Tunisia/ Dopo la caduta di Ben Ali, nelle moschee e nella società il discorso religioso si è emancipato dal controllo statale e si va pluralizzando. An-Nahda punta a mantenere la barra al centro, pretendendo libertà di espressione per tutti, persino per gli estremisti salafiti, sperando nella loro responsabilizzazione e capacità di rientrare nel gioco democratico. 

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:35

Nel nome di Dio, Clemente, Misericordioso. Per parlare del discorso religioso nello spazio pubblico tunisino occorre tenere presente due livelli. Il primo è quello dei sermoni e degli insegnamenti religiosi nelle moschee, dal momento che la moschea è parte dello spazio pubblico. Vi è poi un livello più ampio, che è quello dello spazio pubblico in senso generale, cioè della sfera in cui avviene il dibattito sulle questioni che interessano la società. È attraverso questo dibattito che si individuano valori e si costruisce l’accordo e il consenso. In questa seconda accezione, lo spazio pubblico è inteso nel senso attribuitogli dal filosofo tedesco Jürgen Habermas. Per quanto riguarda il primo livello, quello del discorso religioso nelle moschee, in Tunisia la fase di transizione si caratterizza per un più ampio margine di libertà rispetto alla situazione precedente alla rivoluzione, quando il discorso religioso aveva una forma burocratica cui erano vincolati tutti i predicatori. Esso era in realtà mutuato dal discorso politico e partitico e aveva reso le moschee strumenti dello Stato. Per capire in che modo avvenisse tale controllo basterà citare la nomina degli imam e la produzione dei sermoni e le relative indicazioni su come pronunciarli da parte del Ministero degli Affari religiosi. A tal proposito posso riferire un aneddoto personale: prima della rivoluzione mi sono trovato un venerdì a pregare in una moschea nel quartiere “Yasminât”, vicino a “Ben ‘Arûs”, a Tunisi.. L’imam, dopo essere salito sul minbar (pulpito, N.d.T.), si è rivolto ai fedeli dicendo loro: «Poco fa mi ha chiamato il wâlî (governatore, N.d.T.) e mi ha chiesto di modificare il contenuto del mio sermone. Vi avrei parlato dello hajj (pellegrinaggio N.d.T.) che è ormai prossimo, secondo quanto previsto dalle stesse autorità, ma il wâlî mi ha chiesto di parlare degli anziani, perché oggi in Tunisia è la giornata nazionale dell’anziano». Così l’imam ha modificato il tema del suo sermone, benché anche quello inizialmente previsto fosse stato programmato dal ministero. È un esempio che mostra in maniera chiara che il discorso religioso nella moschea era affidato al potere politico e al partito al potere. È perciò naturale che subito dopo la rivoluzione molti fedeli abbiano pensato a rimuovere numerosi imam che non li rappresentavano e non rappresentavano i sentimenti della gente. Nonostante il loro attaccamento agli atti di culto e alle moschee, le persone percepivano infatti uno spaesamento. Ma talvolta la società non ha una sufficiente energia per rinnovarsi, e ha bisogno dello Stato, di una volontà politica. Allo stesso tempo però la società può disporre di un’energia di resistenza contro tutto ciò che considera una minaccia per i suoi principi, i suoi valori, o una sfida ai suoi fondamenti, alla sua unità o alla sua armonia. Oggi il discorso religioso che si ascolta nelle moschee non è cambiato dal punto di vista formale. In questo senso la khutba (predica del venerdì, N.d.R.) rimane quella ereditata dai secoli. Ma dal punto di vista del contenuto, essa ha perso il suo carattere politico o partitico. Quando si va in moschea infatti, lo si fa principalmente per il culto, che è una delle funzioni della moschea. Siamo inoltre approdati a una situazione in cui è possibile l’interpretazione personale: in ogni moschea l’imam può praticare lo sforzo interpretativo e non è più legato alla predicazione ufficiale proveniente dal ministero. Così, all’interno della moschea è sorta una specie di competizione tra gruppi: oggi lo spazio islamico, se si può usare questa espressione, non è più occupato da un solo soggetto, an-Nahda