Tunisia/ Il popolo che scendendo in piazza ha rifiutato la dittatura, in qualsiasi forma si presenti, compresa quella sulle coscienze, oggi si confronta sui limiti dell’espressione pubblica: fin dove può arrivare? E chi la controlla?

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:35

La Tunisia vive dal gennaio 2011 un vera esplosione cosmica della propria storia. A mio avviso la rivoluzione tunisina è effettivamente un punto di svolta non solo per la storia del Paese ma per tutto il mondo arabo. Certo, è evidente che l’esito di questo momento rimane sospeso e nulla può essere escluso, neppure il fallimento. Trovandoci ancora nell’occhio del ciclone non siamo in grado di giudicare. Saranno le generazioni future a farlo. Tuttavia, qualunque sia il risultato di questa rivoluzione tunisina – successo immediato e sintesi in grado di introdurre nel nostro Paese un Islam moderato; o il ritorno della dittatura in qualunque forma (civile, militare, poliziesca, religiosa, ideologica) – si tratterà di un evento incancellabile che costituirà uno punto di riferimento stabile della storia tunisina per i secoli a venire. Il religioso e la società hanno avuto, in Tunisia come altrove, un percorso estremamente vario e caotico: periodi di confronto, di recupero e di esogenizzazione, termine che spiegherò in seguito. La Tunisia, come la Turchia in precedenza, ha vissuto un confronto tra uno Stato modernizzatore che voleva imporre le sue visioni e le sue riforme dall’alto e una società che ha dovuto subirle. Talvolta questo fenomeno è necessario e rappresenta una rivoluzione mascherata: accade spesso che le società non abbiano l’energia intrinseca per evolvere e abbiano bisogno dell’azione dello Stato, fenomeno ben noto alla Tunisia all’inizio dell’indipendenza. Al di là del giudizio che si può dare di uno Stato simile, bisogna riconoscere che le grandi riforme della Tunisia indipendente hanno avuto luogo attraverso di esso. Mi riferisco in particolare al codice dello statuto personale che ha rivoluzionato il diritto di famiglia in Tunisia. Le riforme laiche su sfondo religioso Per altri versi, il percorso del religioso nella nostra storia recente è avvenuto anche attraverso quello che può essere definito un recupero. Dopo l’indipendenza il Presidente Bourguiba si è scontrato con il sistema religioso dell’epoca, vale a dire la Zaytûna, decidendone la liquidazione implicita, ma allo stesso tempo ha fatto appello al simbolismo e al sentimento religioso. Bourguiba non è stato Atatürk e le imprese riformatrici che ha voluto realizzare avevano spesso un fondamento religioso. È in questo senso che il codice dello statuto personale è stato compreso dal popolo tunisino ed è anche questa la ragione per la quale lo shaykh Fâdel Ben ‘Achour, rappresentante significativo del sistema della Zaytûna, ha sostenuto le riforme di Bourguiba sullo statuto personale. Evidentemente non si è trattato di una reazione unanime, ma piuttosto di quella della frangia più illuminata e più moderna del movimento della Zaytûna, il quale ha ritenuto che il codice dello statuto personale potesse armonizzarsi perfettamente con l’Islam e rappresentare un caso di ijtihâd islamico. Nonostante le ostilità e le riserve della frangia conservatrice dell’istituzione religiosa, Bourguiba si è posto in uno spirito di conciliazione, non rinnegando l’Islam ma al contrario basandosi su di esso: si ricorderanno i grandi discorsi pronunciati per giustificare il codice, nei quali venivano richiamati numerosi versetti coranici sulla poligamia, sul divorzio e sulla giustizia verso le donne. Un’altra forma assunta dal percorso religioso nella nostra storia recente e che è molto importante per il momento attuale, è ciò che ho chiamato esogenizzazione e che posso spiegare attraverso il fenomeno seguente. Il movimento politico islamico, rappresentato essenzialmente dal partito an-Nahda, ha dovuto confrontarsi con due elementi: in primo luogo la dittatura, contro la quale, bisogna riconoscerlo, ha esercitato un’opposizione costante pagando un pesante tributo: sono molti coloro