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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:04

Ci sono momenti in cui la periodicità di un semestrale va stretta: la primavera del 2011 è sicuramente uno di questi. Sulle prime, in Occidente, non abbiamo dato molto peso al referendum che in gennaio ha spianato la strada all’indipendenza del Sud Sudan, prima modifica ai confini di uno Stato africano post-coloniale (l’osservazione, per ironia della sorte, è venuta dal Colonnello Gheddafi). Subito dopo però, in un succedersi di sollevazioni popolari, abbiamo assistito alla fine dei regimi di Ben Ali e Mubarak, ai disordini in Bahrein e quindi all’inizio della rivolta in Libia, ben presto degenerata in una guerra civile dai tratti molto incerti, mentre disordini crescenti si registrano, mentre scriviamo, in Siria e in Yemen. Abbiamo visto i dimostranti egiziani accampati in Piazza Tahrir, i contro-dimostranti reclutati dal governo lanciare al galoppo i loro cammelli per le strade del Cairo, poi i pick-up dei ribelli libici sbandarsi di fronte all’esercito regolare nella migliore tradizione Ibn Khalduniana e i video frammentari provenienti dalla Siria che, tra tanti dubbi, su una cosa almeno erano chiarissimi: anche a Damasco si spara e si muore. Attraverso la newsletter abbiamo cercato di seguire il rapido evolversi della situazione, privilegiando ove possibile il racconto di chi vive sul posto. Abbiamo guardato con stupore e passione insieme all’emergere di una nuova, possente, domanda di libertà in popoli che tanti giudicavano condannati a un immobilismo soffocante. Eppure viene il momento di fare il punto: le tante immagini che i media hanno rilanciato ci hanno dato la sensazione (o per meglio dire l’illusione) di essere “in prima linea”, ma in fondo che cosa abbiamo capito di quel che è successo e soprattutto di quel che succederà? È qui che vuole inserirsi questo nuovo numero della rivista.

Sunniti e sciiti

Nella prima euforia delle rivoluzioni, mentre cadevano tanti riferimenti consueti, lo scenario sembrava talmente cambiato da risultare irriconoscibile. Una gigantesca tabula rasa, senza nessun legame con il passato? Chiaramente no. Ogni giorno che passa conferma l’impressione che queste rivolte (che giustamente chiamiamo rivoluzioni) abbiano introdotto una reale novità, ma innestandosi in un contesto specifico. Scandire uno slogan al Cairo non è come gridarlo a Pechino e, come è stato acutamente osservato, «la democrazia liberale non è “la fine della storia”». Ecco perché l’attualità di questo numero adotta un punto di vista particolare: quell’irrisolta tensione tra comunità sunnite e sciite che ha profonde radici nel passato (quanto profonde lo spiega Sabrina Mervin nel suo articolo) e che rappresenta secondo molti analisti la nota principale del Medio Oriente contemporaneo. Con i cristiani nel mezzo, come si vede bene in Libano.

Finora la rivoluzione ha avuto successo in due tra i Paesi più omogenei della regione, ma in contesti più variegati le contrapposizioni settarie possono trovare facile presa. A parte il caso limite del Bahrein, dove la tensione è vecchia di decenni se non di secoli, il discorso vale per la Siria, è già all’opera in Iraq e potrebbe interessare anche l’Arabia Saudita. Le rivolte e le rivoluzioni stanno alterando rapporti di forza consolidati (magari non nella direzione indicata dai media, come ricorda Bernard Hourcade a proposito della ventilata “ascesa iraniana”), ma funzionano anche come arma impropria. Se ci è lecita l’immagine, ognuno dei contendenti ha tutto l’interesse a gettare la patata bollente nel campo del vicino. Ingerenze straniere, tra vicini che mal si sopportano, sono sicuramente possibili.

Nuova è comunque la rivendicazione di maggiori libertà, avanzata da una generazione che alcuni, come Olivier Roy, già da parecchi anni invitano a definire “post-islamista”. Non naturalmente nel senso che abbia abbandonato la religione, ma nel senso che vive con essa un rapporto diverso, non più riducibile all’alternativa tra movimenti islamisti di contestazione e religione quietista propagata da Stati che solo con molta miopia – ricorda Malika Zeghal – si sono potuti definire “laici”. Come l’uccisione di Bin Laden non significa la fine del terrorismo (di cui Farhad Khosrokhavar spiega tra l’altro la complessa genealogia, tra estremismo sunnita e ideologia khomeinista), così anche il nuovo scenario mediorientale non implica affatto la scomparsa dei movimenti d’ispirazione islamista. Al contrario c’è da scommettere che essi, forza ben organizzata benché soggetta a imprevedibili evoluzioni interne, svolgeranno un ruolo molto significativo negli anni a venire. Tuttavia l’elemento più impressionante che emerge dalle rivoluzioni è lo scollamento (prima di tutto anagrafico) tra le nuove generazioni e le istituzioni religiose ufficiali, musulmane e cristiane. C’è su questo abbondante materia di riflessione.

