per contrastare i danni all'economia degli attentati dell'11 settembre, soprattutto quelli indiretti, e supplire all'aumento della domanda di sicurezza, gli USA hanno adottato politiche fortemente espansive: la FED ha immesso sul mercato grandi quantità di moneta e ridotto i tassi; il governo ha tagliato le imposte; il bilancio della difesa e quello per la sicurezza interna sono aumentati considerevolmente, sostenendo le industrie ad alta tecnologia; lo stesso Presidente ha esortato gli americani a spendere di più. Si è trattato della più straordinaria manovra monetaria effettuata nella storia. L'operazione fu resa possibile dalla eccezionale mobilitazione patriottica statunitense e dalla posizione dominante del dollaro. In Europa una manovra monetaria simile a quella effettuata dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre non sarebbe fattibile. La FED americana dispone di un interlocutore politico unico, che manca invece alla BCE europea. Attentati di gravità analoga provocherebbero quindi in Europa danni indiretti forse irreversibili. Anche per questo, non bisognerebbe attendere che essi accadano per adottare tutte le misure necessarie. Importante sarebbe un'azione di stimolo da parte dell'Unione Europea perché gli stati rafforzino la sicurezza. Non si può nutrire però molto ottimismo al riguardo, data la crisi istituzionale che l'Europa sta attraversando a causa dei crescenti egoismi nazionali. Beninteso, il fallimento degli attentati di Londra del 7 e 21 luglio hanno dimostrato che il terrorismo si può sconfiggere e/o che si può limitarne gli effetti con il rafforzamento preventivo delle istituzioni e dell'intelligence e con una mirata campagna mediatica. Un fallimento dell'Unione nel settore della reazione contro una serie di attentati megaterroristici farebbe scomparire ogni prospettiva, non solo di un'Europa politica, ma anche di un'Europa solidale. Oltre che l'opportunità per un nuovo contratto transatlantico. L'altra incognita è rappresentata dal fatto che l'incidenza diretta del terrorismo sull'economia aumenterebbe drammaticamente qualora gli attentati non fossero convenzionali, ma effettuati con ADM.

In tal caso, i danni diretti non sarebbero più "puntuali", relativi cioè ad aree ristrette, quindi con possibilità di concentrare soccorsi ed interventi di ricostruzione, nonché specifiche politiche di prevenzione. I danni sarebbero "areali" e potrebbero avere effetti di lunga durata. Ciò avverrebbe anche nel caso di "bombe sporche" che, pur non provocando un elevato numero di vittime, ma solo ampie contaminazioni, potrebbero interessare interi centri urbani. Obbligherebbero allo sgombero di città per lunghi periodi ed alla demolizione di un terzo degli edifici delle zone contaminate (9). La successiva decontaminazione richiederebbe tempi molto lunghi ed enormi costi. Qualora i tentativi di bloccare la proliferazione di ADM dovessero fallire, il terrorismo transnazionale di matrice islamica potrebbe condurre una vera e propria guerra non solo di logoramento, ma anche di annientamento contro le società e le economie occidentali. Nessun sistema di prevenzione e protezione sarebbe efficace. Non sarebbero neppure possibili né dissuasione né contenimento. L'unica difesa possibile sarebbe l'impiego offensivo della forza militare, per distruggere la minaccia prima che possa manifestarsi, e operazioni covert, volte a neutralizzare le reti o almeno a concentrare sulla propria sopravvivenza la maggior parte delle loro forze e risorse. Il terrorismo islamico (o jihadista) sta perdendo terreno in termini di forza, pervasività e appeal nelle masse islamiche. Questa è la tesi espressa dal professore Gilles Kepel nel suo ultimo libro (10).

