Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:42:03

“Un nuovo ’89”: così alcuni osservatori, soprattutto tra i giornalisti che hanno assistito alle manifestazioni di Piazza Tahrir, definiscono il movimento che ha portato alla fuga di Ben Ali in Tunisia, alle dimissioni di Mubarak in Egitto e che in queste ore scuote potentemente la Libia. Che cosa sta succedendo in Medio Oriente? Il paragone con i fatti dell’89 ha senso o è un’esagerazione giornalistica? Dove arriverà l’onda lunga della protesta? E perché nessuno o quasi l’ha prevista? Sono queste alcune delle domande che si affacciano con più insistenza. Su Avvenire, Luigi Geninazzi e Riccardo Redaelli hanno già sottolineato aspetti inediti (che sconsigliano paragoni), incognite (che inducono a prudenze) e promesse che motivano quegli interrogativi. È naturale che la maggior parte rimanga ancora senza risposta: i processi storici coinvolgono la libertà dei singoli e sono perciò indeducibili a priori. Alcuni elementi di riflessione tuttavia si possono già indicare. Il primo è la nuova fortuna della parola “rivoluzione”. I giornali tunisini ed egiziani non parlano soltanto di intifâda (“rivolta”), ma apertamente anche di thawra (“rivoluzione”). Per comprendere la portata della scelta lessicale, si tenga presente che in Egitto o Tunisia la Rivoluzione per antonomasia era finora quella che negli anni Cinquanta si era conclusa con la cacciata dei poteri coloniali diretti (francesi) o indiretti (Re Farouq e gli inglesi). La nuova rivoluzione invece si è appuntata contro avversari interni con l’obiettivo di far cadere il regime. Come ha scritto Malika Zeghal commentando a caldo i fatti tunisini sulla newsletter di Oasis, «Ci troviamo ora ben al di là di un nazionalismo che si definiva in rapporto all’altro (il colonizzatore e l’occidente) o attraverso certe ideologie». Il passato coloniale sembra finalmente archiviato, anche come immaginario. Non si tratta peraltro neppure della rivoluzione islamica tout court che ha conosciuto l’Iran nel 1979. Anche se la componente islamista è ben rappresentata, prevale per ora un riferimento a valori universali come la triade «lavoro-libertà-dignità nazionale» in Tunisia. In Egitto il tema principale è la lotta alla corruzione, con innumerevoli arresti di ministri, uomini d’affari e personalità illustri. È questo il significato di “rivoluzione” dopo il crollo delle ideologie? In realtà un’ideologia è presente, soprattutto in Egitto, meno in Tunisia. Si tratta dell’Islam politico. La domanda su cui si è incentrata finora l’attenzione di molti analisti è in che misura i movimenti islamisti, prima di tutto i Fratelli musulmani, mantengano nei fatti la visione teorica per cui l’Islam fornisce un modello politico immediatamente applicabile e in grado di risolvere tutti i problemi, e in che misura invece abbiano virato verso posizioni che, limitando le tentazioni egemoniche, riconoscono un certo grado di mediatezza all’azione politica rispetto ai principi religiosi ispiratori. L’Islam è la soluzione è e rimane il celebre slogan dei Fratelli musulmani, ma come si declina oggi concretamente? Si tratta di una domanda molto rilevante, ma forse – e questa è la terza osservazione – non la più rilevante. Che è piuttosto se per i giovani manifestanti la priorità sia davvero l’instaurazione di uno Stato islamico. Qualche giorno fa lo Shaykh al-Azhar è dovuto intervenire per mettere in guardia la Costituente dall’ipotesi di modificare l’articolo 2, che stipula che l’Islam è religione di Stato e dichiara la sharî’a la fonte principale della legislazione. Già la presa di posizione dello Shaykh la dice lunga. Ma la cosa più interessante sono stati i 322 commenti alla notizia che si potevano leggere qualche giorno fa sul sito del quotidiano Ahrâm. C’è chi appoggia in pieno lo Shaykh e dichiara che la rivoluzione è tutta una macchinazione dei cristiani (autori a loro avviso della strage di Alessandria), c’è chi più pacatamente invita gli egiziani a non essere “più realisti del re” osservando che molti Paesi europei riconoscono nella Costituzione una religione di Stato; altri ancora ritengono che mantenere l’articolo 2 sia nell’interesse prima di tutto dei copti, «perché la legislazione islamica li protegge». Ma circa una metà dei pareri è negativa. Sono cristiani che scrivono (lo si capisce dai nomi), ma anche “egiziani” (senza ulteriore qualifica confessionale) e molti musulmani. Dichiarano “la religione a Dio e l’Egitto per tutti” o liquidano la presa di posizione delle autorità religiose con un lapidario “è finito il tempo dell’ingerenza”. Altri domandano uno stato civico (dawla madaniyya), parola che nel mondo arabo indica uno stato laico non ostile alla religione. Molti mettono in guardia: le autorità «stanno cercando di giocare di nuovo il vecchio gioco», dividendo cristiani e musulmani. C’è anche chi si domanda: se l’Egitto deve restare uno stato islamico, perché protestare tanto contro il vicino Stato ebraico? Anche facendo la tara sul fatto che l’enorme massa di poveri che vive in Egitto non si trova rappresentata nei commenti sui forum perché non ha modo di accedere a Internet, l’impressione è che il dibattito sia apertissimo e tutt’altro che scontato nei suoi esiti. Da ultima, la questione libica. Nonostante alcuni elementi di analogia (il ruolo dei giovani nella protesta, la richiesta di maggiore libertà, il tam tam dei new media) la situazione è molto diversa rispetto a Egitto e Tunisia, anche solo per il relativo benessere che la Libia, forte dei proventi del petrolio e malgrado le malversazioni del clan Gheddafi, può vantare rispetto ai suoi vicini. Come è ormai chiaro, è in corso una guerra civile e il fattore determinante è l’orientamento delle tribù, unico reale corpo intermedio del Paese, dal momento che la società civile e ogni forma di opposizione è stata brutalmente soffocata per anni nel culto della personalità di Gheddafi e delle sue deliranti “intuizioni” politiche. Non molto tempo fa la Libia chiedeva all’ONU lo smembramento della Svizzera tra Italia, Francia e Germania. Episodi come questi forniscono la misura della distanza che separa il Paese dai suoi vicini nordafricani. E invitano perciò a grande prudenza nell’applicare alla Libia le stesse chiavi di lettura di Egitto e Tunisia. * Una versione abbreviata di questo articolo è stata pubblicata su Avvenire, 19 febbraio, p. 2.