Qualcosa è cambiato/1. Sotto la superficie dell'inquietudine che pervade tutta la cultura occidentale, per i cristiani qualcosa in realtà è cambiato. L'idea di una cittadinanza che non può più essere quella dell'omologazione, di un compito specifico e "speciale": dare un fondamento alla convivenza facendo buon uso della differenza.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:18

Nel presentare l'edizione italiana del libro di Roger Scruton L'Occidente e gli altri, Khaled Fouad Allam islamologo di origine algerina, che con i suoi articoli ha raccontato agli italiani la realtà del mondo arabo prima e dopo l'11 settembre con chiarezza e precisione indica dove e perché risulti più inestricabile (o tale appaia) quel che all'improvviso è diventato una specie di nodo gordiano tra Islam e Occidente. Se egli scrive «la differenza sembra essere il luogo della sconfitta di noi musulmani», la crisi del soggetto nel mondo musulmano è «anche una crisi della rappresentazione nel mondo occidentale, nel modo di pensare dell'Occidente». A mano a mano che la "differenza", o la mutata percezione della sua rilevanza, è andata rafforzando le frontiere tra territori in cui è difficile comunicare, maggiormente aggressive si sono fatte le inquietudini, le incertezze, le paure più o meno represse o camuffate di dover essere individualmente e collettivamente in una costante situazione di rischio del tutto imprevedibile. Di fronte all'insicurezza personale e collettiva, le "certezze" culturali, che in Occidente sono o sembrano più radicate e diffuse, si offrono allora come antidoto, cura o palliativo. E tali appaiono per nulla paradossalmente, anche se assai pericolosamente proprio nel momento in cui, come osserva ancora Khaled Fouad Allam, quel nodo gordiano tra Islam e Occidente esigerebbe invece, per essere sciolto, di «uscire dall'universo delle nostre certezze». Credo sia utile partire da qui, da questo apparente paradosso, per chiedersi in quale modo e prima ancora se nella reazione dell'Occidente allo shock della distruzione terroristica delle Twin Towers sia riconoscibile un atteggiamento identificativo e uno specifico contributo dei cristiani. Alle prime e più superficiali evidenze, la risposta al quesito non può che essere negativa. Brevissima Stagione Benché ci abbiano presi di soprassalto e del tutto impreparati, il disorientamento e il senso di crescente insicurezza esplosi nel giorno che, per dirla con il titolo di un altro saggio, ha fatto la "differenza" [Che differenza può fare un giorno, a cura di V.E. Parsi, Milano 2003], in realtà trovano manifestazioni e si spiegano con cause più lontane. Già affiorano con la rivoluzione geopolitica innescata o soltanto, forse, vorticosamente accelerata dal crollo del muro di Berlino e dei regimi comunisti dell'Est europeo. Quella successiva all'´89 è stata davvero una brevissima stagione, scandita da troppe illusioni collettive, da opinioni e retoriche pubbliche inclini più a creare consenso sociale (e a conservare un "comune senso" culturale) che non a comprendere e interpretare, da scampoli o travestimenti di vecchie concezioni sul progresso, sulla libertà e sul trionfo della democrazia, in cui non era affatto difficile riconoscere un identico ceppo illuministico. Dentro una sorta di riedizione aggiornata, seppur precaria ed esteticamente assai più superficiale, della belle époque, siamo vissuti come se dopo il crollo di quel muro si potessero ricomporre per incanto tutte le fratture, svuotare il peso di ogni ingiustizia patita, archiviare una volta per tutte i segni e il senso della differenza, oltre che i ricorrenti motivi delle diverse forme di contesa per la supremazia, la ricchezza, il potere. Non poteva essere così, naturalmente. Né poteva durare a lungo il costume di vivere il presente e di rappresentarci il domani soprattutto o soltanto all'insegna dell'als ob, del "come se". Eppure lo dimostrano le reazioni all'11 settembre, lo confermano le modalità stesse con cui inquietudini e paure collettive sono state in questi anni manifestate, accentuate o routinizzate l'Occidente sembra fermo alle proprie certezze, ora solide perché ben fondate, ora convenzionali e fragili perché sempre più artificiose. La sua cultura quella elitaria, non meno di quella di massa rimane imprigionata dentro la gabbia di un "disincanto" che, rovesciatosi nel narcisismo dei luoghi comuni di pensiero e delle comuni pratiche di condotta individuale e sociale, non solo indebolisce e accorcia lo sguardo sul futuro, ma persino confonde la comprensione disincantata (o semplicemente realistica) di ciò che sta accadendo oggi. Così, quel che a giudizio di Khaled Fouad Allam appare come un'atavica condanna del mondo musulmano («non potere pensare in termini di futuro, perché il passato avrebbe già pensato per loro»), si riproduce pressoché specularmente anche nella cultura occidentale. La quale, dopo l'11 settembre, ha dovuto prendere atto della