Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:02

Di cosa parliamo questa settimana:

  • la fine del blocco contro il Qatar
  • Iran: sequestro di una petroliera e arricchimento dell'uranio
  • jihadismo nel Sahel
  • il licenziamento del ministro dell'Interno in Tunisia

 

Avevamo già parlato dell’avvicinamento tra Qatar e Arabia Saudita, con Riad che aveva già riaperto i propri confini con Doha la sera di lunedì 4 gennaio. Ma la notizia di questa settimana è che martedì si è  svolto l’incontro decisivo tra il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman e l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani che ha portato alla firma della dichiarazione di al-Ula. Il “quartetto” di Paesi che nel 2017 aveva imposto un embargo sul Qatar (imponendo 13 condizioni per la sua revoca) ha deciso di mettere fine al boicottaggio contro Doha, che in cambio ha sospeso una serie di azioni legali contro l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e l’Egitto.

 

Secondo alcune fonti del Washington Post, non c’era accordo tra l’Arabia Saudita e gli Emirati riguardo a questa nuova mossa geopolitica (e infatti per la riapertura delle relazioni diplomatiche con Abu Dhabi bisognerà aspettare ancora) ma MbS «voleva porre fine al blocco e non voleva che questa questione rimanesse sul tavolo durante l’insediamento dell’amministrazione Biden».

 

Come spiega Cinzia Bianco, MbS si è servito «dei buoni uffici del Kuwait e della mediazione del genero di Trump Jared Kushner […] eppure né il lavoro diplomatico del Kuwait né le pressioni di Kushner sono i principali motori di questa riconciliazione». A determinare questo riposizionamento saudita nel Golfo è la volontà di mostrarsi come un partner affidabile per la nuova amministrazione americana e magari avere più peso in un eventuale nuovo accordo sul nucleare iraniano.

 

L’accordo di al-Ula rafforza infatti il fronte contro l’Iran: riaprendo i confini con l’Arabia Saudita, Qatar Airways non dovrà più pagare i 100 milioni di dollari all’anno che doveva a Teheran per utilizzare il suo spazio aereo. Più difficile la posizione degli Emirati, come abbiamo accennato, connotata da un contrasto ideologico sia con Doha che con il suo principale alleato, la Turchia. Il Qatar ha dichiarato che non interromperà i rapporti con gli altri Paesi della regione (si legga: l’Iran, con il quale condivide un importante giacimento di idrocarburi).

 

Questa è la ragione per cui alcuni analisti ritengono che la crisi del Golfo non sia essenzialmente risolta: secondo Kristian Ulrichsen resta da vedere se la dichiarazione di al-Ula permetterà veramente una riconciliazione generale all’interno del GCC o se resterà un semplice accordo bilaterale tra Arabia Saudita e Qatar. Mentre per Madawi al-Rasheed, gli Stati del Golfo hanno perso la centralità che avevano per l’Occidente fino a pochi anni fa perché si trovano in una situazione di carenza di risorse finanziarie e strategiche e difficilmente torneranno ad avere un ruolo di primo piano negli affari mediorientali.

 

Infine, è evidente la volontà re Salman (padre di MbS) di lasciare al figlio la gestione dell’incontro, affinché l'erede al trono possa ristabilire la propria reputazione agli occhi di Washington (dove entrambi i partiti ricordano il coinvolgimento saudita in Yemen e l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi), ma sarà il tempo a svelare come si comporterà MbS con la nuova amministrazione Biden e se sarà in grado di tracciare una nuova strada nelle relazioni del Golfo.

 

In questo contesto l’Arabia Saudita ha inoltre annunciato che ridurrà la propria produzione di petrolio di un milione di barili al giorno per i mesi di febbraio e marzo. L’obiettivo dovrebbe essere quello di stabilizzare i prezzi durante il periodo di incertezza dato dal perdurare della pandemia, ma secondo alcuni la mossa andrà a solo vantaggio della Russia, che ha invece deciso di aumentare la produzione. Secondo Bloomberg, invece, MbS ha preso la giusta decisione perché altri ricavi andranno a coprire i tagli alla produzione.

 

Iran: sequestro di una petroliera e arricchimento dell’uranio

 

Lunedì una nave sudcoreana è stata sequestrata dai Guardiani della rivoluzione nello stretto di Hormuz. Per Teheran la mossa risponde al congelamento dei fondi iraniani pari a 7 miliardi di dollari in Corea del Sud, a seguito delle sanzioni americane. La Repubblica islamica ha detto che vorrebbe utilizzare quei soldi per acquistare dosi del vaccino contro il Sars-Cov-2, cosa che non è ancora riuscita a fare sebbene sia uno dei Paesi mediorientali più colpiti dal coronavirus. Allo stesso tempo Trump ha dichiarato di voler mantenere nel Golfo Persico la portaerei USS Nimitz a seguito delle «recenti minacce».