non è più il soggetto dominante. In questo spazio sono entrati altri gruppi che hanno una propria comprensione dell’Islam e una visione delle cose e una valutazione della posizione politica nel Paese. Tutto ciò prima era vietato e a questi gruppi non è mai stata data la possibilità di trovare una loro collocazione nello spazio pubblico, che è più ampio di quello occupato dalle moschee. Qualcuno pretende che contro di essi si torni ad agire con fermezza, e li si neutralizzi. An-Nahda, sia prima che dopo le elezioni, e ora che è al governo, ha sempre sostenuto la necessità di un riavvicinamento completo tra tutte le parti politiche del Paese, fondato sulla persuasione e sulla condivisione della responsabilità. Ecco perché nessuno proibirà ai salafiti di esprimere le proprie opinioni e nessuno interferirà con il modo in cui essi esprimono la propria religione. L’importante è che essi non sostengano i metodi violenti e non impongano agli altri la loro comprensione dell’Islam e le loro opinioni. Le porte dell’azione politica così come quelle dell’azione culturale e sociale sono aperte anche per loro. Li abbiamo incoraggiati a farlo e abbiamo dato loro spazio, consentendo loro di partecipare ai dibattiti su tutti i mezzi di comunicazione. A mio avviso tutto questo li porterà a un’assunzione di responsabilità. Quando l’opinione pubblica chiederà loro chiarimenti sulle loro posizioni e sulle loro opinioni dovranno rispondere. Talvolta la loro posizione sarà condivisa e altre volte no. Noi abbiamo percorso la stessa strada. È necessario trovare un equilibrio e consentire alla società civile e all’opposizione di svolgere il proprio compito. Convincere, non imporre Per esempio, all’Assemblea Costituente l’opposizione è in minoranza, però partecipa e influisce sul dibattito e riesce a far modificare alcuni punti specifici. La democrazia di per sé implica che chi ha la maggioranza non possa governare a suo piacimento, ma debba confrontarsi con le opinioni contrastanti. Per questo abbiamo parlato di un riavvicinamento globale. La prima opzione non può essere quella sicuritaria, deve esserci un’altra soluzione. Alcuni considerano che il riavvicinamento con taluni gruppi è pericoloso. Sarà il tempo a giudicare: se hanno ragione i nostri critici, le correnti salafite ne risulteranno accresciute e si dirà che avremmo dovuto sostenere il ricorso alla forza sin dall’inizio. Ma noi sosteniamo che il metodo migliore è quello della responsabilità. Il nostro scopo perciò è convincere tutti che la legge è al di sopra di tutti, che essa tiene conto delle azioni e non dei pensieri, e non distingue tra chi porta la barba e chi non la porta, tra chi è religioso e chi non lo è. Abbiamo superato il metodo del vecchio regime, in cui se in un gruppo uno sbagliava, tutto il gruppo veniva incarcerato, demonizzato e vessato. Se a sbagliare è il singolo, risponde il singolo. Naturalmente il dialogo è ancora all’inizio e non è un’operazione facile. Ma noi lo incoraggiamo e per questo siamo accusati dai salafiti di essere troppo comprensivi nei confronti dei laici e siamo accusati dai laici di essere troppo comprensivi con i salafiti. Tutti pretendono che ci serviamo degli apparati dello Stato, ora che siamo noi a farli funzionare, per colpire gli avversari, come se la libertà di cui godono questi gruppi fosse imputabile all’apparato statale o ai poteri dello Stato o alla legge. Noi riteniamo che lo spazio pubblico, nel senso datogli da Habermas, è aperto a tutte le visioni del mondo, religiose e laiche. Alla fine tutti devono godere degli stessi diritti e la verità deve emergere dal dibattito e dal dialogo. Certo è necessario riferirsi a un nucleo di valori fondamentali condivisi. A questo proposito si potrebbe fare un paragone: dopo l’indipendenza, nella maggior parte dei Paesi arabi e africani, le nuove élite politiche hanno imposto un’epurazione degli avversari. E questo mentre si riscrivevano le Costituzioni e si riformavano le istituzioni fondamentali. Una parte del movimento nazionale ha epurato un’altra parte e si è assistito