Storia del principe ereditario saudita e della sua sconfinata ambizione. Recensione di Ben Hubbard, MBS: The Rise to Power of Mohammad Bin Salman

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:53

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Recensione di Ben Hubbard, MBS: The Rise to Power of Mohammad Bin Salman, Tim Duggan Books, New York 2020.

 

Chi è davvero Mohammad Bin Salman, il principe ereditario saudita divenuto famoso con l’acronimo MBS? È questa la domanda di fondo a cui Ben Hubbard, corrispondente del New York Times dal Medio Oriente, cerca di dare risposta nel suo MBS: The Rise to Power of Mohammad Bin Salman. L’opera non è però una semplice biografia del principe ereditario, ma un racconto della sua ascesa al potere e delle ricadute che questa avrà sull’Arabia Saudita.

 

Poco si sa sull’infanzia del principe, nato il 31 agosto del 1985: non erano molti infatti a prestare attenzione a quello che era solo il «sesto figlio del venticinquesimo figlio di re Abdulaziz» (p.10). Egli trascorre i primi anni di vita insieme ai fratelli e alla madre, seconda moglie dell’allora governatore di Riyadh e oggi re Salman, lontano dai palazzi governativi della capitale. La morte di due figli di Salman all’inizio degli anni 2000 segna però una svolta nella vita di MBS, che si avvicina di più al padre e inizia a tessere rapporti con i funzionari di palazzo. A differenza di molti esponenti della famiglia reale, MBS studia in patria, laureandosi in legge alla King Saud University di Riyadh, e mastica solo poche parole di inglese, dimostrando di apprezzare «le tradizioni del deserto, come suo padre» (p.17). Ma MBS è anche un figlio del XXI secolo, appassionato di videogiochi, film hollywoodiani e Facebook. Durante gli anni dell’università, il principe mostra un certo risentimento nei confronti di altri principi più ricchi. MBS è però ambizioso – Alessandro Magno e Margaret Thatcher sono i suoi modelli di riferimento – e si lancia in alcune attività speculative nella finanza e nell’edilizia. L’ambizione del principe è sostenuta da un carattere forte e privo di scrupoli, che lo porta per esempio a recapitare una pallottola a un funzionario del catasto per “ammorbidirlo” in un passaggio di proprietà. L’intronizzazione di re Salman nel 2015 spalanca le porte dei palazzi del potere al giovane e inesperto MBS, nominato Ministro della Difesa e messo a capo della Corte Reale. Inizia qui il tortuoso percorso che porterà il principe a diventare al contempo «numero 1 e numero 2» (p. 269) della monarchia.

 

Hubbard ripercorre il ruolo centrale del principe ereditario nell’affrettato processo decisionale che conduce all’intervento in Yemen, nella decisione di sequestrare l’allora Premier libanese Saad Hariri, colpevole di essere sceso a patti con Hezbollah, e nella formazione di un comitato anti-corruzione che rinchiuderà oltre 350 persone nel Ritz-Carlton di Riyadh e bloccherà quasi 2000 conti correnti. Un capitolo è dedicato anche alla rottura dei rapporti con il Qatar, avvenuta su suggerimento del de facto regnante emiratino Mohammed Bin Zayed, ritratto come guida, e a tratti manipolatore, di MBS. In questa fase, il principe cerca di scalare ulteriori posizioni nelle gerarchie di palazzo. E dove non riesce istituzionalmente, assumendo il comando di organi di governo, ricorre alla forza. Oltre ai casi già citati, Hubbard descrive le pressioni esercitate da alcuni aiutanti di MBS su Mohammed Bin Nayef, allora principe ereditario, per farlo abdicare. Una figura chiave dell’entourage di MBS, che ha contribuito in modo rilevante a silenziare le voci critiche nei confronti del nuovo principe ereditario, è Saud al-Qahtani. Già nel 2015, questi aveva convinto un MBS molto sospettoso delle trame di palazzo che «la conoscenza delle arti oscure della tecnologia lo avrebbe aiutato ad affermarsi» (p. 139). È proprio con l’aiuto di al-Qahtani che MBS, consapevole del ruolo dei social media nell’influenzare l’opinione pubblica, «trasforma l’Arabia Saudita in un laboratorio per un nuovo tipo di autoritarismo elettronico» (p. 140). Al-Qahtani non è però solo consigliere del principe, ma gioca un ruolo attivo nel progetto di epurazione dei dissidenti. In primo luogo, lancia una campagna su Twitter in cui chiede ai sauditi, molto attivi sul social, di bollare le personalità scomode con l’hashtag #The_Black_List, in una sorta di Maccartismo 2.0. L’operato di al-Qahtani, ribattezzato il “Signore delle Mosche” per l’esercito che controlla sulle piattaforme online, si estende però anche nel mondo reale, dove arriva a guidare il “Gruppo di Intervento Rapido”, una squadra impegnata «nel controllo, persecuzione e rapimento di cittadini sauditi all’estero, arrivando persino a torturarli in palazzi di proprietà di MBS» (p. 144).

