La tragica vicenda della giovane pakistana solleva importanti interrogativi, dalla sacralizzazione delle tradizioni ancestrali al matrimonio nell’Islam, al confronto inter-generazionale nelle famiglie immigrate

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:27

Nemmeno un posto dove portare un fiore o recitare una preghiera. Nemmeno questo le hanno concesso. Restano le sue foto, quegli scatti che raccontano il desiderio di un cambiamento, quella voglia di comunicare una femminilità e una dolcezza che accomuna le ragazze adolescenti, piene di voglia di vivere e di affermare la propria libertà. Quegli occhi grandi che guardavano con fiducia al futuro dopo aver sofferto, traditi proprio da chi avrebbe dovuto guardarli con amore e comprensione. Quegli occhi che non vedranno mai più il sole.

 

La vicenda di Saman Abbas, la diciottenne di origine pakistana scomparsa nel nulla, presumibilmente uccisa dalla sua stessa famiglia, che poi ne avrebbe occultato il corpo senza vita, ha sconvolto l’Italia, suscitando dolore e grandi interrogativi. In nome di chi o di cosa la famiglia si sarebbe trasformata in un branco, premeditando e pianificando l’uccisione della giovane figlia? Quanto contano, in questa vicenda, tradizioni, religione, logiche tribali? Saman, che era già stata allontanata dai genitori dopo averne denunciato le violenze, si sarebbe potuta salvare se le fosse stata concessa la cittadinanza italiana? Il lavoro degli inquirenti continua senza sosta; si cerca il corpo della giovane, mentre la famiglia si è data alla fuga. Su questa vicenda terrificante si è aperto un dibattito non sempre onesto e limpido, che di certo non rende giustizia alla giovane. Da un lato c’è chi cerca risposte, chi parla di un femminicidio e riflette sugli strumenti di prevenzione da adottare, mentre dall’altro non manca chi criminalizza tutti i pakistani, i musulmani, gli sciiti, gli stranieri in generale.

 

Saman, come tutte le vittime di violenza, merita verità e giustizia dal punto di vista legale, ma quest’ennesimo femminicidio maturato in ambito famigliare chiede risposte ferme anche dagli ambienti della cultura e della religione. Alcune dichiarazioni del fratello della vittima, infatti, mostrano quanto in quell’ambiente pesassero consuetudini e convinzioni tribali antiche, spesso spacciate per leggi e per dogmi religiosi. Saman e il fratello erano ostaggio di ricatti morali, minacce e intimidazioni e solo grazie a un grande coraggio la ragazza era riuscita a denunciare, allontanandosi da un ambiente malsano e violento. Raggiunta la maggiore età, Saman aveva deciso di andare via con un ragazzo che amava, e per questo aveva bisogno dei documenti, che la famiglia le negava. Da quanto sta emergendo, sarebbe stata la stessa madre a trarla in inganno facendola tornare a casa, proprio con la scusa dei documenti, e lì poi si sarebbe consumato l’atroce delitto. Se quest’ipotesi venisse confermata, un ulteriore interrogativo emergerebbe con drammaticità: possibile che la madre, una donna, fosse a conoscenza dei propositi omicidi dei maschi della famiglia e li avesse sostenuti senza alcun rimorso, senza provare a fare tutto il possibile per salvare la vita di sua figlia, del sangue del suo sangue?

 

I contorni tragici di questa vicenda spingono a riflessioni di varia natura, da cui dovrebbero scaturire condanne, ma anche linee guida per la prevenzione, perché non si ripetano mai più barbarie simili. Non esiste mai un perché a un omicidio, a un femminicidio, nel senso che non esiste giustificazione, né attenuante alcuna. Per cercare di capire cosa sia successo in quella casa di Novellara può essere utile provare a descrivere, per quanto possibile, l’ambiente della famiglia Abbas. Di umili origini, provenienti da una zona rurale del Pakistan, i genitori e gli zii di Saman, sebbene si trovino in Italia ormai da almeno dieci anni, non si sono mai realmente integrati, vivendo isolati e frequentando prevalentemente loro connazionali.