che, entrati vivi nei posti di polizia, ne sono usciti morti, entrati in buona salute, hanno subito la prigione e la tortura. In secondo luogo, il movimento an-Nahda ha interagito con l’opposizione tunisina in tutte le sue forme. Basterà un esempio: lo sciopero della fame del 18 ottobre 2005, organizzato dalla sinistra, ha costituito un evento di grande importanza nella storia recente della Tunisia, che ha condotto a ciò che ho descritto come «islamizzazione della sinistra e “gauchizzazione” dell’Islam». Il movimento del 18 ottobre 2005 ha prodotto delle dichiarazioni affascinanti che meriterebbero di essere rilette (una dichiarazione sul diritto della donna nell’Islam, un’altra sulla cittadinanza e una sullo Stato). Esse hanno contribuito a dirigere da una parte an-Nahda verso uno spirito democratico, e dall’altra la sinistra verso una certa islamizzazione. Ciò non toglie che stiamo assistendo a una secolarizzazione evidente nel rapporto tra la religione e la società in Tunisia, e soprattutto tra la religione e lo Stato. In che cosa? Come giurista noto per esempio che la sharî‘a, che nella società tradizionale bastava a se stessa investendo tutta la società ed entrando a far parte della vita quotidiana dei nostri padri e dei nostri antenati, oggi è costretta a passare attraverso la Costituzione, da cui i nostri grandi dibattiti sulla legge islamica come fonte del diritto. Diritto, precetti e libertà di coscienza Il dibattito attuale sul rapporto tra la religione e la società si situa a due livelli. Il primo è il rapporto tra il diritto positivo e i precetti religiosi, mentre il secondo riguarda la libertà di coscienza. Affronto molto rapidamente il primo punto, che è un elemento cruciale di discussione all’interno dell’Assemblea Costituente, in particolare per gli islamisti. Essi dovranno infatti conciliare il loro riferimento islamico (marja‘iyya islâmiyya) con il riferimento democratico (marja‘iyya dîmuqrâtiyya). Su questo an-Nahda ha assunto delle posizioni talvolta chiare, talvolta ambigue, dichiarandosi in certe occasioni partigiana di uno Stato civile, in altre portatrice di posizioni che si potrebbero definire teocratiche. Ciò è dovuto alla coesistenza, al suo interno, di tendenze diverse, radicale, centrista, modernista. Questo è stato evidente nel caso dell’articolo 10 del progetto di Costituzione proposto da an-Nahda, che stabiliva la sharî‘a come fonte principale della legislazione (al-sharî‘a al-islâmiyya masdar asâsî min masâdir al-tashrî‘, “la sharîʿa islamica è una fonte principale della legislazione”). Benché an-Nahda abbia dichiarato che si trattava solo di una bozza, la proposta ha provocato un grande scompiglio, tanto più che un membro importante del partito ha reclamato l’applicazione delle pene hudûd[1], in particolare nei confronti dei banditi, sulla base di un versetto coranico (5,33). Il problema dell’applicazione positiva della sharî‘a è stato risolto, in definitiva, in un modo abbastanza intelligente, grazie al fatto che quella rivendicazione ha provocato reazioni molto decise da parte della società civile, che resta estremamente ben strutturata e influente. A titolo di esempio, il 20 marzo 2012, una grande manifestazione di oltre 25mila persone ha avuto luogo a Tunisi, in Avenue Bourguiba, e anche in altre città della Tunisia per protestare contro l’idea della sharî‘a come fonte di legislazione. Cinque giorni dopo, il capo del partito an-Nahda ha fatto una dichiarazione importante nella quale ha affermato che tutte le religioni, Islam compreso, concordano sul principio della libertà religiosa. Ma, a mio avviso, la libertà religiosa non è sufficiente, e passo così al secondo punto. L’Islam è favorevole alla libertà delle religioni poiché riconosce la libertà delle genti del Libro, degli ebrei, dei cristiani e di altri ancora. Ma il problema non si situa al livello della libertà delle religioni. Il vero problema della modernità è il riconoscimento della libertà di coscienza, che è molto più forte e impegnativa della libertà religiosa. Infatti, se la libertà religiosa presuppone un’appartenenza