 

Consolidare il potere nel Regno non è però sufficiente. MBS capisce infatti che a dover cambiare è l’immagine dell’Arabia Saudita nel mondo. Hubbard si concentra innanzitutto su una tematica molto cara agli osservatori occidentali, ovvero la rimozione del divieto di guida imposto alle donne, dedicando un paio di capitoli alla storia dell’attivismo rosa saudita dagli anni ’90 a oggi. La creazione della General Entertainment Authority, sempre capeggiata da MBS, è invece lo strumento principale per il lancio di un’industria locale dell’intrattenimento, una novità per il Regno. La narrazione di un ritorno a un Islam moderato pre-1979 è un altro tema ricorrente nelle parole del principe, nonostante questa retorica non regga alla prova dei fatti. Anche il lancio del progetto Vision 2030, elaborato dal Boston Consulting Group, e l’annuncio della quotazione in borsa di Saudi Aramco vorrebbero veicolare un’immagine di apertura, trasparenza e modernizzazione che guarda con attenzione all’Occidente. Tutti questi elementi diventano così i cavalli di battaglia di MBS durante le sue visite negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Hubbard racconta come già nel 2015 durante gli incontri fra re Salman e alti funzionari americani, incluso il Presidente, «MBS si sedesse in un’altra stanza e con un tablet comunicasse i punti salienti dei discorsi al re» (p. 102). È però l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump e, più nello specifico, del suo genero e senior advisor Jared Kushner a riavvicinare Riyadh e Washington dopo le frizioni che avevano caratterizzato l’amministrazione Obama. Hubbard descrive come Kushner sia «un re, ma nello stile del New Jersey» (p. 109) e come i due “principini”, così li chiama l’autore, «siano poco interessati ai limiti imposti dalle strutture governative» (p.113). Al di là degli interessi statali convergenti, sono dunque le affinità personali ad aver cementato il rapporto fra Kushner e MBS.

 

Trasversale all’opera, e quasi a voler simboleggiare il legame fra Washington e Riyadh, è il racconto delle vicissitudini del giornalista Jamal Khashoggi, diventato voce critica di Riyadh dopo aver sostenuto l’intervento saudita in Yemen. La vicenda di Khashoggi viene riportata, anche dal punto di vista umano, attraverso i messaggi scambiati con Maggie Mitchell Salem, amica americana di lunga data del giornalista e direttrice esecutiva della Qatar Foundation International. Hubbard, nel descrivere il periodo trascorso da Khashoggi in America dopo la fuga forzata dall’Arabia Saudita, ricostruisce dettagliatamente le visite del giornalista alle rappresentanze diplomatiche saudite, dalle quali traspare una sua crescente preoccupazione. Il lungo elenco di questi colloqui si conclude con la visita al consolato saudita di Istanbul, da cui Khashoggi non uscirà più. Ed è proprio la morte del giornalista, anche in questo caso orchestrata da al-Qahtani e portata a termine da un commando di 15 sauditi, che scuote il rapporto fra Washington e Riyadh. Improvvisamente, tutte le iniziative promosse da MBS e apprezzate nel mondo vengono oscurate dalla guerra in Yemen, dalla repressione della società civile e da tutte quelle pratiche che il principe aveva portato avanti in modo opaco in Arabia Saudita. Hubbard nota infatti come «solo la Casa Bianca abbia difeso MBS» (p. 273), mentre altri colossi dei settori più disparati, come Virgin Group, Blackstone Group, Uber e SoftBank, abbiano rinunciato ad impegni commerciali con il Paese. Se MBS aveva cercato di presentarsi come unico modernizzatore del Regno, la morte di Khashoggi ha messo chiaramente in evidenza la ferocia della sua repressione e le sue pulsioni accentratrici.