a processi politici e a eliminazioni fisiche. È un fatto desolante e forse ciò che queste società e questi Stati hanno patito successivamente è una conseguenza di questa scelta. Noi ereditiamo la situazione di un regime che ha superato ogni limite, una situazione diventata ingovernabile, e ci troviamo a dover costruire sulle macerie. Ereditiamo una situazione difficilissima, a livello della disoccupazione, della povertà, della disuguaglianza tra le regioni, della corruzione endemica in tutti i settori. Noi stessi usciamo dall’esperienza di una lunga prova. Ricostruire significa allo stesso tempo ricostruire lo Stato e ricostruire noi stessi. Ma non è un’operazione facile. Occorre una visione politica, che è quella che noi incoraggiamo, e che deriva dalla nostra conoscenza della società tunisina e della sua situazione. Forse abbiamo la pretesa di conoscere meglio degli altri tale realtà, compresa quella delle correnti giovanili che vengono emarginate, o che aderiscono a gruppi ideologici e religiosi influenzati da un discorso importato attraverso i canali satellitari. Per questo siamo favorevoli a un riavvicinamento e non vogliamo imporre il nostro potere eliminando gli avversari o demonizzandoli, ma dar loro la possibilità di partecipare rendendo lo spazio pubblico aperto per tutti. Per uno spazio pubblico aperto a tutti Si parla oggi della “tunisificazione” della corrente islamista, e della necessità di tale tunisificazione. La questione nel nostro Paese infatti non è l’islamizzazione della società, ma la tunisificazione dei gruppi e delle correnti islamiste. Tale tunisificazione è al servizio del progetto nazionale futuro. E non credo che in Tunisia vi siano due progetti o più progetti, ma un unico progetto, all’interno del quale tutti possono trovare il proprio posto. La corrente islamista è una corrente moderata, centrista, che vuole un radicamento identitario e allo stesso tempo intende partecipare all’apertura alla modernità e all’ambiente che la circonda. È per questo che essa non va disprezzata, o valutata solo dal punto di vista sociale o economico. Si tratta di una corrente più ampia, che può essere definita come la corrente fondamentale della società, o corrente principale. Vi è ora una competizione per l’occupazione del centro. Gli estremi esercitano una sorta di pressione, ma sono a loro volta sotto pressione affinché rientrino nella corrente principale. Per questo non sono pessimista rispetto al futuro della rivoluzione. Questa società e questo popolo hanno dimostrato di potere assorbire tutte le difficoltà e i rischi e di saper ogni volta ripartire. La situazione in cui ci troviamo richiede uno sforzo, non solo dal punto di vista dell’interpretazione religiosa o dell’Islam, ma anche degli strumenti e delle categorie che usiamo, del nostro quadro concettuale. Il quadro concettuale dominante nelle scienze sociali, nelle scienze umane e nelle scienze politiche ha bisogno di una revisione. Molti concetti sono desueti e questa rivoluzione ci spinge a rivederli e ad aprire gli orizzonti del Paese. La Tunisia è pronta ad accedere alla modernità politica passando dalla porta principale, la porta dello sforzo interpretativo. Abbiamo dunque davanti a noi una grande occasione. Gli islamisti e an-Nahda sono diventati, al pari degli altri, soggetti del processo politico. Non è pensabile che la transizione possa avere successo o che la Tunisia possa essere governata senza an-Nahda, naturalmente nella sua forma moderata, centrista, riformista e responsabile. An-Nahda avrà un ruolo di primo piano nel guidare il discorso politico e il discorso religioso dentro le moschee e nello spazio pubblico, in conformità con gli obiettivi della rivoluzione e i programmi di riforma radicale, integrale, profonda e graduale e nel coinvolgimento di tutti i soggetti. Lo spazio pubblico e lo spazio della moschea, il discorso politico e il discorso religioso devono concorrere a costruire un accordo e a dar forma a un progetto nazionale per il futuro della Tunisia.

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