 

Il Pakistan è una delle nazioni più popolose e problematiche al mondo. È stato il Paese che ha visto Benazir Bhutto, giovane e innovatrice donna politica, ricoprire per ben due volte il ruolo di Primo ministro, ma è stato anche la tomba della stessa Bhutto, assassinata in un attentato terroristico. Non va dimenticato che a una cinquantina di chilometri dalla capitale Islamabad si nascondeva il terrorista saudita Osama Bin Laden, la mente criminale degli attentati dell’11 settembre 2011, anche se le autorità pachistane hanno sempre negato di essere a conoscenza della sua presenza. Amnesty International denuncia da tempo le continue violazioni dei diritti umani che si consumano in Pakistan, in particolare contro le donne e le minoranze. Secondo la ONG Centre for Social Justice, tra il 2013 e il novembre 2020 i media hanno segnalato 162 conversioni sospette e il numero più alto di casi, 49, è stato segnalato nel 2019. Più del 46% delle vittime erano minorenni, con quasi il 33% di età compresa tra gli 11 e i 15 anni. Oltre il 54% delle vittime apparteneva alla comunità indù, mentre il 44% era di religione cristiana. C’è poi il Pakistan delle piantagioni di papaveri da oppio da cui si estrae l’eroina, un business da diversi milioni di dollari l’anno. Da questo quadro emerge, quindi, tutta la complessità del Paese e quanto sia ampio il divario tra leggi scritte, che formalmente condannano il terrorismo e le violenze contro la persona, e le pratiche in uso tra singoli e comunità.

 

Anche in Pakistan, infatti, esistono leggi che dovrebbero tutelare le donne, ma non bastano: un quinto dei cosiddetti delitti d’onore che si commettono in tutto il mondo avviene proprio in questo Paese. Secondo un Rapporto del 2019 stilato dal Dipartimento di Stato americano sulle pratiche dei diritti umani in Pakistan, esistono diverse normative nel Paese asiatico per criminalizzare i delitti commessi contro le donne in nome di pratiche consuetudinarie: la Legge del 2004 sui delitti d’onore, l’Atto del 2011 per la prevenzione di pratiche contro le donne e l’Atto del 2016 di emendamento della legge criminale (offese in nome o con il pretesto dell’onore). Quando le donne non vengono uccise, spesso vengono torturate o sfigurate con l’acido. La regione pakistana dove si registra il numero più alto di crimini di questo tipo è quella rurale e tribale del Sindh. In quelle aree è ancora in vigore il Wadera, un sistema feudale che governa il territorio e le comunità, basato sull’accentramento del potere nelle mani di pochi grandi proprietari terrieri e che si sostituisce alla giustizia dello Stato. I signori feudali si avvalgono della jirga, ovvero l’assemblea dei leader della comunità, che prendono le decisioni e, di fatto, ha più peso sulle comunità locali di quanto possa averne lo Stato. Le leggi che almeno formalmente condannano i femminicidi e i cosiddetti delitti d’onore, quindi, ci sono, ma quelle che vigono sono altre leggi, scritte da secoli con il sangue delle donne. Alcune famiglie pakistane che vengono da quelle aree, pur vivendo da anni in Italia, si portano ancora dietro quella mentalità per cui “sarebbe meglio una figlia morta” che una figlia che, ai loro occhi, “disonora la famiglia sottraendosi a un matrimonio imposto o combinato o scegliendo autonomamente la persona che si desidera sposare”.