 

L’analisi di Hubbard si ferma all’estate 2019 e di conseguenza non arriva a trattare gli sviluppi più recenti. Eppure, a poco più di un anno e mezzo dalla morte di Khashoggi, lo schema portato avanti dal principe e delineato dall’autore non sembra cambiato di molto, a parte una parziale correzione di rotta nell’atteggiamento in Yemen. L’ex principe ereditario Mohammed Bin Nayef è stato arrestato insieme ad un altro esponente della vecchia guardia. L’abolizione della fustigazione come pena corporale si iscrive perfettamente in quelle riforme iniziate con la concessione della patente alle donne: cambiamenti positivi, ma che incidono poco sulle libertà politiche dell’individuo. La decisione di acquistare la squadra di calcio inglese del Newcastle è stata definita da Amnesty International un’iniziativa di “sportswashing”, un concetto traducibile con “ripulire la propria immagine attraverso lo sport”. Eppure, il 96,7% dei tifosi si è dichiarato favorevole al cambio di proprietà. Negli stessi giorni, intanto, Abdullah al-Hamid, sostenitore delle proteste civili non violente come forma di raccomandazione pubblica alternativa alla nasīha – il tradizionale monito indirizzato dagli uomini religiosi ai governanti – moriva in carcere scontando una condanna di 11 anni per attivismo. Allo stesso modo, la principessa Basmah Bin Saud, cugina di MBS e attivista per i diritti umani, denunciava di essere trattenuta senza alcun processo nella prigione di al-Ha’ir. Infine, il leader tribale Abdul Rahim al-Hwaiti veniva ucciso durante scontri nell’area in cui dovrebbe sorgere NEOM, la città futuristica che MBS ha identificato come simbolo della modernizzazione del Paese.

 

Il percorso che ha portato MBS a diventare primo in linea di successione all’attuale monarca è dunque un processo di «rimozione dei tradizionali pilastri del potere, quali il clero, l’élite economica e la famiglia reale allargata» (p. 208) e di tutti gli ostacoli alla sua ambiziosa visione. Un tale operato, oltre a spingerlo a un passo dal trono, ha garantito a MBS il supporto di nuove frange della popolazione, in particolare i giovani. «Noi lo amiamo. È un giovane molto simile a noi» (p. 211), racconta una ragazza saudita all’autore. D’altra parte, va notato come la concessione della patente alle donne e l’apertura di cinema e spazi di intrattenimento abbiano poco a che fare con l’empowerment della società civile o la promozione di un governo più democratico. Piuttosto, per usare l’espressione di Stéphane Lacroix, esse vanno lette come le iniziative di un «autocrate modernizzatore», interessato esclusivamente a consolidare la propria posizione e disposto a fare concessioni strumentali solo su alcuni temi, senza erodere la sua autorità. Ad accompagnarlo nella sua scalata al potere non vi è né l’establishment religioso saudita né gli esponenti più navigati della corte, paranoicamente etichettati come potenziali minacce, ma un cerchio magico di figure emergenti che si caratterizzano «per ciò che il principe apprezza di più: cieca lealtà» (p. 128). Non è dunque un caso che, per esempio, al-Qahtani, l’eminenza grigia in controllo dei social network e punto di riferimento del principe per le questioni di spionaggio, nel non lontano 2015 sia stato truffato più volte sul sito Hack Forums. È dunque la lealtà di al-Qahtani, e non la sua competenza o esperienza, a renderlo un alleato prezioso.

 

La ricostruzione di Hubbard è precisa, disseminata d’interessanti dettagli e arricchita dal parere di studiosi di primo piano, come è il caso di Stéphane Lacroix quando si parla del contesto religioso saudita. Lo stile giornalistico rende facilmente fruibile il testo, mentre la conoscenza approfondita della realtà che racconta contribuisce a dare spessore all’opera. Proprio per questo colpisce il poco spazio riservato ad alcune tematiche, come la gestione delle politiche petrolifere e l’esecuzione dello shaykh sciita Nimr al-Nimr, che incrinò definitivamente i rapporti già logori con Teheran. Va inoltre notato come i capitoli siano suddivisi tematicamente, rischiando di apparire ad alcuni lettori scollegati e non garantendo continuità agli argomenti trattati. D’altra parte, questa struttura permette al meglio di apprezzare tutte le contraddizioni che caratterizzano l’ascesa al trono di MBS. Dal testo trapela una personalità a tratti paranoica, con atteggiamenti estremamente ambivalenti, costellati di affermazioni e negazioni, tesi non suffragate dalla realtà e continui aggiustamenti della propria posizione. A collegare tutti questi comportamenti è però la ricerca smodata del potere e una gestione personalistica dello Stato, una versione saudita de L'état, c’est moi di Luigi XIV, perché alla fine, scrive Hubbard, «una monarchia assoluta è essenzialmente una democrazia del singolo» (p. 277).

 

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