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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:12

Coloro che visitano la casa romana delle Piccole sorelle di Gesù possono vedere, in una piccola cappella, i poverissimi ricordi di Charles de Foucauld. Oltre a pochi oggetti in legno ci sono tre grandi tele da lui dipinte: una fonde le immagini del Crocifisso e del Sacro Cuore, le altre rappresentano due scene evangeliche che simboleggiano lo stile della sua scelta di vita. A sinistra la famiglia di Nazareth: Dio vuole farsi uomo nel modo più umile, lavorando e rimanendo per trent'anni invisibile agli occhi del mondo; a destra la visitazione: il Verbo incarnato giunge ad Elisabetta, ma ancora silenzioso, facendosi presente soltanto attraverso il gesto di premura della madre. È difficile trovare immagini che meglio rappresentino l'idea corrente della testimonianza cristiana, aggiungendo ad essa la commozione derivante dalla coscienza dell'eroicità della vita (tutt'altro che ingenua e intellettualmente sprovveduta) nella quale esse ebbero origine, nel torrido deserto dei Tuareg. Testimonianza, dunque, nell'abbandono, nel silenzio e nel nascondimento. Ma è interessante fermarsi a riflettere su uno strano paradosso, sul fatto cioè che il concetto di testimonianza nel suo senso primo si riferisce a qualcosa di molto diverso: il testimone è anzitutto qualcuno che "parla". Questo è il suo originario senso giuridico che, se l'etimologia latina comunemente accettata è corretta (testis da ter-stis), si precisa ancora meglio: il "testimone" sarebbe anzitutto il "terzo": colui cioè che "non" è parte in causa, la cui parola può essere ritenuta affidabile proprio perché la sua vita non ha alcun rapporto con ciò che riferisce ed egli non avrebbe alcunché da guadagnare da una testimonianza falsa. Ma anche se l'etimologia non fosse corretta, questa è in ogni caso una condizione che qualsiasi sistema giuridico prevede: nessuna parte in causa può essere testimone, alla parte accusata, anzi, è riconosciuto un implicito diritto a mentire. Testimonianza come distaccata attestazione di fatti, testimonianza come radicale incarnazione di valori: che cosa si nasconde dietro questo slittamento di significato così profondo? Nulla forse è tanto istruttivo quanto ricordare il modo in cui la tradizione cristiana ha cercato di comprendere il carattere del suo annuncio nel confronto con la parola filosofica: non nell'aspirazione alla comune verità, che poteva essere, fosse pure a fini apologetici, magnanimamente riconosciuta a tutte le indagini intellettuali pagane, ma nelle differenti strade per raggiungerla. La parola filosofica era per eccellenza pensata come fondata in una razionalità comune dell'uomo e quindi di sua natura riproducibile da chiunque. Quando Platone rimpiangeva i bei vecchi tempi in cui non ci si preoccupava di "chi" avesse detto qualcosa, ma anche la parola di una quercia se vera era accolta con riverenza (1), egli dava voce al timore che la filosofia potesse essere travolta da una mentalità politico-retorica in cui la forza dell'argomentazione fosse sostituita dalla forza dell'autorità: un timore che la successiva storia della filosofia dovrà, per la gioia postuma di Platone, in larga parte smentire. Lo spirito filosofico continuerà ad includere come elemento costitutivo il ragionamento controllabile, trasparente e riproducibile. Ma proprio per questo non fu facile per il Cristianesimo formulare la propria pretesa di verità nel linguaggio greco: da una parte esso era appunto il più adatto per la sua nobile aspirazione ad una verità eterna, dall'altra era il più abissalmente contrario perché rendeva inconcepibile fin dall'inizio la centralità di un'esperienza umana storica e irripetibile. In questo senso la letteratura giovannea presentava fin dall'inizio, nella sua coerenza e profondità, un modello così originale da essere destinato a produrre continuamente spaccature e sconnessioni nell'epistemologia pagana: un Logos universale che era «in principio» [Gv 1,1], certamente, ma che poi nella sua rivelazione (exégesis, narrazione) determinante si fa carne, e in forza di questa unicità crea una cerchia di annunciatori che raccontano ciò che hanno visto, udito e toccato «attorno al Logos della vita» [1Gv 1,1]. Forse non è per caso che la tradizione giovannea, che più sottolinea questa distanza, è anche quella che più volentieri utilizza il linguaggio della "testimonianza": se il linguaggio filosofico offre il paradigma più naturale per esprimere il Logos eterno, il Logos incarnato più esattamente si lascia tradurre nel linguaggio