Verso la fine del 2001, apparve su Internet un documento Knights under the Prophet's Banner. Esso attribuito al medico egiziano al-Zawahiri, al tempo luogotenente di Bin Laden può essere considerato come una sorta di RTA (Revolution in Terrorist Affairs). Il documento è un lucido attacco alla strategia del jihad negli anni Novanta, approntata dopo la vittoria dei mujahidin in Afghanistan contro l'Unione Sovietica. Tale vittoria aveva risvegliato l'animo islamico e ridato vigore alla lotta contro il nemico storico, Israele. Si elaborò una strategia di mobilitazione della storia, della religione e dell'odio. Si era fortemente persuasi che la vittoria contro Israele avrebbe liberato il mondo dell'Islam dalla sua piaga storica e innalzato i valori e la forza dell'Islam. Tale strategia jihadista risultò errata, come anche il suo utilizzo in Cecenia, Algeria ed Egitto negli anni Novanta. Bisognava riconvertire una strategia fino ad allora fallimentare. La nuova si basa su un doppio filone. Da un lato, una scelta del "nuovo nemico". Non più solamente Israele Little Satan , ma anche gli Stati Uniti Big Satan ovvero l'intero Occidente. Non solo. A ciò va aggiunta la strategia del nearby enemy. In sostanza, non si doveva più colpire Israele per liberare il mondo dell'Islam, ma gli stessi stati arabi autoritari e corrotti compromessi dalla relazione amichevole con l'Occidente. Una strategia contro «gli Ebrei, i Crociati e gli Apostati». Dall'altro, la nuova strategia presuppone un uso della propaganda e della spettacolarizzazione degli attentati terroristici. L'utilizzo della tecnologia, quale internet e webcam per registrare e trasmettere messaggi, è un esempio di tale nuova strategia. Tali messaggi non sono solo un attacco contro i nemici, ma soprattutto messaggi a finalità strategica (più o meno in codice) verso gli alleati terroristi per acquisirne fiducia e rispetto, per aumentarne lo "spirito" islamico e per garantirsi reclutamento e finanziamento (11).

Dall'11 settembre ad oggi tale strategia ha subito notevoli trasformazioni e ridimensionamenti. Gli stati soprattutto europei ed americani colpiti hanno scelto la "cultura della sicurezza" come antidoto al "panico" terroristico. Da una strategia di mobilitazione tout court, oggi si è passati ad una strategia di mobilitazione individuale a rete transnazionale, ma a connotazione nazionalistica e/o regionalistica. Non più quindi un utilizzo della massa islamica, ma operazioni di martirio (martyrdom operations), attraverso l'utilizzo di terroristi suicidi e gruppi selezionati ben addestrati e altamente educati e indottrinati, per il raggiungimento dell'obiettivo strategico dei capi dei gruppi terroristi. Tale nuova strategia si sta rivelando un fallimento sotto tutti i punti di vista. I terroristi invece di proseguire sulla scia dei "successi" degli attentati contro l'Occidente, hanno creato solo caos e distruzione nell'Islam. Hanno generato una profonda crisi interna, una fitna. Non più una guerra mondiale transnazionale, ma una guerra civile nel cuore dell'Islam, portata avanti da un nemico invisibile, da una forza centrifuga che minaccia non solo la vita, ma la stessa sacra concezione di "fedele", attraverso una frammentazione, disintegrazione e rovina della comunità islamica. La presenza degli Stati Uniti nella regione del Medio Oriente sta acuendo gli effetti del fallimento del terrorismo jihadista. Infatti, anche se la politica americana in Iraq nella prima fase d'intervento è stata accompagnata da errori, ingenue persuasioni e credenze ideologiche quali che sarebbe bastato sconfiggere Saddam Hussein per instaurare la democrazia in Iraq oppure che l'automatica stabilizzazione dell'Iraq avrebbe comportato un'ulteriore automatica "caduta a domino" della democrazia nella regione del Medio Oriente ciò non ha affatto significato che la strategia terroristica stesse vincendo. Anzi. I "guerriglieri santi" con la loro deriva strategica di guerra civile, che li sta portando ad uccidere più "fratelli" che "non credenti", non hanno fatto altro che esasperare gli animi dell'Islam e generare internamente conflitto e discordia. La conseguenza è che i regimi islamici anziché cavalcare l'onda terroristica per acquisire potere, si stanno staccando dal terrorismo.