 

Qui si pone un altro interrogativo. Cosa dice l’Islam, la religione della famiglia Abbas e della maggior parte dei pachistani, a proposito del matrimonio? Si può combinare o forzare? E di fronte a una figlia che rifiuta un’imposizione del genere, è concepibile o giustificabile deciderne l’assassinio? Per tutti e tre gli interrogativi la risposta, naturalmente, è un no chiaro e inequivocabile. Prima di spiegare nel dettaglio cosa dice l’Islam sul matrimonio, è importante fare luce su un particolare aspetto che nella vicenda di Saman ha un peso fondamentale. Da alcune delle dichiarazioni del fratello della giovane emerge quanto, in realtà, in quella famiglia regnasse un’ignoranza totale in tema di religione. Al giovane, infatti, erano stati inculcati concetti terrificanti, spacciati come verità coraniche. Che strumenti avevano Saman e il fratello per capire cosa dica o non dica l’Islam e provare a controbattere alle bugie e alle imposizioni della famiglia? È cosa nota, purtroppo, che in Pakistan, come in altri Paesi, il testo sacro dell’Islam viene letto e insegnato in arabo, una lingua che solo in pochi comprendono. In Pakistan, infatti, si parla l’urdu. Anche tra le comunità migranti si mantiene questa abitudine. Accade, quindi, che la maggior parte della gente assimili dell’Islam ciò che viene detto in ambito famigliare o comunitario, senza avere termini di confronto e senza avere la possibilità di attingere a fonti teologiche dirette. Si finisce così per prendere per religioso, per verità, ciò che è in realtà consuetudine, tradizione, legge tribale scritta e imposta dagli uomini, senza alcun coinvolgimento femminile. Tenere nell’ignoranza e nell’oscurità buona parte della popolazione fa spesso parte di scelte deliberate di regimi oscurantisti e retrogradi e di gruppi fondamentalisti che la fanno da padrona in aree dimenticate e problematiche del mondo.

 

Guardiamo ora cosa dice la religione musulmana. La vita umana nell’Islam viene guardata e considerata inviolabile, tanto che tutte le scuole giuridiche condannano l’omicidio e rifiutano, quasi unanimemente, l’aborto e l’eutanasia, anche se su questi ultimi due punti c’è un dibattito aperto. La vita è sacra sin dal momento del concepimento, è considerata un dono che Dio fa e che poi toglie, richiamando a sé le sue creature. Questi principi fondamentali non possono essere messi in discussione ogni volta che qualcuno commette un omicidio e afferma di farlo per compiacere Dio. Per chi crede e conosce realmente i valori della fede, uccidere in nome di Dio è un peccato, una bestemmia, ma non mancano, purtroppo, coloro che da sempre usurpano la religione, ne fanno uno strumento di odio, oppressione e controllo delle masse. Uno strumento tagliente, che spesso viene usato contro le fasce più deboli della popolazione, in particolare contro le donne.

 

Nell’Islam tra i fondamenti del matrimonio, considerato il nucleo di ogni società, c’è il consenso di entrambi gli sposi, che deve essere esplicito. Queste rende haram, cioè religiosamente illecito, il matrimonio forzato. A confermare la natura consensuale e consapevole del matrimonio, c’è anche la liceità del divorzio nell’Islam. Due persone che si sposano, ma comprendono di non andare d’accordo e sono infelici, hanno la possibilità di separarsi e poi divorziare e questa scelta è considerata halal, quindi religiosamente lecita. Ciò nonostante, purtroppo, molte società, sebbene in teoria si rifacciano ai valori dell’Islam, guardano al divorzio con diffidenza e, in particolare, tendono a stigmatizzare le donne divorziate. Una riflessione a parte andrebbe fatta sul divieto, che ancora vige in quasi tutti i Paesi a maggioranza musulmana, di sposare un uomo non musulmano da parte di una credente dell’islam. Solo recentemente, grazie a un lungo processo di rinnovamento del codice di famiglia, Marocco e Tunisia hanno tolto questo ostacolo alla scelta del proprio coniuge. Su questo tema andrebbe aperto un capitolo a parte, perché la mentalità che ancora vige in molti Paesi è fortemente maschilista e patriarcale e non accetta processi di riforma e rilettura delle leggi religiose. In questo senso, un percorso di separazione tra religione e politica aiuterebbe certamente ad introdurre normative più liberali, non permettendo più allo Stato di fare ingerenze nella vita privata dei cittadini.