della ricostruzione storica, e in particolare in quel drammatico accertamento che avviene nel dibattito di un processo. Sarebbe certamente una semplificazione eccessiva leggere il travagliato rapporto con la filosofia greca (talora vista come anticipazione della verità cristiana, talaltra come matrice di tutte le eresie) nei soli termini di una lotta tra linguaggio della razionalità astratta e linguaggio della testimonianza storica e processuale: tuttavia questi sono due poli che aiutano a dare un primo inquadramento a molti dati. Quando Tertulliano rifiuta con fastidio la filosofia e formula la sua "eccezione" di principio contro gli eretici, egli si sposta intenzionalmente su un territorio giuridico, in cui bisogna valutare il diritto a deporre una testimonianza (2). Quando Agostino ne L'utilità del credere combatte le pretese razionaliste del Manicheismo, è in nome della ragione stessa che egli difende l'opportunità di affidarsi a coloro che hanno trasmesso la Scrittura e dichiarano di essere in grado di interpretarla (3): un riconoscimento sostanzialmente identico a quello di Tertulliano, e certamente faticoso per colui che mantiene una forma mentis platonica e crede all'interiorità come ultima istanza della verità. La testimonianza come attestazione disinteressata di fatti è dunque tutt'altro che assente dalla tradizione cristiana; in un certo senso essa ne è anzi all'origine: come è giustificabile nella sua pretesa di verità una "tradizione", e dunque una comunità che la veicola, se non come la consegna di un'informazione che l'intelletto non potrebbe mai raggiungere, legata essa com'è ad una verità che trascende l'uomo, e ancora più radicalmente ad una divina libertà che è entrata nel mondo sotto la forma della contingenza, lasciando segni efficaci di salvezza a loro volta liberi e contingenti? Insomma, se la tradizione apostolica è fondante della Chiesa, essa pare esserlo in un senso non secondario perché essa tramite un infinito passaparola fissa nella memoria collettiva la realtà di ciò che è avvenuto all'inizio e la verità eterna che in quell'inizio è stata annunciata. La tradizione "non scritta" in questo senso rappresenta il luogo cruciale di questa testimonianza. Se tanto Tertulliano quanto Agostino rivendicano alla Chiesa cattolica l'interpretazione della Scrittura, è perché il testo fissato per iscritto riceve il suo giusto significato solo all'interno della tradizione viva che l'ha canonizzato. Al di fuori di essa il testo è una parola ambigua che ogni lettore può piegare verso l'interpretazione che gli aggrada. Questo era già il limite che lamentava Platone, quando nel Fedro raffigurava i testi come pronti a "rotolare" dovunque, divenendo a seconda dei casi muti o malamente eloquenti, quando l'autore non era lì accanto a rispondere ai dubbi che essi sollevavano e a completare quanto essi lasciavano in sospeso (4). Se, conformemente ad una prassi tipica dell'antichità (ivi incluso il mondo giudaico) il contenuto tipico della tradizione orale riguarda prevalentemente i riti nei quali la comunità si identifica, non bisognerà attendere molto che il suo ruolo dirimente venga riconosciuto per gli stessi contenuti centrali della fede. La dichiarazione forse più esplicita in proposito si trova in occasione delle dispute sulla divinità dello Spirito Santo, quando Basilio riconosce francamente che la questione non può essere decisa grazie alle testimonianze scritturistiche, troppo sfumate in merito, ma solo chiamando in causa la tradizione non scritta fedelmente trasmessa di bocca in bocca (5): un riconoscimento che da lì in poi avrà innumerevoli echi. Dalla Tradizione alla Teologia Se questo è vero, bisogna allora immaginare l'effetto di angoscia suscitato dall'esplosione di dispute che apparentemente non si lasciavano risolvere con il richiamo alla ragione e alla Scrittura, né con quello alla tradizione. Due grandi vicende simboleggiano bene questo tornante nella storia del Cristianesimo: in Oriente, le dispute sull'iconoclasmo; in Occidente, le dispute sull'eucaristia. In entrambi i casi, tutte le parti in gioco per sostenere la propria posizione possono esibire, per quanto ne sappiamo in perfetta buona fede, argomenti di ogni tipo: ma di fronte all'impotenza della ragione e all'ambiguità della Scrittura, la tradizione non è ora più in grado di offrire una risposta chiara, e la sua origine apostolica orale è ormai inesorabilmente troppo lontana, sfumata da innumerevoli ripetizioni, per poter sperare da essa una soluzione evidente. Questa è per lo meno la percezione che avevano alcuni dei protagonisti. Gli scritti (non