In un’ampia e rara intervista al quotidiano Al-Masry al-Yowm, l’imam Ahmad al-Tayyib, shaykh della moschea di al-Azhar, spiega come si posiziona la grande istituzione egiziana rispetto all’invito di al-Sisi a promuovere un pensiero più illuminato all’interno dell’Islam. In particolare affronta il tema della deriva violenta di alcuni elementi che si dichiarano musulmani e del ruolo effettivo di al-Azhar nella comunità islamica.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:25

Mentre nel quarto anniversario della Rivoluzione l’Egitto vive le sue convulsioni politiche, nel Paese continua il dibattito sull’Islam e sulle sue interpretazioni, dopo che il 1° gennaio scorso il presidente egiziano al-Sisi aveva chiesto alle autorità islamiche di «uscire» da un pensiero religioso percepito come una minaccia da gran parte dell’umanità per produrre un pensiero più «illuminato». A conclusione del suo appello, al-Sisi si era rivolto con tono solenne all’imam Ahmad al-Tayyib, shaykh della moschea di al-Azhar: «Lei ha una grande responsabilità davanti a Dio. Tutto il mondo si aspetta una parola da Lei». E le parole dello shaykh non si sono fatte attendere.

Tra le iniziative prontamente intraprese dall’importante guida religiosa per dar seguito all’invito di al-Sisi spicca la lunga intervista apparsa il 14 gennaio scorso su Al-Masry al-Yowm, la «prima rilasciata a un giornale del Medio Oriente da quando ha assunto il suo incarico», come con orgoglio riporta la testata. Lo shaykh ha toccato molti temi: il ruolo di al-Azhar, l’estremismo islamista, la formazione degli imam, l’insegnamento religioso, l’attentato a Charlie Hebdo, i rapporti con i Fratelli Musulmani e con lo Stato egiziano.

«La missione di al-Azhar – ha detto al-Tayyib – è presentare il carattere mediano e tollerante dell’Islam (…). Al-Azhar è pienamente consapevole del fatto che ci troviamo in mezzo alle onde impetuose provocate dai grandi cambiamenti e dai conflitti politici, economici, sociali e culturali e che la religione è una delle carte che i contendenti tentano di giocarsi nella lotta (…). Al-Azhar si adopera giorno e notte per contrastare queste onde (…), ma non tocca solo a lei farlo perché questo deve avvenire anche a livello dello Stato con la cooperazione del ministero dell’istruzione». Inoltre, aggiunge l’imam, «nessuno può dire che l’estremismo verrà cancellato dalla società con facilità o in poco tempo. Ci troviamo di fronte a un fenomeno sociale con un radicamento decennale».

L’intervista dedica poi abbondante spazio a una questione molto “egiziana”, ma che non è priva di analogie con il dibattito che si registra in altri contesti, anche occidentali, cioè il profilo e la formazione dei predicatori che parlano dai pulpiti delle moschee. Commentando la decisione dello Stato egiziano di vietare l’accesso ai pulpiti a chi non sia in possesso di un diploma di al-Azhar, lo shaykh è convinto che sia «un passo che va nella giusta direzione», visto che «vista la loro rilevanza e funzione, non è possibile lasciare i pulpiti nel caos in cui versavano in precedenza». Sollecitato a rispondere sui metodi di insegnamento di al-Azhar, recentemente messi sotto accusa da alcuni intellettuali, al-Tayyib invita l’intervistatore a riflettere sul fatto che «tranne una sola eccezione, nessuno degli ideologi dell’estremismo e del radicalismo di tutto il mondo si è diplomato ad al-Azhar (…) ed è perciò spiacevole che al-Azhar sia continuamente accusata di essere responsabile del terrorismo».

Riguardo agli attentati di Parigi lo shaykh afferma che «tra i modi di difendere l’Islam e il suo profeta non ci sono l’uccisione barbara e i massacri, il cui prezzo è pagato dai musulmani di ogni parte del mondo», e precisa che «i musulmani sono ovunque chiamati a condannare e a rifiutare pubblicamente atti criminali come questo». Tuttavia, interrogato su come sia possibile che un persona che pronuncia la shahâda (la professione di fede) decapiti un altro uomo e dichiari di essere musulmano, al-Tayyib fa riferimento alla distinzione tra peccatore e miscredente, tema cruciale e dibattuto nell’Islam fin dalla primissima riflessione teologica (VII secolo).

I jihadisti restano musulmani e non possono essere dichiarati miscredenti, altrimenti si aprirebbe un ciclo di condanne reciproche senza fine. Si domanda infatti al-Tayyib: «In quale fattispecie rientra un musulmano che decapita un altro musulmano? Nel taglione. Deve essere ucciso così come ha ucciso, ma non è un miscredente, perché la miscredenza è un’altra cosa e colui che crede in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri, nel suo profeta, nel giorno del giudizio e nei decreti divini è un credente e non può essere accusato di non esserlo. E se commette un peccato grave come uccidere un uomo o bere del vino diventa un miscredente? No. (…) Se apriamo la porta dell’anatema non si salverà nessuno».

È infine interessante rilevare l’insistenza con cui al-Tayyib si premura di delimitare la funzione e le prerogative della moschea di al-Azhar, un’istituzione che a torto viene spesso descritta come il centro del sunnismo mondiale o addirittura il “Vaticano dell’Islam”: «L’opinione di al-Azhar non è vincolante, e noi non siamo una magistratura che emette sentenze né un organo esecutivo che può promulgare dei decreti. Non abbiamo un bastone con cui punire chi non si conforma alla nostra opinione. (…) Non esercitiamo alcuna tutela né siamo un potere religioso». In generale, l’imam non nega l’esistenza di problemi all’interno della moschea, ma respinge sistematicamente i tentativi di dipingerla come fomentatrice di quella violenza di cui parte dell’Islam è oggi malato. Le parole di al-Tayyib sono rappresentative di una cultura religiosa probabilmente piuttosto diffusa nelle società islamiche, che condanna senza reticenze le violenze perpetrate in nome di Dio, ma è in maggiore difficoltà quando deve interloquire positivamente con le istanze della società contemporanea e con le aspirazioni che le Rivoluzioni arabe hanno portato in superficie anche se in maniera apparentemente fugace.

Si tratta peraltro di una posizione scomoda, perché presa nella morsa di una duplice contestazione. Da un lato quella islamista, per la quale la quantità e la qualità dell’Islam presenti nella società non sono mai sufficienti. Il giorno prima della pubblicazione dell’intervista, un importante studioso della stessa moschea di al-Azhar, Muhammad ‘Imara, vicino ai Fratelli Musulmani, denunciava «l’inaridimento delle fonti della religiosità in Egitto». Dall’altra quella modernista, che senza mettere direttamente in discussione il ruolo della religione nella società, vorrebbe un Islam finalmente conciliato con la ragione e la scienza e capace di lasciarsi alle spalle una tradizione che contempla l’uccisione dell’apostata, la discriminazione tra musulmani e non musulmani, la sottomissione della donna, come ha scritto l’analista ‘Adil Numaan sullo stesso giornale che ha ospitato l’intervista allo shaykh di al-Azhar.

Dopo il discorso del presidente al-Sisi la partita tra queste diverse letture è aperta, almeno in Egitto. In assenza di un’autorità religiosa deputata all’interpretazione corretta dell’Islam (lo ha ricordato lo stesso shaykh), il ruolo di arbitro spetterà probabilmente alla politica. E, se ne avrà la forza, alla società civile.