Un terzo elemento, che è stato finora ampiamente sottovalutato, è il peso dell’economia nell’intera vicenda. Quasi tutti gli Stati mediorientali sono fondati su un sistema di rendite che, soprattutto là dove il nuovo boom petrolifero non interviene a ripianare i debiti delle amministrazioni pubbliche, si sta rivelando insostenibile. Come già la rivoluzione dell’89 poté essere spiegata anche con la necessità di aprire nuovi mercati, travolgendo burocrazie inefficienti e corrotte che ostacolavano la penetrazione economica, così anche nella primavera araba una chiave di lettura analoga non è da sottovalutare. E se l’interpretazione è plausibile, poiché gli Stati con queste caratteristiche non si limitano a Egitto, Tunisia e Libia, ci si può aspettare che le pressioni e i disordini continueranno ancora a lungo. Nel frattempo l’Europa ha ritrovato, in forma acutizzata, il problema dei profughi e dei migranti. Una politica lungimirante (quella, per intenderci, che non avrebbe scatenato l’azzardata guerra di Libia nella convinzione che il regime di Gheddafi sarebbe caduto in pochi giorni) vorrebbe che si percorresse la strada di un rinnovato sostegno economico, tanto più che anche la rivoluzione dagli ideali più nobili, se non riesce ad assicurare un minimo di benessere alla popolazione, è votata al fallimento.

Davanti al nuovo

E i cristiani in tutto questo, dove si collocano? La pur necessaria e – confessiamolo – affascinante riflessione geo-politica non deve far passare in secondo piano la ragion d’essere della nostra rivista e di tutto il progetto che alla Fondazione Oasis fa capo: capire in che modo cristiani d’occidente e d’oriente, insieme ai credenti musulmani, possano orientare il vorticoso processo di meticciato di popoli e civiltà verso forme di vita buona, più ampie e più solide di quelle attuali.

Prima della rivoluzione di gennaio-febbraio, i cristiani egiziani si sono rivelati un’importante cartina di tornasole. Quando, dopo gli attentati di Capodanno ad Alessandria, i dimostranti hanno preso di mira i rappresentanti del governo, qualcuno ha iniziato a capire che o i copti erano impazziti o l’amministrazione egiziana non era quel baluardo delle minoranze che ci veniva dipinto abitualmente. Nei giorni delle manifestazioni, una ritrovata concordia islamo-cristiana ha acceso molte speranze. Ma se le comunità di minoranza hanno avuto nei mesi scorsi la funzione di “indicatori” di un malessere più generale prima e di una rinnovata unità di popolo poi, la ripresa delle violenze inter-confessionali, al Cairo e altrove nel Paese, non può non destare moltissima preoccupazione. Nel nuovo Medio Oriente che si va disegnando ci sarà più o meno spazio per le minoranze, più o meno libertà religiosa? È questa la domanda angosciosa che molti cristiani orientali rivolgono, con una comprensibile insistenza tale da appiattire a volte su quest’unico parametro ogni analisi.

Un dato emerge comunque con chiarezza: il vecchio sistema di protezione, che peraltro non ha impedito un imponente esodo dalla regione, non c’è più o sta tramontando. Aggrapparsi a quanto di esso rimane non è una strategia che porterà lontano. Occorre prendere coraggio, consapevoli che, come già in passato, i cristiani non domandano privilegi per alcuni, ma diritti per tutti. «Ascoltando le rivendicazioni – scrive S.E. Mons. Audo – delle masse popolari dalla Tunisia all’Egitto, passando per la Libia e i Paesi del Golfo, non si può non percepire un legame misterioso tra l’appello del Sinodo e tutto ciò che la gioventù araba e musulmana rivendica oggi, come la giustizia e libertà». Che uomo vuol essere l’uomo del terzo millennio? È questa la domanda che – osserva il Cardinal Scola – riecheggia con forza a tutte le latitudini, in Maghreb ma non solo.

Il 7 e 8 maggio il Santo Padre ha onorato il Nord-est italiano e la città di Venezia in particolare di un’intensissima Visita apostolica. Nel discorso tenuto ad Aquileia, Chiesa madre non solo del Patriarcato veneziano, ma di più di 50 diocesi dall’Ungheria alla Baviera, egli ha affermato: «Non rinnegate nulla del Vangelo in cui credete, ma state in mezzo agli altri uomini con simpatia, comunicando nel vostro stesso stile di vita quell’umanesimo che affonda le sue radici nel Cristianesimo, tesi a costruire insieme a tutti gli uomini di buona volontà una “città” più umana, più giusta e solidale». Dalle rive di quell’Adriatico che «porta il Mediterraneo nel cuore dell’Europa» (le parole sono ancora di Benedetto XVI) sentiamo questo invito come la parola più adeguata sulle sfide che ci attendono.

* Una versione abbreviata di questo contributo è stato pubblicato come Editoriale sul quotidiano Avvenire del 31 08 2011
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Martino Diez, Le rivoluzioni nordafricane. Una sfida per tutti, «Oasis», anno VII, n. 13, luglio 2011, pp. 5-9.

 

Riferimento al formato digitale:

Martino Diez, Le rivoluzioni nordafricane. Una sfida per tutti, «Oasis» [online], pubblicato il 1 luglio 2011, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/le-rivoluzioni-nordafricane-una-sfida-per-tutti.

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