solo la Bibbia, ma ora anche le opere dei Padri) solidificano bene la testimonianza su cui la fede cristiana è fondata, ma la memoria che dovrebbe o potrebbe trasmettere qualcosa in più, quel qualcosa che consente di contestualizzare, vivificare, interpretare correttamente e valorizzare le testimonianze scritte, è ormai sbiadita e problematica. Proprio questa, in Occidente, sarà una delle crisi che trasferirà la competenza sulla Scrittura e sui Padri alla scienza e ai suoi metodi: Enrico di Gand, forse il teologo più celebre nel XIII secolo, potrà così pacificamente sostenere che in caso di difformità tra la Chiesa e la teologia, è a quest'ultima che bisogna dare ascolto (6). Se il "testimone" vivente delle prime generazioni cristiane semplicemente non può più esistere, anche le testimonianze scritte devono essere ormai inevitabilmente spiegate dagli addetti ai lavori, all'interno di una "disputa" che a sua volta è interamente soggetta all'incertezza e alla riformabilità della scienza umana. Con tutte le precisazioni del caso, questa è una linea portante della storia del pensiero cristiano dalla Scolastica in poi. Ma il testimone non può più esistere in assoluto? La testimonianza si lascia ridurre alla trasmissione della notizia esplicita di qualcosa lontano nel tempo? O forse esiste per così dire una trasmissione inconscia, che avviene non solo nelle parole e nelle idee, ma anche nella carne dei cristiani e nel modo in cui questa carnalità si fa carità fraterna? E la trasmissione ormai oggettivata delle parole antiche non è in grado di generare continuamente una vita nella quale tali parole ritrovano contesto? Forse sono queste alcune delle domande attorno a cui si potrebbe organizzare una storia della nuova idea di testimonianza cristiana. Sono certamente temi antichi, che si riagganciano, per esempio, alla coscienza della stupita ammirazione di cui le comunità cristiane erano oggetto nell'antichità anzitutto per il loro modo di vita, più radicalmente ancora alla certezza che solo l'«amarsi l'un l'altro» è di fronte al mondo segno di riconoscimento dei discepoli di Cristo [Gv. 13,35]. Ma questo nuovo tipo di "testimone" viene investito di un ruolo più impegnativo quanto più sfuma la testimonianza nel primo senso, quello del perdurare cosciente di una tradizione. Dalle proteste di Bernardo in favore della croce come "unica filosofia" a Francesco d'Assisi che riproduce e mostra nelle sua vita e nelle sue fattezze Cristo stesso, da Jean Gerson che invoca una "teologia mistica" in cui si pensi l'esperienza di quel Dio così raramente incontrato dagli scolastici alla straordinaria opera di Geert Groote che rende la serietà della ricerca interiore invito alla conversione e rinnovamento culturale: sono innumerevoli i momenti in cui il Cristianesimo, in situazioni profondamente mutate, ha reso l'esistenza parte cruciale del discorso cristiano di fronte al mondo. È un po' paradossale porre questa idea di testimonianza cristiana sulla scia di una perdita come quella che abbiamo prima tratteggiato. E tuttavia, come spesso accade, la perdita è l'occasione per un guadagno, in quella dialettica di forza e debolezza che sembra così peculiare delle vicende storiche del Cristianesimo: il guadagno è l'idea di una "vita come testimonianza", che indica un'esistenza che spezzando la rete infinita dei valori mondanamente comprensibili riesce a significare qualcosa che sta al di là della vita intera. Il disinteresse diventa ora impossibile perché il testimone non può creare più alcuna distanza con la tradizione che trasmette: in un certo senso là è egli stesso. La vita diventa così, pur nelle opacità dell'esperienza umana, un testo che parla meglio delle parole e nel quale le parole trovano contesto e persuasività, ciò che dunque assicura l'identità della tradizione prima che la teologia scientifica giunga a capire che cosa sta accadendo. Questa idea di testimonianza può travalicare i confini della fede cristiana, ma all'interno di essa assume una connotazione tutta particolare. Nella vita vissuta cristiana riecheggia la voce di colui che solo è padrone della storia e dei giorni dell'uomo, e che forse tanto meglio parla attraverso quel linguaggio fatto di carne e di carità, di storia e di speranza, che riesce ad oltrepassare le contingenze nelle quali si esprime: «Ogni azione di testimonianza è di certo un'azione particolarmente determinata, ma il suo contenuto più proprio non risiede in quelle determinazioni particolari, ma in quell'unico valore che dà significato a tutte le azioni e interpreta in modo unitario la varia novità della vita» (7).