propria lentezza e difficoltà nell'affermare idee e strumenti in grado di rispondere in modo credibile ai nuovi scenari e ai tanti interrogativi che quell'evento ha spalancato. Assai più dell'ovvia precarietà di ogni pur forte sistema politico e militare, l'attacco alle Twin Towers ha infatti messo a nudo la vulnerabilità culturale dell'Occidente. La nostra cultura si è trovata esposta e facilmente aggredibile proprio al suo cuore, ossia nella "identità" (con tutto ciò che questo termine, forse sin troppo usato negli ultimi anni, porta dentro di sé). Un'identità che, mentre è abbastanza agevole da definire quando ci si volge al passato, inevitabilmente sembra non solo da attualizzare e vivificare, ma anche allorché la si confronti (già soltanto) con la "differenza" da cui è caratterizzato e scosso il tempo presente da ricostruire in alcune sue parti fondamentali, a lungo sepolte e dimenticate. Nelle paure e nelle incertezze si sono ritrovati completamente immersi anche i cristiani. Superficialmente, in effetti, si farebbe molta fatica a rintracciare nei cristiani in Occidente reazioni, risposte e riflessi, che non risultino del tutto identici o assai simili a quelli manifestati dalla grandissima parte degli individui e dai popoli occidentali. Sotto la superficie, tuttavia, i segnali che si riescono a raccogliere sono tra loro differenti, meno monocordi, spesso (sanamente) contraddittori. Questione di Vita Il conformarsi dell'identità e dell'appartenenza cristiana alle rappresentazioni e alle pratiche sociali maggioritarie è un processo in atto da tempo. Così come da molto tempo una cultura in partibus fidelium (le due tendenze sono evidentemente tra loro interconnesse in modo stretto, pur se qui vengono richiamate nei loro tratti più generali e anche generici) risulta quantitativamente di scarso peso e qualitativamente periferica. Lo è, va aggiunto, sia nei confronti degli orientamenti di cultura dominanti, sia rispetto alla possibilità di acquisire posizioni che si vedano riconoscere non solo un qualche grado di significatività sociale, ma anche e soprattutto, guardando e valutando gli effettivi contenuti della loro elaborazione, la piena capacità di costituire una risposta adeguata, diffusa, non considerata pregiudizialmente di parte. Dentro e insieme con la cultura prevalente dell'Occidente, i cristiani hanno per lungo tempo esorcizzato la tragicità della guerra e rimosso o travestito le cause del costante riproporsi storico della violenza. Dentro e con la cultura dell'Occidente, hanno condiviso lo sbigottimento e l'affanno di constatare quanto le certezze ritenute definitive siano in realtà deboli, e quanto stia diventando arduo convincere e convincersi della "universalità" dei risultati conseguiti con la propria storia politica, economica, giuridica, sociale. In definitiva, dentro e in pressoché completa sintonia con la cultura dell'Occidente, si ritrovano disorientati e per ciò stesso facilmente inclini alla tentazione di opposte estremizzazioni di fronte a quel sintetico composto di convincimenti, comportamenti, idee e minacce, che Iam Buruma e Avishai Margalit hanno condensato nel termine "occidentalismo", e che in sé soprattutto racchiude due atteggiamenti tra loro contrapposti e speculari: il riattizzarsi, da un lato, del secolare odio per l'"impero" occidentale (borghese, disumanizzante, condannato dalla storia stessa perché anacronistico), e, dall'altro, il riflesso vitale per cui ci sentiamo sospinti a rinnovare la nostra identità alla luce degli esiti più imprevisti della cosiddetta post-modernità. Ma, dicevo, appena sotto la scorza apparentemente compatta dell'omologazione e dell'indistinzione, i segnali risultano differenti, più variegati, meno allarmanti. In quel vasto e "reale" campo delle convinzioni e dei comportamenti del popolo, a cui troppo poco si guarda (o, quando vi si presta attenzione, il più delle volte lo si considera inesorabilmente attardato, e quasi condannato a una posizione di minorità ecclesiale), l'11 settembre ha certamente provocato contraccolpi e movimenti, che non sarebbe eccessivo assimilare a un risveglio. Nelle nazioni, in cui più divaricate e meno componibili sono o sembravano, per antiche cause storiche, l'identità religiosa e il sentimento di convinta appartenenza alla comunità politica (come nel caso italiano, per ricorrere a un esempio consumato, se pur sempre utile da richiamare), si è infatti rafforzata la consapevolezza che un'attiva, partecipata e non partigiana cittadinanza deve portare dentro di sé come anima oggi soprattutto il sentirsi componenti senza riserve o esitazioni di una comunità nazionale. Nel suo significato più genuino (e anche rasserenante), l'ethos politico-civile popolare ha così trovato modo di far sentire la propria voce. E l'ha fatta sentire perché, dando espressione al desiderio di voler orientare i cambiamenti senza doverli subire con remissività o nell'indifferenza, ha trovato il