 

L’Iran ha invece chiesto all’Interpol l’arresto di Trump e altri 47 funzionari americani che hanno avuto un ruolo nell’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani. Nell’anniversario della sua morte, il 3 gennaio, migliaia di persone hanno marciato in un finto corteo funebre a Baghdad. Anche l’Iraq ha emesso un mandato di arresto per l’uccisione del capo delle milizie filo-iraniane in Iraq, Abu Mahdi al-Muhandis, ucciso insieme a Soleimani lo scorso anno. Middle East Eye spiega come molte cose siano cambiate nella regione dopo quel 3 gennaio.

 

In contemporanea l’Iran ha annunciato che ricomincerà ad arricchire il proprio uranio fino al 20%. Una percentuale ancora lontana da quella necessaria per sviluppare un’arma nucleare (che deve essere del 90%), ma, come spiega Le Monde, questa soglia è particolarmente insidiosa, perché è comunque più facile e veloce arricchire l’uranio dal 20% al 90% che dal 3% al 20%. L’atto è quindi simbolico e ha il fine di mettere pressione all’amministrazione Biden.

 

Secondo Foreign Policy questa mossa da parte iraniana ha due obiettivi, uno interno e uno esterno. A livello interno risponde alle pressioni del Parlamento, che ha chiesto l’arricchimento dopo l’uccisione dello scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh, mentre sul piano internazionale serve ad avere maggior peso negoziale con il futuro presidente americano. Molti si aspettano dei negoziati pienidi ostacoli, anche se sia Biden che il presidente della Repubblica islamica Hassan Rouhani nelle scorse settimane avevano dichiarato di essere disposti a tornare al tavolo delle trattative.

 

In un paragrafo

 

Jihadismo nel Sahel

 

Il 2 gennaio in Niger ci sono stati due attacchi contro dei villaggi nel dipartimento di Ouallam, in quella che viene chiamata la zona del Liptako-Gourma o delle “tre frontiere” (cioè quelle tra Niger, Burkina Faso e Mali). Le vittime sono state un centinaio e il massacro è stato attribuito ai jihadisti, che tuttavia hanno negato il coinvolgimento. Il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (conosciuto anche con gli acronimi JNIM o GSIM, e affiliato ad Al-Qaeda) ha invece rivendicato un attacco in Mali, avvenuto sempre il 2 gennaio, in cui sono morti due soldati francesi. Anche in Burkina Faso la situazione securitaria è sempre più grave, racconta Le Monde, per l’avanzata dei gruppi jihadisti. Non è infatti solo Boko Haram (di cui vi avevamo parlato settimana scorsa) ad essere presente nella regione, ma più gruppi sono in competizione tra di loro.

 

Tunisia

 

Martedì il primo ministro tunisino Hichem Mechichi ha licenziato il ministro dell’Interno Taoufik Charfeddine, vicino al presidente Kais Saied. La questione riguarda la natura del governo tunisino, che ora è di tipo tecnocratico. Mechichi nelle prossime settimane vorrebbe rimescolare il gabinetto includendo membri dei partiti filo-governativi, mentre la presidenza e i gruppi di opposizione vorrebbero continuare ad avere un governo tecnico, a cui era stata votata la fiducia dal Parlamento quattro mesi fa per mettere un freno all’instabilità politica e cercare di risolvere i problemi economici e sociali. Come racconta Orient XXI, diversi movimenti sociali sono ancora attivi in Tunisia e potrebbero delineare la rotta verso un nuovo contratto sociale con il governo centrale.

 

In una frase

 

11 minatori sciiti di etnia hazara sono stati uccisi in Pakistan, probabilmente dal sedicente Stato islamico (Dawn).

 

Nonostante le difficoltà nel trovare una piattaforma online che lo trasmettesse, oggi è uscito il film The Dissident, che racconta dell’uccisione di Jamal Khashoggi (Haartez).

 

Secondo Axios la portata del lavoro forzato nello Xinjiang è più ampia di quanto si pensasse.

 

In Etiopia continua la violenza etnica (Foreign Policy).

 

In previsione delle nuove elezioni in Israele, Netanyahu sta cercando di guadagnare il voto degli elettori arabi (The Frontier Post via Axios).

 

Anche in Camerun c’è stato un attacco attribuito a Boko Haram (Al Jazeera).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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