(1) «Gli antichi, amico mio, dissero che nel santuario di Zeus a Dodona i primi discorsi divinatori furono di una quercia. Agli uomini di allora dunque, dato che non erano sapienti come voi giovani, per la loro semplicità era sufficiente ascoltare una quercia o un sasso, purché dicessero il vero. Ma per te forse fa una differenza chi è che parla e da dove viene; non ti basta infatti esaminare se le cose che dice stanno o meno così» (Platone, Fedro, 275 b7-c2). (2) «È da qui che noi solleviamo la nostra eccezione [praescriptio]. Se il Signore Gesù Cristo ha inviato gli apostoli a predicare, non bisogna accettare altri predicatori all’infuori di quelli che Cristo istituì, perché nessuno può conoscere il Padre se non il Figlio e coloro a cui il Figlio lo rivelò, e sembra che a nessun altro il Figlio abbia rivelato, se non agli apostoli, che inviò a predicare ciò che aveva loro manifestato. Ciò che essi, dunque, predicano è quello che Cristo rivelò loro, e qui eccepirò che non si deve condurre una prova se non tramite le stesse Chiese che gli stessi apostoli fondarono, predicando sia a viva voce, sia dopo con lettere» (Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 21). (3) «Non c’è niente di più temerario (e noi allora, come veri bambini, lo siamo stati) del non tener conto degli interpreti di un libro, i quali professano di conoscerlo bene e di poterlo trasmettere ai loro discepoli, e di chiederne il senso a coloro che, indotti da non so qual motivo, hanno dichiarato una guerra durissima contro coloro che li hanno composti e scritti» (Agostino, De utilitate credendi, 6,13). (4) «Una volta che è stato scritto, ogni discorso rotola dappertutto, allo stesso modo fra chi capisce, come pure fra colui al quale non è per niente adatto, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se è maltrattato e accusato ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto del suo genitore, perché non è capace né di difendersi né di aiutarsi da solo» (Platone, Fedro, 275 d9-e5). (5) «Tra le dottrine [dógmata] e la predicazione [kery´gmata] custoditi nella Chiesa, la seconda la abbiamo dall’insegnamento scritto; le prime le abbiamo ricevute dalla tradizione apostolica e le abbiamo trasmesse riservatamente; ma entrambe hanno la stessa forza per quanto riguarda la pietà. E ciò nessuno potrà contestarlo per quanta scarsa esperienza abbia delle istituzioni ecclesiastiche. Se infatti scartassimo i costumi non scritti come non aventi grande forza, si arrecherebbe inconsciamente danno al Vangelo proprio sui punti più importanti; anzi di più: si ridurrebbe la predicazione ad una parola priva di contesto» (Basilio di Cesarea, De spiritu sancto, 27,66). (6) Enrico di Gand, Summa quaestionum ordinariarum, art. 9, q. 1. (5) Armando Rigobello, Legge morale e mondo della vita, Abete, Roma 1968, p. 273.

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