suo alimento in una inattesa rilevanza "pubblica" del sentimento religioso e della fede nella dimensione trascendente dell'esistenza. Questa è davvero la novità da cui dopo l'11 settembre è caratterizzata, a me pare, la presenza dei cristiani in Occidente. Ed è una novità che, se riusciamo a non cedere a qualsiasi tipo di rivendicazione confessionale, non può non venir legata all'irrompere della "questione" della vita (e del senso della persona), non solo dentro quella cultura contemporanea che, scarnificandole, ha assoggettato vita e persona ai dettami della scienza, della tecnica e delle abitudini sociali, ma anche nella "politica ideologica" di cui la nostra età patisce ancora le ultime onde lunghe. Per questi motivi, al di là delle prime e ingannevoli evidenze, c'è dunque una fondata risposta positiva all'iniziale quesito sull'esistenza di uno specifico contributo dei cristiani nella stagione successiva all'11 settembre. Ed è ancora più fondata, questa risposta positiva, se si pone attenzione a come e perché la cultura cristianamente ispirata stia cercando di fissare i fondamenti ideali e pratici di una convivenza fra popoli, la quale dia una forma nuova e uno stabile equilibrio all'universalismo. Democrazia Secolarizzata Nel 1977 Hedley Bull, nella Società anarchica, profilava per gli anni a venire i tratti di un nuovo medioevo. Non sono certamente poche le analogie o le somiglianze fra le contraddittorie dinamiche odierne del sistema globale e quelle che resero coerente, e poi fecero declinare, il cosmo medioevale. Ma si stenterebbe a trovare, nella nostra età, qualcosa di affine o pur vagamente comparabile a ciò che costituì la trama più profonda e la garanzia più solida di quell'"ordine". Oggi che la "differenza" attraversa e sembra voler scomporre ogni pretesa di universalizzazione (e, ciò che più importa, la stessa "universalità") di valori quali la democrazia, il diritto e i diritti umani, attingere alle radici più profonde della tradizione giudaico-cristiana significa cercare le motivazioni e gli strumenti più appropriati per comporre in un nuovo e non impossibile universalismo i tanti particolarismi esistenti. Assai più degli astratti schemi tardo-razionalisti, alla costruzione del futuro potrebbe davvero contribuire un'efficace traduzione culturale di quella vocazione all'universalismo, così tipica del pensiero cristiano. Se tutto è relativo e, proprio perché tale, continuamente impone di spostare e moltiplicare le differenze creando nuove e imprevedibili fratture, la tranquillitas ordinis può essere stabilita e difesa, di necessità, soltanto da chi è più forte. Se invece siamo convinti che esistano fondamentali valori in comune, la loro promozione costituisce la più solida garanzia non solo dell'applicazione universale e convinta del principio pacta sunt servanda, ma anche del primato di regole condivise in grado di tutelare coesistenza e sicurezza di tutti. Il sociologo statunitense Amitai Etzioni ha di recente osservato che la spiegazione dei molti insuccessi nel portare la democrazia nei Paesi non occidentali va cercata in un problema culturale di fondo. L'Occidente non solo ha via via realizzato nei fatti, ma ha anche assolutizzato, proponendolo come modello definitivo o idealtipo, una concezione della democrazia interamente secolarizzata, in cui le identità religiose e le professioni di fede sono soltanto appendici marginali rispetto al progredire della società. In tal modo una dimensione costitutiva (e universale) della vita associata ha finito con l'essere espulsa dalla forma democratica dell'ordine politico. È ancora Etzioni a suggerire come, per invertire questa tendenza, sia necessario percorrere la strada indicata dall'idea e dalla concreta prassi della "sussidiarietà". Nel cercare di comporre universalismo e particolarismo attraverso la sussidiarietà, la differenza cessa di essere (o sempre meno è avvertita come) fonte di lacerazioni. E le differenze, insieme con le particolarità, non definiscono più recinti con cui difendere più agguerritamente ciò che si ha, o conseguire più speditamente quel che si ritiene di dover possedere. Quel che alla fine si delinea è, senz'affatto cadere nell'utopismo, un ordine globale articolato in una pluralità di ordinamenti (poco importa se assolutamente sovrani, del tutto autonomi o indipendenti), che tra loro convivono mirando alla tranquillità e al "vivere bene". E che, per realizzare queste finalità, considerano il rispetto delle essenziali regole condivise lo strumento più semplice per garantire l'esistenza e il "buon uso" della differenza. Dopo l'11 settembre, per i cristiani in Occidente, il travaglio della differenza lascia dunque intravedere il nascere non solo di una nuova e forte speranza, ma anche di una rinnovata consapevolezza. Quella che, per poter rendere ragione della speranza cristiana, occorre volere e sapere davvero rischiare.

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