 

Anche la pratica dei matrimoni combinati non è religiosamente accettata perché spesso l’iniziativa delle famiglie non corrisponde affatto alla volontà dei due sposi. Un tempo era prassi in molti Paesi del mondo che fossero i genitori, in base a scelte sociali e di rango, a combinare i matrimoni per le figlie e i figli, ma simili modelli sono oggi improponibili, soprattutto in Occidente. Questo punto apre a un ennesimo, importante punto di confronto, quello della difficoltà nel confronto intergenerazionale. Da sempre le generazioni più giovani sono portatrici di modernità, di innovazione, del cambiamento di mentalità e di abitudini, e spesso il confronto con i genitori non risulta semplice. Se a questo confronto si aggiunge un ulteriore elemento di difficoltà, legato al contesto, si comprende quanti sforzi e quanta pressione debbano sentire le giovani generazioni di origine migrante che crescono in Italia. Capita che spesso le famiglie, come accaduto con quella di Saman, si portino dietro una mentalità legata a un contesto vecchio di decenni e non si rendano conto che finalmente anche nei Paesi d’origine siano state introdotte leggi che vietano certi comportamenti violenti e abusanti. I figli e soprattutto le figlie che nascono e crescono qui diventano altro rispetto a loro, crescono circondati da un mondo diverso, parlano una lingua diversa, acquisiscono abitudini nuove e desiderano a tutti gli effetti sentirsi parte integrante del mondo che chiamano casa, l’Italia. Alcuni riescono a trovare un punto di equilibrio tra le loro due anime, tra la loro doppia appartenenza, soprattutto quando le famiglie sono aperte al cambiamento e al confronto. Certe famiglie purtroppo, non accettano le rotture col passato e le innovazioni e arrivano a concepire idee e agire con comportamenti quantomeno disumani, provocando sofferenze indicibili ai figli e arrivando persino a ucciderli.

 

Le questioni sono molte e non è possibile pensare di esaurirle tutte in questo spazio. Resta un punto fondamentale, forse il più importante, che va qui discusso e che deve essere il primo riferimento quando si affrontano vicende simili: la centralità della Legge dello Stato. Abbiamo già detto che, almeno sulla carta, in Pakistan e in altri Paesi sono vietati i matrimoni forzati e i cosiddetti delitti d’onore. Il delitto di Saman, se dovesse essere confermata questa drammatica ipotesi, si è consumato in Italia, in un Paese che vieta e punisce da decenni questi comportamenti e  dove grazie a un lento e progressivo cambiamento culturale si sta rafforzando una mentalità che condanna ogni violenza, fisica e mentale, contro le donne. Sono molte le campagne di sensibilizzazione e prevenzione, le associazioni di tutela delle donne, le iniziative che partono già dalle scuole, che sono il primo laboratorio di formazione dei nuovi cittadini e delle nuove cittadine. A proposito di cittadini, si può provare a concludere questa riflessione proprio sul tema della cittadinanza. Pur essendo stata allontanata dalla famiglia, Saman era in qualche modo ancora in ostaggio dello strapotere del padre e dei famigliari che ne trattenevano i documenti. Se le fosse stata concessa la cittadinanza italiana, avrebbe potuto chiedere un duplicato dei documenti senza andare a casa della famiglia, tra quelle mura dove ha vissuto un incubo da cui era scappata e che poi sarebbero diventate l’ultimo posto che ha visto da viva. Forse quei suoi grandi occhi che sognavano un futuro di libertà sarebbero stati ancora aperti a guardare il mondo e decidere per un destino diverso da quello che volevano imporle.

 

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