religiosa, la libertà di coscienza ammette anche la possibilità di scegliere se credere o non credere. Di conseguenza una religione che accetta la modernità non solo riconosce la libertà religiosa, ma anche la libertà di coscienza, ovvero la libertà di adottare una religione, di cambiare religione o di non credere. Oggi la Chiesa cattolica ammette la possibilità di non credere. L’Islam dovrebbe fare lo stesso sforzo. Pur riconoscendo senza difficoltà la libertà religiosa, che fa parte della sua tradizione, l’Islam stenta a riconoscere la libertà di coscienza. La trincea della libertà di espressione Il problema della libertà di coscienza si è posto in Tunisia recentemente in occasione di alcuni casi specifici. Per esempio il caso Nesma, il canale televisivo attaccato per aver proiettato un film accusato di offendere l’Islam[2]. Più recentemente ancora l’affare ‘Abdaliyya, il palazzo della Marsa in cui un mostra d’arte che peraltro si era svolta molto bene per più giorni è stata brutalmente presa di mira e criticata dai salafiti perché ritenuta blasfema, scatenando manifestazioni violente. Il problema non è il rapporto tra le manifestazioni violente e la libertà di rappresentazione artistica, ma piuttosto la reazione dello Stato. Il problema non è l’esistenza di salafiti, radicali, fondamentalisti o partigiani della violenza. Questi gruppi esistono in tutte le società e in particolare nelle società musulmane. Il problema chiave è la posizione dello Stato che ha profondamente deluso la corrente democratica quando, durante la conferenza stampa organizzata all’indomani degli eventi, i ministri dei Diritti dell’uomo, degli Affari religiosi e della Cultura, invece si esprimersi nel senso della libertà di creazione artistica si sono espressi a favore del rispetto delle cose sacre (ihtirâm al-muqaddasât). Questo ha imposto un dibattito animato sui limiti della libertà di creazione artistica e quindi sulla libertà di coscienza. La questione è molto grave perché implica la necessità di definire le muqaddasât. Che cosa è muqaddas (sacro) e che cosa non lo è? Chi stabilisce la linea che separa le cose sacre dalle cose profane? Se la nozione di muqaddasât è lasciata al potere politico, quest’ultimo si porrà come l’arbitro del gioco e dunque il padrone delle coscienze. In questo modo si ritorna allo Stato teocratico. La rivoluzione tunisina ha respinto qualunque forma di dittatura, compresa la dittatura sulle coscienze. A mio avviso, la libertà di espressione artistica e filosofica dev’essere allargata senza limiti, a meno che essa non perturbi l’ordine pubblico. Io credo che a questo proposito l’Islam non sia in difetto e posso fare un esempio: un poeta come Bashshâr Ibn Burd ha fatto del suo mestiere di poeta un mezzo per criticare il sacro. Se la nozione di “rispetto delle cose sacre” fosse stata applicata in maniera imprudente, Bashshâr Ibn Burd sarebbe stato vietato. Analogamente, il potere potrebbe proibire la lettura di altri pensatori e poeti che hanno fatto la gloria della civiltà islamica. Penso ad Abû l-‘Alâ’ al-Ma‘arrî che per alcuni aspetti della sua poesia si pone apertamente contro le muqaddasât, persino contro le più grandi, come l’esistenza di Dio. O ancora ad Abû Nuwâs o a Ibn Zakariyâ al-Râzî. È una questione di estrema gravità. Vorrei concludere al riguardo con un aneddoto personale. Ho visto un uomo di religione, mio nonno, studiare per tutta la vita il poeta Bashshâr Ibn Burd, senza sentirsi mai a disagio, in base alla convinzione per cui all’artista, al creatore e al filosofo occorre riconoscere una libertà assoluta. A condizione di poterne ridere. A condizione di poterli tacciare di immoralità, ma senza mai ricorrere all’esclusione, alla messa all’indice o alla violenza. Ebbene, questa è la religione che vogliamo, questa è la religione che reclamiamo.


[1] Le pene corporali previste dal Corano [N.d.R]. [2] Si tratta di Persepolis di Marjane Satrapi, in una scena del quale viene rappresentato Dio, ciò che nell’islam costituisce un sacrilegio.

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