A facilitare dopo il 2011 una transizione politica è stata anche l’azione di un esercito privo di un ruolo di supporto al dittatore e senza interessi corporativi. E che oggi si trasforma.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:09

Nel dicembre 2010, il suicidio di Mohamed Bouazizi è stata la scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta popolare in Tunisia; probabilmente a segnare però la reale svolta verso il successo della rivoluzione dei Gelsomini è stato, il 13 gennaio 2011, il rifiuto del comandante delle forze armate tunisine, il generale Rashid Ammar, di far aprire il fuoco sui manifestanti. Il giorno dopo l’ex presidente Zine al-Abidine Ben Ali è scappato in Arabia Saudita. Durante la rivoluzione, l’esercito non si è macchiato di crimini, a differenza della polizia, che ha ucciso manifestanti nelle piazze mentre i suoi cecchini sparavano dai palazzi circostanti. Anzi, nel caotico periodo di transizione dopo la fuga di Ben Ali, le forze armate sono state una garanzia, sia contro disordini fomentati da membri del regime sia contro saccheggi e vandalismi. Quel che però è da evidenziare è che, avviatosi il processo democratico con le prime libere elezioni per l’Assemblea costituente dell’ottobre 2011, le forze armate sono tornate nelle caserme e non hanno interferito con la vita politica del Paese. La Tunisia è per questo un’eccezione, considerato quanto accaduto in Egitto e Algeria, dove l’esercito ha preso il potere, o in Libia e Siria - per non parlar dell’Iraq -, dove è stato rapidamente sfaldato dalle tensioni tribali ed etnico-settarie. Nell’ottica delle relazioni tra il potere politico e quello militare, la Tunisia ha rappresentato un’eccezione positiva e anzi, si può azzardare che il ruolo dell’esercito sia stato uno dei principali elementi che ha evitato alla Tunisia di finire in preda alla guerra civile. I motivi di questa eccezione regionale sono diversi e dipendono dalla storia recente del Paese, nonché dalle peculiarità della società tunisina e delle sue forze armate. Destituito il presidente Habib Bourguiba con un golpe bianco nel 1987, una delle prime preoccupazioni di Ben Ali fu quella di marginalizzare le forze armate: temeva che proprio da queste potesse scaturire la più seria minaccia alla sua autorità. Diversi alti ufficiali legati all’ex presidente ottennero posizioni civili ma, in genere, agli ufficiali fu vietato di rivestire incarichi pubblici e i fondi alla difesa furono ridotti. Inoltre Ben Ali si nominò capo di stato maggiore della Difesa, così privando i militari di un vertice. La sua strategia di maggior successo fu quella di trasformare la polizia in attore principale del sistema di sicurezza tunisino e, nel contempo, del regime: la Tunisia divenne uno stato di polizia. Il piano funzionò e il regime si assicurò la fedeltà delle forze di sicurezza - polizia e servizi di intelligence - che divennero i pretoriani del dittatore, strumento di repressione sia contro il radicalismo islamico sia contro ogni movimento di dissenso popolare e della società civile. L’esercito, strutturato per la lotta a ogni possibile minaccia esterna ma privo di un ruolo politico e con pochi fondi, è rimasto comunque una forza efficiente, molto professionale, coeso e rispettato dalla società che non lo vedeva colluso col regime. Per farsi un’idea della strategia di Ben Ali, basti considerare che sotto il regime gli effettivi delle forze di sicurezza erano diventati cinque volte maggiori rispetto a quelli delle forze armate. Addirittura, nel 1991, con la scusa di reprimere un presunto complotto ordito proprio dai militari e dagli islamisti di Ennahda, l’esercito subì profonde purghe e fu ulteriormente emarginato. Dunque, per le Forces armées tunisiennes, prive di un ruolo di supporto al dittatore e senza interessi corporativi o collusioni politiche ed economiche con il regime, è stato facile schierarsi nel 2011 con i rivoltosi. A facilitare poi una transizione del potere in favore delle istituzioni civili e democratiche è stato il fatto che il vuoto politico lasciato dal crollo del regime è stato subito riempito da società civile, funzionari, giudici, attivisti, sindacati e partiti politici. L’eccezione tunisina nasce anche da un secondo ordine di considerazioni, legate alle peculiarità delle forze armate tunisine. Con meno di 50mila effettivi, esse sono le più piccole di tutto il mondo arabo, ma hanno sempre mantenuto un alto livello di addestramento e oggi sono oggetto di un profondo rinnovamento. Dal controllo personalistico di Ben Ali sono passate alla subordinazione al potere civile e democratico: a vario titolo, rispondono a presidente, primo ministro, Parlamento, ministro della Difesa e Consiglio di sicurezza nazionale. Inoltre, oggi è l’esercito a essere il protagonista della lotta al terrorismo islamico, soprattutto lungo i confini con Libia e Algeria. Riceve più fondi e materiali e sono stati conclusi accordi internazionali di cooperazione e addestramento con Emirati, Qatar, Turchia e Stati Uniti. Infine, l’esecutivo ha nominato diversi militari in posizioni civili e nel settore della sicurezza, tra cui numerosi governatori. Benché la situazione sia profondamente cambiata, rimane dunque un dubbio sul futuro delle relazioni civili-militari in Tunisia. Infatti, riacquistando forza e un ruolo centrale nella società, le forze armate potrebbero essere tentate da avventurismi golpistici; non è un mistero che nel 2013, quando gli accordi tra le forze politiche al governo hanno vacillato e mentre il Paese era scosso da omicidi di leader laici e proteste popolari contro la pretesa islamizzazione da parte di Ennahda della società, l’esercito sarebbe stato a un passo dal golpe. Oggi, anche grazie alle prove di compromesso politico dimostrate da Ennahda, la situazione è migliorata, ma la gravissima crisi economica e la minaccia terroristica rimangono due variabili in grado di porre fine all’eccezione tunisina.