Ambizioni di potenza, alleanze storiche e priorità geopolitiche, la situazione interna e il mantenimento dell’oligarchia al potere sono all’origine delle nuove mosse di Mosca

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:04

Con l'intervento militare in Siria Mosca cerca di mantenere e rafforzare un ruolo di peso sulla scena internazionale. Vladimir Putin e Bashar Assad non hanno mai fatto mistero di essere buoni alleati, ma il legame tra i due Paesi ha origini lontane, che vanno indietro fino ai giorni dell’Unione sovietica. Nell'ultimo mese, però, la presenza russa in Siria è diventata ancora più invasiva, con gli aerei da trasporto a fare la spola tra le basi nella Russia meridionale e l'aeroporto di Latakia. Una volta consolidata la presenza, il presidente Putin ha potuto indirizzare i suoi aerei contro la «minaccia terrorista» presente in Siria. I suoi obiettivi dichiarati sono i terroristi del sedicente Stato Islamico e i qaedisti di Al-Nusra, eppure Mosca guarderebbe oltre gli immediati risultati militari. I legami nell'era sovietica Secondo Alessandro Vitale, esperto di Russia e docente di Analisi della Politica Estera all’Università Statale di Milano, «gli interessi russi in Siria risalgono ai legami stabiliti in epoca sovietica» e affondano le radici nel desiderio di tornare a giocare un ruolo determinante nella politica internazionale. La Siria sarebbe dunque «una stampella, o meglio, un trampolino» per le ambizioni della Russia putiniana: è quella carta che permette di esprimere «il carattere assertivo della politica estera in modo molto più marcato. Senza la Siria, la proiezione esterna di Mosca avrebbe scelte molto più limitate». Dal punto di vista politico i legami di antica data tra «alcuni strati del sistema politico russo e l’entourage di Assad, consolidatisi fin dall’epoca di Hafez», l’ex presidente e padre di Bashar, sono funzionali a questo progetto, essendo garanti di un accesso ai più alti livelli del sistema siriano. Dal punto di vista strategico, invece, per i russi è necessario avere «una base fidata nel Mediterraneo» e dunque l’ingresso di Putin nella guerra siriana «non è sorprendente: la politica navale russa è di antica data, lo sbocco sui mari caldi è una costante della politica estera e nell’attuale fase di restaurazione del Cremlino la carta marittima è una delle principali. Non c’è alcun dubbio che la possibilità di avere supporto per la marina nel Mediterraneo sia fondamentale». A questo bisogno risponde la base, seppur in certi periodi ridotta a mero presidio, che i russi fin dall’epoca sovietica hanno nel porto di Tartus, nella zona costiera a maggioranza alawita più fedele al regime di Assad. Mosca non può permettersi di perdere un alleato che conosce così bene e che gli garantisce questa presenza strategica. Ecco perché non esita nei primi bombardamenti «a colpire le forze che si oppongono a Damasco» attorno all’area alawita, «più che le milizie del Califfato». Una capace diplomazia Non si tratta però soltanto di “esibire i muscoli”: per tornare a pesare in uno scenario come quello mediorientale, la presenza militare russa è accompagnata, come si è visto nel caso della mediazione decisiva svolta nel negoziato tra l’Iran e il gruppo P5+1, da una diplomazia che come conferma il professore Vitale «ha dei risvolti molto intelligenti grazie anche a un Ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, che in confronto ad analoghi esperti statunitensi si è dimostrato di una spanna superiore». Anzi, alcune scelte «servono proprio a dimostrare la competenza della politica estera russa, la capacità di porsi come mediatori, agevolatori di accordi e di soluzioni che evitino conflitti. In questo i funzionari russi sono molto abili, formati in apposite scuole. Nel caso del patto sul nucleare Lavrov è riuscito a unire il prestigio della mediazione con la soluzione di una tensione che durava da anni». Sono azioni che dimostrano anche lo stretto rapporto tra politica estera e interna: «In quello che è un caso quasi da manuale, cercando con questa politica estera assertiva di recuperare il rango internazionale perduto, Putin riesce ad avere benefici in politica interna», sottolinea il professor Vitale. «C’è una corrispondenza netta tra interventi esterni, politica estera assertiva e crescita del consenso interno, grazie a uno stimolo del sentimento nazionale russo» che consolida il regime. La variabile turca Un perfetto circolo virtuoso? Non proprio, in primo luogo perché non si tratta di un gioco che si può riproporre all’infinito: «Prima o poi i fattori interni possono influenzare le decisioni di politica estera. Per esempio la crisi economica, abilmente occultata da Mosca, può portare la popolazione a un certo grado di esaurimento», e in secondo luogo perché la politica estera russa rischia di ravvivare antiche rivalità, come quella con la Turchia. Ed è proprio la tensione con la Turchia, più che l’eventualità di un intervento diretto di terra che è «un’opzione che probabilmente verrà scartata», ciò che rende particolarmente pericolosa l’azione russa in Siria. Un incidente, un abbattimento per errore o un missile che finisce in territorio turco potrebbero avere effetti devastanti: «La Turchia è nella Nato e in base all’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico un incidente implicherebbe un intervento dell’alleanza. È una situazione di pericolosità estrema».