Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:44:43
Intervista al Card. Peter Turkson, a cura di Roberto Fontolan
Primo Paese dell'Africa Occidentale a ottenere l'indipendenza (1957), il Ghana non ha conosciuto le inquietudini e gli orrori di tante nazioni del continente, ma una relativa serenità, custodita con grande cura e senza facili illusioni.
Le vicende del Kenya, sulle quali è intervenuto abilmente proprio il presidente del Ghana, che ha preparato la missione di Kofi Annan, sono lì a dimostrarlo. A tribalismi e sottosviluppo si aggiungono in diverse situazioni i conflitti confessionali.
Sono gli spunti di una conversazione con il Cardinale ghanese S.E. Peter Turkson, Arcivescovo di Cape Coast, da pochi mesi presidente della Conferenza episcopale dell'Africa Occidentale, un organismo nuovo nel quale si stanno unificando le due tradizionali Conferenze episcopali della regione, una per la francofonia e una per l'anglofonia. "Quella di fonderci è una saggia decisione - commenta il cardinale - da essa verrà una più chiara e incisiva azione comune di apostolato. D'ora in poi possiamo respirare con entrambi i polmoni, quello francofono e quello anglofobo".
Intervenendo ad un Convegno di Oasis, lei aveva descritto come enigmatica la realtà dell'Islam in Ghana. In che senso?
Nel senso che convivono segni positivi e fatti che suscitano dubbi. Parto da questi ultimi. Sull'Islam del mio Paese c'è un evidente influenza dall'estero. Certe nazioni agiscono attraverso Ong e iniziative sociali e culturali, ma ci domandiamo quali siano i contenuti profondi di questi programmi. Certo anche le nostre chiese locali sono sostenute da gruppi esteri, ma resta la preoccupazione per la scarsa apertura e trasparenza di alcuni progetti dei nostri fratelli musulmani.
Per esempio recentemente si sono tenute da noi qui in Ghana due riunioni promosse da una cosiddetta "Organizzazione dei paesi con una minoranza musulmana". Questo lascia intendere che almeno in parte non viene accettata una situazione in cui i musulmani sono in minoranza. Occorre ricordare che l'ultimo censimento ufficiale registrava il 65% di cristiani e il 18% di musulmani, anche se questi ultimi sostengono di essere vicini al 30%.
Poi ci sono aspetti riguardanti la vita di tutti i giorni, come le questioni derivanti dai matrimoni misti, in cui i figli sono obbligatoriamente educati nella fede islamica, o l'aiuto economico dato a persone in difficoltà in cambio della "conversione" all'Islam.
Che ci sia un nuovo fenomeno, una certa rush hour for God
da parte delle religioni in Ghana è innegabile: gruppi di cristiani evangelici occupano ogni spazio aperto nelle città, mentre grazie a una forte spinta islamica sorgono in ogni villaggio moschee e minareti come per rispondere a una necessità di visibilità affermatasi di recente".
E i segni positivi?
"C'è una buona collaborazione negli organismi istituzionali, come la Conferenza per la pace (Ghana Conference of Religions for Peace, GCRP) e il "Consiglio Nazionale per la Pace". In questi due organismi, i responsabili cristiani e musulmani collaborano per il consolidamento della pace nel paese. Insieme, per esempio, svolgono il ruolo di osservatori durante le elezioni. Sono frequenti le occasioni di incontro e confronto pieno di rispetto e attenzione reciproca, a tutti i livelli. Resta solida la tradizione di convivenza del nostro popolo. Famiglie e villaggi conoscono bene l'esperienza della pluriconfessionalità. E le nostre scuole cristiane hanno accolto e accolgono allievi musulmani senza alcun problema. Anche per questa serena storia di vicinanza guardo con preoccupazione a questo recente bisogno di autoaffermazione".
Di fronte a questo, quale è il suo giudizio sulla realtà del Cristianesimo nel suo Paese?
"Credo che dobbiamo cambiare la maniera di accompagnare le persone alla fede. Voglio dire che la catechesi è come un esercizio intellettuale: una pura e semplice memorizzazione dei fatti non basta come processo d'introduzione alla vita della Chiesa, perché non tocca il cuore. Il credente si dice cristiano, ma rischia di non fare una vera esperienza di conversione, un cambiamento reale di se stesso. Perciò non si crea un'appartenenza nuova: i legami etnici restano più forti di quelli cristiani. Una volta ho sentito dire "il sangue è più denso dell'acqua del battesimo": parole tremende e per di più pronunciate da un esponente cristiano autorevole. Il tribalismo, una buona e necessaria indicazione dell'identità e appartenenza, è diventata il nostro flagello. Cioè magari una persona diventa cristiana grazie alla tribù, ma poi continua a trovare in quell'appartenenza maggiore solidità e solidarietà che nell'appartenenza nuova alla Chiesa. In questo senso occorre riconoscere che i missionari e il nostro clero hanno fatto tanto, ma non basta".
Quale è il metodo di questa "introduzione alla fede"?
"E' il metodo di evangelizzazione. Lo vediamo all'opera negli Atti degli Apostoli: la parola di Dio cambia il cuore e con esso i valori e la maniera di vedere il mondo, la "weltanschaung", attraverso un cammino di conversione, di testimonianza, di vita comunitaria. E' il metodo della fede cattolica, personale e universale insieme".