Stati come Afghanistan, Arabia Saudita, Sudan, Libia, Marocco, Egitto, Pakistan, Kuwait, Turchia, Dubai e Oman stanno "togliendo l'acqua al pesce terrorista" scegliendo gli Stati Uniti come loro "garanzia" di sicurezza. Altri come l'Iraq sono sotto occupazione straniera. Per di più, pur essendoci tra gli iracheni un forte anti-americanismo, il sentimento anti-jihadista si sta facendo velocemente strada. Vi è di più. I regimi "Apostati" si stanno rivelando estremamente resilienti e consci del pericolo che corrono. La loro scelta degli Stati Uniti non deriva solo dall'attuale fallimento in atto del terrorismo jihadista, ma anche da una consapevole scelta sostanzialmente a scopo di protezione e di futura crescita. La presenza degli Stati Uniti nel Medio Oriente rappresenta per tali stati non solo una garanzia, ma anche un'"assicurazione sulla vita". Beninteso, come ogni assicurazione, essa va "pagata". La guerra al terrorismo come d'altronde qualsiasi altra guerra non può avere una soluzione militare. Poiché gli obiettivi sono politici, necessariamente la soluzione deve essere politica. La "grande strategia" americana, descritta nella NSS, approvata dal Presidente Bush nel settembre 2002, ed enunciata successivamente nei discorsi di insediamento del secondo mandato presidenziale ed in quello alla Nazione del gennaio 2005, è orientata all'esportazione della democrazia, della libertà e del capitalismo liberale per far entrare l'Islam nella modernizzazione e globalizzazione, da cui molti stati islamici si sono auto-esclusi. L'obiettivo a lungo termine della guerra contro il terrore è di isolare i terroristi in modo da inaridirne reclutamento, finanziamento (12) ed entità dei fiancheggiatori e dei simpatizzanti. Nel caso del terrorismo di matrice islamica, l'obiettivo ultimo dell'Occidente è quello di "conquistare le menti e i cuori" delle popolazioni musulmane, con gli strumenti della democratizzazione e della modernizzazione. Deve cioè isolarli dalla popolazione. Deve provocare i cambiamenti politici ed economico-sociali necessari per estirparne le radici. Tale obiettivo, beninteso, contrasta con l'interesse dei regimi autoritari, anche se filoamericani. In questo senso, la guerra contro il terrorismo è guerra civile interna all'Islam, in cui l'Occidente si trova nella difficile condizione di dover mutare regimi spesso a lui favorevoli, anch'essi minacciati dal terrorismo, e di avere alleati molto deboli, data la labilità dei movimenti liberal-democratici del mondo musulmano. Costruire una democrazia senza democratici è un'impresa tutt'altro che facile. Ma è anche l'unica via possibile per emarginare il terrorismo prima che diventi troppo pericoloso.


(1) M. Trajtemberg, Defence R&D in the Anti-Terrorist Era, Tel Aviv University , NBER and CEPR, August 24, 2005. Presentato alla Conferenza Investire in sicurezza. La nuova economia della difesa nell'era del terrorismo all'IMT di Lucca del 21 ottobre 2005.

(2) Centro Studi di Geopolitica Economica (a cura di), Sicurezza: le nuove frontiere Cultura, economia, politiche, tecnologie, Ricerca per Finmeccanica, F. Angeli, Milano 2004, 45.

(3) H. Kissinger, Does America Need a Foreign Policy, Simon & Schuster, New York 2000.

(4) C. Jean, Terrorismo e catastrofi: l'impatto economico, Aspenian. 30, 2005, 225-241.

(5) C. Jean, Terrorismo suicida, Sala del Cenacolo, Roma 2004.

(6) M. Trajtemberg, Defence R&D in the Anti-Terrorist Era, cit.

(7) C. Jean, Terrorismo e catastrofi, cit.

(8) P. Savona, Geopolitica Economica, Sperling & Kupfer, Milano 2004.

(9) P. D. Zimmerman, Dirty Bombs The Threats Revisited, Defense Horizons n. 38, National Defense University, Fort McNeir, Washington DC, January 2004.

(10) G. Kepel, The War for Muslim Minds: Islam and the West, Harvard University Press, 2004.

(11) Il terrorismo inoltre non richiede enormi fondi per sostenersi finanziariamente. È difficile poi scoprirli. In primo luogo, perché spesso i terroristi si autofinanziano con la tassazione diretta degli immigrati, spesso convogliata alle scuole coraniche, oppure con una quota delle rimesse degli emigrati o, più frequentemente, per il tramite delle charities. I movimenti del denaro non avvengono più come prima dell'11 settembre per il tramite del sistema bancario, ma in natura, con le banconote trasportate da corrieri.

(12) M. Fiocca, Mille rivoli, nessun fiume: come si finanzia il terrorismo, Aspenia n. 30, Roma 2005, 242-251.

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