Forze statali e non statali minacciano i confini e la regione del Sinai, un fatto inedito nella storia del Paese. Il governo propende per una soluzione “securitaria” prima che politica, sempre più remota. Ma le misure anche più dure non risolvono la minaccia di Isis e il ruolo della Fratellanza continua ad allarmare.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:06

L’Egitto si trova ad affrontare molte sfide “securitarie”, anche a voler utilizzare questo termine nella sua accezione più ristretta. Per la prima volta nella storia del Paese, forze statali e non statali minacciano i confini e la periferia (il Sinai), per non parlare della specificità della sfida lanciata dall’Etiopia con la questione delle risorse idriche, vitali per il Paese. Pur essendo migliorata, la situazione sulle rive del Nilo continua a essere pericolosa per la presenza di una forza politica minoritaria, i Fratelli Musulmani, che contano qualche centinaio di migliaio di membri, e che non perdonano a parti cospicue della popolazione egiziana di aver «delegato all’esercito i poteri per lottare contro il terrorismo» e, così facendo, di aver preparato/avallato la sanguinosa repressione di Rab’a (14 agosto 2013, con centinaia di morti). Pur di far cadere il nuovo regime, la Fratellanza è disposta a ricorrere a qualunque mezzo, violenza terroristica e atti di sabotaggio compresi. Nonostante sia sempre più minoritaria nel Paese, questa forza dispone di roccaforti e bastioni, alcuni dei quali nella periferia della capitale. Al momento non si intravvede ancora una soluzione politica e la soluzione securitaria, nonostante un’efficacia crescente e a tratti impressionante, mostra i suoi limiti. Tuttavia per il momento si può affermare che il regime ha vinto la battaglia nella valle e che le manovre dei Fratelli non fanno che accrescere il rifiuto di cui sono oggetto. I jihadisti minacciano il Sinai e il confine libico. In Sinai erano frazionati in diverse formazioni, divise sulle questioni dottrinali e sulla tattica politica, ma i duri colpi subiti li hanno spinti a raggrupparsi sotto l’egida di Ansar Bayt al-Maqdis, formazione affiliata ad al-Qaida e poi unitasi a Isis. Questa formazione occupa solo la zona est della costa settentrionale, ovvero il tratto Arish/Rafah, più una piccola parte del territorio nord-orientale, in particolare la regione della montagna al-Hallal e del villaggio di Shaykh Zuwayd. Questo gruppo, un misto di combattenti stranieri, jihadisti della valle e figli di alcune tribù del Sinai, conta diverse migliaia di combattenti: le stime oscillano tra 5000 e 22000. Ha subito perdite pesanti, più di un migliaio di morti, i suoi canali di comunicazione e di approvvigionamento vengono regolarmente interrotti, ma fino a oggi è sempre riuscito a rinascere periodicamente e a “proiettare” le sue forze nell’organizzazione puntuale di operazioni omicide dalle sue roccaforti. Ciò che è certo è che può contare su appoggi a Gaza e quanto meno sulla neutralità “positiva” delle brigate al-Qassam. È certo anche che questo gruppo è riuscito a ottenere il “silenzio”, consenziente o meno (a seconda dei casi), delle tribù, giustiziando brutalmente le persone accusate di “collaborazionismo”. Nella regione la questione securitaria è resa più complessa dalla difficoltà di reclutare informatori, a causa di una certa chiusura degli ambienti tribali. La mancanza d’informazioni spesso spinge le autorità a ricorrere alla repressione brutale o alle sanzioni collettive, che sono controproducenti. Tuttavia non bisogna pensare che tutte le tribù del Sinai abbiano aderito alla causa jihadista (non è questo il caso) e occorre riconoscere che l’esercito ha ottenuto qualche importante successo e ha fatto progressi notevoli, anche se la strada è lunga per non dire interminabile. La sfida libica è diversa. La Libia è diventata un gigantesco mercato d’armi e approvvigiona sia l’Africa sub-sahariana, sia Gaza e il Sinai. Isis si è installata a Derna e a Sirte. Tra i suoi ranghi si contano 5000 combattenti, dei quali alcuni sono libici, ma la maggioranza è yemenita. La soluzione “intervento militare esterno” è rischiosa e in Egitto nessuno la auspica, ma non si può escluderla definitivamente. L’ideale sarebbe una soluzione politica che consenta di formare una burocrazia, ricostruire un esercito libico e disarmare le milizie. Su questo punto, per quanto difficile sia, tutti i Paesi limitrofi sono d’accordo, anche se l’Egitto a volte dà l’impressione di rifiutare questa idea ed essere tentato dalla soluzione di una zona tampone. Il problema delle autorità cairote sembra piuttosto il ruolo da attribuire ai Fratelli Musulmani libici in un’eventuale coalizione nazionale al potere. Questi ultimi infatti reclamano uno status che probabilmente è coerente con il loro potere militare, ma che è di gran lunga superiore al loro peso elettorale, quale è emerso alle ultime elezioni. Incognite irritanti sono anche la capacità dei Fratelli di mantenere aperti canali di trasmissione con le milizie jihadiste e i rapporti con l’organizzazione internazionale della galassia islamista. La mancanza di fiducia si traduce in molti modi: per esempio, i colpi sferrati dall’Egitto contro Isis sono stati coordinati con il potere legittimo (ma minoritario), e non con i Fratelli libici, che non ne sono stati informati. Questi ultimi hanno reagito diffondendo menzogne spregevoli, attribuendo la decapitazione dei copti ai servizi egiziani e sostenendo che questo crimine non era stato commesso in Libia. È troppo presto per sapere se le congetture contrastanti, le ambizioni rivali e l’assenza di organi statali reali saranno ostacoli insormontabili. Le milizie islamiste inoltre sfruttano i dissensi tra Paesi limitrofi; la Tunisia non possiede un esercito, cosa che la rende più incline a cercare un accordo con gli islamisti.